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Fra la terra e il cielo della lingua

Storie e meditazioni

di Andrea Nuti

Come si legge nella quarta di copertina, La memoria delle piante di Velio Abati [cfr. anche qui] è un romanzo che recupera e intreccia storie di un’umanità prevalentemente contadina, sfruttata e sconfitta ma mai rassegnata, sempre descritta nella inscindibile relazione con la terra e gli animali. L’autore racconta di questo mondo perché a questo mondo appartiene per ragioni biografiche e di questo mondo intende cogliere le relazioni fra le varie generazioni. Le storie dei personaggi del Podere del Diavolo, di Ruffilla, di Camara, di Lorediano, di Sapìo e Catalina, sono recuperate nella profondità di differenti epoche attraverso un lavoro di scavo insieme storico, antropologico e quasi archeologico. Lo scrittore le fa riemergere, vuole in ogni modo farle uscire dall’evanescenza del sogno per proporle al lettore nella loro concretezza simbolica di cui sono fatti i nostri pensieri e i nostri corpi e lo fa attraverso la lingua, vera protagonista del romanzo.
La voce dell’io narrante utilizza registri linguistici molto differenti che vanno dalla dimensione popolare e terrigna, sempre altamente nobilitata e amata, fatta di arcaismi, dialettismi, fino a quella alta ed erudita con richiami letterari, momenti lirici e meditazioni. La mutevolezza e pluralità dei registri linguistici e l’intreccio delle varie storie fanno sì che la lettura non sia di immediata fruibilità e che anzi richieda di essere lettori attenti, desiderosi della relazione e della partecipazione all’avventura creativa. D’altra parte questo è un tratto stilistico di Abati che ritroviamo anche nelle sue opere precedenti, ma è anche il fascino maggiore del romanzo. Il sedimento linguistico e culturale che riemerge ha una profonda connotazione etica è come un mosaico o un dipinto riportati alla luce, che ci interrogano sul rapporto col passato e sul valore, la cura delle parole, soprattutto in una fase storica, la nostra, in cui la decadenza sembra esprimersi soprattutto nella povertà linguistica del presente, fatta di slogan, acronimi, inglesismi, cui si unisce la manipolazione e strumentalizzazione della storia schiacciata sul presente.
La partecipazione attiva del lettore è reclamata dallo scrittore anche dai particolari movimenti dell’io narrante. L’autore mette insieme in questo romanzo, caratterizzato come il precedente Domani da una forte e orgogliosa sperimentazione linguistica, un io narrante e la narrazione collettiva. L’io narrante cambia però frequentemente punto di osservazione; questo fa sì, come bene scrive Walter Lorenzoni che, “chi legge debba sempre sorvegliare l’atto della lettura e debba mutare costantemente il punto in cui collocarsi perché chiamato di continuo a prendere una posizione morale” rispetto agli ultimi di cui si parla. D’altra parte proprio questa costante ridefinizione del punto di vista di chi legge sembra permettere, come suggerisce Mario Fraschetti, una nuova particolare possibilità, quella cioè di leggere il testo partendo da differenti punti e intrecciando le parti in modi di volta in volta differenti.
Col titolo La memoria delle piante non ci si riferisce dunque solo alla ormai effettiva consapevolezza scientifica della presenza di una memoria nelle piante, ma anche e soprattutto alla stretta dipendenza e corrispondenza fra uomo e natura, alla profondità e complessità delle radici delle piante che si intrecciano e in virtù di questo intreccio e di questa profondità restano vive. La memoria, nel romanzo, non è rievocazione, non è celebrazione, non è pathos emotivo ma radicamento storico intellettuale pensato, rielaborato, conosciuto e fatto riemergere attraverso la lingua. La memoria è la connessione delle generazioni unica possibile base di partenza per una nuova consapevolezza sociale. Come non cogliere la inscindibile relazione temporale fra il futuro di Domani e il passato di La memoria delle piante. In questo senso lo scrivere di Abati è sempre atto insieme etico e politico. La presenza delle radici diventa tanto più esplicita in considerazione di una forte presenza di positive figure paterne, tanto che la parola “babbo” è forse la più utilizzata di tutto il romanzo: “Quali facce, dico, qui con me, mute. O forse il nome sento. Celso?”
Se nel romanzo Domani si apprezzava soprattutto la straordinaria coralità, che, a fronte di un tempo frammentato, emergeva dalla trama linguistica dei suoni e delle voci dei contadini, si godeva di una struttura simbolica che riusciva ad anteporsi alla definizione degli stessi personaggi, diversamente, in questo la Memoria delle piante si impongono i momenti di riflessione e meditazione, come quando l’autore riflette sulla verità: “la verità non è docile […] la verità non è pietra, è un fuoco […] la verità ogni verità è storica […] la verità non è un dato è il prodotto della lotta […] Se prendiamo, non dico la storia umana ma l’essere umano, anzi un essere umano, in lui o in lei una mirabile stratificazione dei tempi ci toglie il respiro. Le verità loro proprie hanno durate assai diverse, ma nessuna è fuori del suo tempo”. Lo stesso registro lo si ritrova quando Velio si confronta col tema della libertà, della guerra, della memoria.
Alcune parti poi sono liriche di grande bellezza, soprattutto gli inizi e le conclusioni dei vari capitoli. “Invece il sole è signore del giorno. Asciuga la fronte, fruga i cretti della terra, assalta i sassi dei fossi. L’aria tremola i campi e sbianca le ombre, ma non una cicala, non un filo d’eco dai corpi degli olivi, dal folto dei grani. Nemmeno il mio grido esce di bocca”. L’autore intende provare che lirica, dialoghi, meditazione possono stare insieme, uniti dall’esperienza umana e intellettuale dello stesso scrittore. Le mani della zingara del Caravaggio in copertina sembrano proprio richiamare allo stesso tempo la grazia della scrittura quale lavoro intellettuale, ma anche la parte più concreta e pratica del lavoro della terra, richiamano la capacità di intuire il futuro attraverso le tracce e i solchi del passato; se le mani michelangiolesche della “Creazione di Adamo” non si toccano perché l’alto e il basso restano inesorabilmente separate, qui invece alto e basso si accarezzano e si sostengono.

 

Le contorsioni di Chiero (4)

di Ennio Abate

Ad Acerno conobbe pure – e poi si scrisse con lui una o due lettere – un simpatico giornalista  che si faceva chiamare Rik. Aveva i capelli rossicci, i baffetti alla Clark Gable e lavorava a Roma nella redazione de Il Vittorioso. Un giornale per ragazzi ben scritto e ben disegnato da gente che stava  dalla parte dei preti e della Democrazia Cristiana.
A Chiero i primi numeri – si era nel 1949 –  glieli avevano venduti in parrocchia e s’era subito appassionato. Nannìne, sempre con la preoccupazione di risparmiare perché in casa solo Mìneche portava lo stipendio,  cercò di frenare quelle piccole ma continue spese. Chiero leggeva, leggeva. Ora voleva farsi comprare un nuovo romanzo esposto nella vetrina della libreria delle suore Paoline – fosse Robin Hood o Ivanhoe.  Ora insisteva per ottenere da Eggidie anche i soldini del suo salvadanaio per correre a comprare i primi libri con la copertina grigia della BUR che cominciavano ad uscire. Di fronte ai rimproveri di Nannìne,  Chiero s’infuriò e strappò i giornali. Poi pianse e strillò  finché chella povera femmene per consolarlo finì  per fargli l’abbonamento a Il Vittorioso. Continua la lettura di Le contorsioni di Chiero (4)

Due scrittori “sitiani”

di Elena Grammann

L’antefatto è il saggio di Walter Siti Contro l’impegno, di cui ho parlato qui. Siti critica una letteratura che punta al raggiungimento di qualche tipo di effetto – terapeutico, sociale, politico – senza tener conto che il medium in cui vuole muoversi – la letteratura appunto – ha un’essenza e caratteristiche sue proprie che non possono essere ignorate in nome o con la scusa della “bontà” dell’effetto perseguito. Con questa tesi, e con la critica conseguente, mi sono trovata d’accordo. Tuttavia, che qualità debba possedere l’opera per centrare il bersaglio della letteratura rimane nel saggio abbastanza generico e gli esempi, soprattutto contemporanei, scarsi. Questo da un lato è legittimo, non essendo il tema la letteratura in sé, ma una certa produzione che gode del favore del pubblico senza incontrare rilevanti smentite da parte della critica. D’altro lato è chiaro che per promuovere o bocciare è necessario un quadro di riferimento abbastanza preciso, un’idea netta, benché forse non così facilmente enunciabile, delle caratteristiche formali[1] che un testo deve possedere per meritare la qualifica di letterario. Ma già questo – parlare di caratteristiche necessarie, ancorché definite in modo molto generale – ha attirato a Siti l’accusa di estetismo, crocianesimo, novecentismo, corporativismo ecc. Limitatamente al saggio, trovo queste accuse ingiustificate. Rimane però la curiosità di capire un po’ meglio che cosa, secondo il critico, faccia la differenza fra ciò che è letteratura e ciò che non lo è. Per capire meglio, ho provato a leggere qualcosa di due autori che Siti promuove[2]: Sandro Veronesi e Emanuele Trevi.

Cominciamo da Veronesi e dal suo Il colibrì (2019). Diciamo subito che Veronesi ha una scrittura più consapevole e “mediata” degli autori impegnati di cui parla Siti. E, se posso permettermi, la mediatezza mi pare la vera condizione necessaria della letteratura[3]. Necessaria ma non sufficiente. Man mano che avanzo nella lettura il suo romanzo mi appare sempre più insopportabilmente borghese – vorrei poter dire borghese fuori tempo massimo, ma dato che ha vinto lo Strega l’anno scorso evidentemente non è così, bisogna dire che il borghese vada di moda. A me comunque, di questi genitori colti, abbienti, ingegnere lui architetta lei, che si sono amati ma ora si odiano però i figli non devono accorgersene; e infatti i figli sono così tonti che non se ne accorgono e crescono sereni in mezzo ai libri, ai mobili rigorosamente d’autore, all’archivio architettonico-fotografico d’avanguardia della madre, ai modellini che tengono una stanza costruiti dal padre, e passano l’estate in Versilia nel casale ristrutturato; a me di Bolgheri, dei cipressi, del Gambero rosso, delle partite di caccia nella tenuta dell’amico, delle gare di sci e dei tornei di tennis, di tutte queste cose esibite come fossero le cose di tutti, non me ne importa assolutamente nulla. E anche le disgrazie e resilienze del colibrì, alias Marco Carrera, uno dei figli (e io narrante), i suoi sforzi eroici per tenere insieme la famiglia d’origine e quella che si è fatta, e già che c’è pure la relazione extraconiugale stilnovista, per tenere insieme queste cose disgraziate fin dall’inizio senza mai chiedersi perché lo siano, a me tutta questa così lodata “resilienza” mi commuove veramente poco.

Ma bando alle visceralità e cerchiamo di venire al sodo. Il colibrì vuole conservare. Cosa vuole conservare? La serenità, la felicità, l’amore. Non li può conservare perché, a ben guardare, non ci sono mai stati. I genitori, come detto, si detestano; la sorella maggiore, l’unica che vede chiaro nella situazione familiare, soffre di un forte disagio psichico e si suicida; il suicidio della sorella disgrega il disgregabile ma bisogna metterci una pezza e andare avanti (mai guardare indietro comunque, ai presupposti); il colibrì sposa, sulla base esoterico-scaramantica di una coincidenza, che si rivelerà ovviamente falsa, una malata di mente e non si accorge di nulla, convive otto o dieci anni con questa persona ma è talmente preso dalla relazione epistolare che intrattiene con la vera donna della sua vita, che non si accorge di nulla finché la malattia mentale della moglie, più la tresca platonica, non fanno esplodere il matrimonio – ma esisteva questo matrimonio? Il colibrì raccoglie i cocci e conserva. La morte ripassa con la falce e falcia i genitori. Il colibrì conserva la collezione Urania del padre, l’archivio fotografico della madre, la casa piena di mobili d’autore dove nessuno vive, i modellini ecc. Scrive mail commoventi al fratello sulla sua attività di conservazione. Il fratello, che non gli parla da anni, non risponde. E mai che il colibrì si interroghi sul senso di conservare qualcosa che, come ci ha raccontato fedelmente, in realtà non è mai esistito. La morte, testarda, ripassa. E qui finisce la parte interessante del romanzo[4], circa due terzi. L’ultimo terzo, che vorrebbe dare un senso alla resilienza e spirito di conservazione, sarebbe un manga mediocre anche se ci fossero i disegni. Perché si scopre che il senso della tenacia del colibrì si incarna nella nipote: Miraijin, 未来人, l’Uomo del Futuro, concepito per probabile partenogenesi, che salverà il mondo. In un romanzo di impianto realista. Non scherzo. L’ultimo terzo del romanzo è una sfida a restare seri. La qualità letteraria scende ai livelli del (da Siti) dileggiato D’Avenia, cioè al grado zero.

Sei prevenuta, si dirà, sei negativa, scegli di rappresentare le cose in una luce negativa, le cose non stanno proprio come le metti tu. Va bene, applichiamo il principio di carità. Non è vero che non c’è amore. I genitori, ognuno per conto suo e separatamente, amano i figli, almeno si presume. E il colibrì ama tutti, ha riserve di amore inesauribili, qualche volta perde la pazienza ma di massima li ama sconfinatamente tutti. Cosa c’è che non va allora, perché questo grande amore del colibrì non trova di meglio che sostanziarsi in un improbabile e fumettistico Uomo del Futuro?

Perché è un amore presupposto e non indagato. L’amore del colibrì c’è, è dato, alla stessa stregua del casale ristrutturato e dei mobili di design, è timbrato borghese come tutto, ma proprio tutto, ciò che compare in questo romanzo, è la cara vecchia virtù borghese che c’è anche se non c’è, che non c’è ma c’è, giratela come vi pare. Anche al netto dell’ultima parte, improponibile, il limite di questo romanzo – ai miei occhi un grosso limite – è che non si interroga sui suoi presupposti, non indaga; il colibrì è soprattutto uno che non vede quello che ha sotto il naso. Significativo che nel romanzo il lavoro di indagine (inutile perché va nella direzione sbagliata) sia demandato agli psicoanalisti, che il colibrì detesta. Il romanzo di Veronesi parte da un dato: l’esistenza borghese – ma potrebbe essere anche l’esistenza proletaria, l’esistenza miliardaria, non è questo il punto – e lo prende come un assoluto, non lo indaga mai. Allora, d’accordo con la critica della pseudoletteratura impegnata, ma se questo è ciò che Siti ha da opporre, è un po’ scarso.

Discorso completamente diverso per Emanuele Trevi. Trevi è uno scrittore fatto per piacermi. Premetto che di lui conosco le opere “meditative”, non quelle di finzione; per opere meditative intendo le tre[5] (finora) dedicate alle figure di intellettuali scomparsi – tutti, ad eccezione di Pasolini, appartenenti alla cerchia più o meno stretta dei suoi amici: Qualcosa di scritto (2012, Pasolini e Laura Betti), Sogni e favole (2018, Arturo Patten, Amalia Rosselli, Cesare Garboli), e l’ultimo, Due vite (2020, Rocco Carbone e Pia Pera), con cui ha vinto quest’anno lo Strega. Con un po’ di malignità si potrebbe dire che Trevi si è specializzato nel genere del necrologio letterario, e si potrebbe immaginare che nella cerchia degli amici qualcuno abbia cominciato a fare gli scongiuri. Malignità, ma che hanno la loro giustificazione nel tono elegiaco, di meditazione post mortem, che a Trevi riesce molto bene, davvero, e nell’impressione che, appunto perché gli riesce bene, lo scrittore applichi una ricetta di sicuro successo. Impressione confermata dal fatto che l’ultimo della serie, Due vite, è a mio parere il più debole, quello in cui il paradigma mostra segni di esaurimento. Ma correggo subito il tiro: le opere meditative di Trevi (di quelle parlo perché le altre non le conosco) sono tutte consigliate, leggerle non è mai tempo perso.

Letteratura meditativa dicevo – di sapore montaigniano, un trascorrere dal caso particolare alla considerazione generale: vasta, confortante perché generale, che ingloba altri casi, come in Montaigne indifferentemente contingenti o letterari, prelevati da una tradizione che agli umanisti appare più contemporanea del contemporaneo; come se non ci fosse in fondo differenza fra qualcosa di vero e qualcosa di scritto, fra reale e letterario – anzi, se è letterario tanto meglio perché soltanto il letterario è il veramente consolatorio[6]. Vedi ad esempio, nell’ultimo libro, il parallelo fra Pia Pera e la Tat’jana dell’Onegin:

C’è un dettaglio che mi sembra significativo dal punto di vista psicologico: Pia mi ha detto una volta che per lei la vera «scena madre» del libro [Evgenij Onegin] andava riconosciuta in un episodio del capitolo VII, quando Tat’jana, ancora innamorata di Onegin, alla [sic] quale attribuisce una luciferina grandezza, sfogliando i libri della sua biblioteca scopre che il carattere del giovane dandy è totalmente modellato sui libri di Byron e su qualche altro romanzaccio «in cui si rispecchia l’epoca». […] La rivelazione fa di Tat’jana una persona libera, ma non per questo è meno amara, perché ogni perdita d’innocenza aumenta in noi il senso desolante dell’estraneità di quel mondo che l’anima si ostina a scambiare per la propria casa. Rileggendo le strofe del capitolo, mi è sembrato impossibile non pensare a quante volte, e in quante imprevedibili maniere, Pia deve essersi imbattuta in simili delusioni, tanto più dolorose quanto più la sua anima limpida e sensibile aveva ribrezzo di ogni posa artefatta, di ogni scadente imitazione

O il parallelo, a proposito del giardino, fra Pia e Emily Dickinson, o quello, autoistituito, fra Rocco Carbone e Jay Gatsby:

Don Ciccio Ingravallo diventò il fantasma di un’epoca di adattamento ormai trascorsa. Adesso era Jay Gatsby a fornirgli un’idea totale di sé. Ahimè tutti questi specchi che ci offre la letteratura sono deformanti come quelli del luna park, ci rendono inverosimilmente smilzi e obesi convincendoci a riconoscerci nella deformazione. Non dico solo nei libri, ma nell’universo non c’è nulla che davvero ci assomigli, noi stessi non ci assomigliamo, e ogni forma di identificazione non è, in fin dei conti, che il casuale sovrapporsi di ombre fuggitive. È pur vero che Rocco nella parabola dell’eroe di Fitzgerald vedeva significati che non potevano lasciarlo indifferente. In Gatsby, come nel suo grande modello che era il Martin Eden di Jack London, un altro libro compulsato da Rocco come una Bibbia, il tema del venire dal nulla e dell’ascesa sociale diventa preponderante, e si lega non solo a una carriera (di attività illecite per Gatsby, letteraria per Martin Eden), ma al legame (impossibile) che unisce l’eroe a una donna di ceto nettamente superiore. Questo schema, ovvero la conquista della ragazza di buona famiglia, è stato talmente ripetuto e declinato in tutte le sue possibili sfumature da Rocco che mi riesce difficile non soffermarmi su questo aspetto della sua storia.

Trevi ha un bel dirci che “tutti questi specchi che ci offre la letteratura sono deformanti” – rimane il fatto che i suoi eroi in quelli si specchiano o vengono volentieri da lui stesso specchiati. E se “nell’universo non c’è nulla che davvero ci assomigli”, se “noi stessi non ci assomigliamo”, allora l’identificazione letteraria è un’identificazione come un’altra, per alcuni, fra cui Trevi, più affascinante di un’altra, come testimonia la cadenza proustiana (fuori tempo massimo): “[…] e ogni forma di identificazione non è, in fin dei conti, che il casuale sovrapporsi di ombre fuggitive”.

Quando Rocco Carbone rimproverava a Trevi di scrivere “prosa d’arte”, non aveva poi tutti i torti. Col massimo rispetto per le squisitezze treviane e la massima disponibilità a apprezzarle, le trovo molto ben fatte ma un po’ vecchie, un po’ qualunquiste. E a proposito di qualunquismo vorrei citare un ultimo brano:

Appartenevo anch’io, come tanti suoi amori, a quel ceto cui Rocco, con una ingenuità sorprendente per una persona della sua intelligenza, attribuiva ipso facto un’esistenza più facile e più protetta. E mi ostinavo a ricordargli che lui stesso non era cresciuto in un campo di profughi eritrei o in una favela brasiliana. Ok, si era fatto da solo, chi glielo negava; ma mitizzava eccessivamente delle differenze di origine e di educazione che mi sembravano delle semplici sfumature nel grande mare della normalità borghese. Quello che mi dispiaceva è che Rocco, in questi accessi di orgoglio e di rancore, perdeva di vista la singola persona a vantaggio di astrazioni sociologiche verosimili ma approssimative, come tutto ciò che riguarda l’umanità in generale. Mentre la vita delle singole persone, in quanto esseri mortali, è difficile senza distinzioni e certi vantaggi stabiliti dalla sorte possono rivelarsi degli ulteriori ostacoli, o risultare, a conti fatti, del tutto irrilevanti.”

Questo pezzo è un capolavoro di psicologia sociale, andrebbe analizzato nel dettaglio. Mi limiterò a estrapolare le “semplici sfumature nel grande mare della normalità borghese” e a rimarcare che anche Trevi, come Veronesi, ha un’idea molto ampia del “grande mare della normalità borghese”, che ingloberebbe tutto ciò che esula dai campi profughi e dalle favelas – che comunque esistono – e ne farebbe un medium sostanzialmente omogeneo, nel quale la differenza fra la situazione culturale della sua famiglia, l’ambiente sociale in cui era inserita, la città dove è nato e cresciuto, e, poniamo, la situazione culturale e l’ambiente in cui era inserita la mia, sarebbe una “semplice sfumatura”. A me sembra che qui l’ingenuo sia Trevi – e che da qualche parte dovrebbe pur saperlo. E direi che l’“astrazione sociologica”, nemmeno verosimile ma sicuramente approssimativa, è la sua, di Trevi, che della “normalità borghese” fa un paradigma dell’umanità in generale.

Concludendo: i due più recenti premi Strega, assegnati a autori apprezzati da Siti, sono andati a due opere che, pur con una notevole differenza di qualità, sono entrambe borghesi fino al midollo e, quel che più conta, mirano a un’identificazione dell’umanità con la borghesia. Ora, è vero che il più prestigioso premio italiano non è certo un marchio di qualità, ma sicuramente indica una tendenza, una certa piega. Nel nostro caso una piega – sia detto nel tono più neutro possibile – reazionaria.

A questo punto però sarebbe opportuno che Walter Siti esibisse le sue griglie di valutazione e precisasse la sua idea di letteratura.

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[1] Mi pare evidente che non di contenuti si può parlare. Ma “formali” non si riferisce alla “bella forma” dello scrivere; si riferisce invece ai presupposti impliciti che generano lo scrivere e dai quali dipende una certa qualità di base, letteraria o no.

[2] Non nel saggio, ma in alcune interviste.

[3] ‘mediata’ sarebbe qui il contrario di ‘immediata’. Con scrittura mediata intendo una scrittura che approccia le cose da una prospettiva sfumata, da un punto di vista obliquo, e ne vede lo spessore, mentre il modo diretto (immediato) non può che restituire una falsa superficie.

[4] Interessante perché in linea generale ben raccontata. Tranne le missive stilnoviste che sono, come si suol dire, al di sotto di ogni critica.

[5] Ho scoperto che ce n’è una quarta (ma cronologicamente una prima): Senza verso. Un’estate a Roma (2004), dove lo scomparso è il poeta Pietro Tripodo. Ma non l’ho letto.

[6] In un libro di 120 pagine stampate grandi, e al netto delle opere di Pera e Carbone, vengono citati una trentina di titoli, senza contare gli autori citati “in toto”.

memorie (uscire dal tempo 3)

           la frase finale de 'il mistero del falco':
           'questa è la sostanza di cui son fatti i sogni'

di Paolo Di Marco

1-le nostre memorie

La nostra coscienza, la nostra vita, il mondo che vediamo si fondano sulle nostre memorie. Se la coscienza è l’ordito le memorie sono la trama.
Non a caso molte sono le parti del cervello implicate nella memoria, dalla corteccia prefrontale all’ippocampo (v. figura), che trasforma le immagini in ricordi. Continua la lettura di memorie (uscire dal tempo 3)

Lui ha un’anima

di Franco Casati

   Il maestro abita in un vecchio casolare di campagna, con le porte e le finestre orlate di cotto, fiancheggiato da un alto fienile, naturalmente vuoto, percorso da rondini che intrecciano i loro voli fra i nidi e le grandi finestre diroccate. La casa è fronteggiata, a una certa distanza, da villette di recente costruzione, allineate lungo la strada provinciale. Egli è venuto ad abitarvi con la moglie dopo che gli ultimi proprietari l’hanno abbandonata, visto che i loro figli non ne volevano più sapere di lavorare i campi: tutti in città, a stipendio fisso e a orario sindacale. Continua la lettura di Lui ha un’anima

Tre prose da “Fughe”

 

di Velio Abati

 

Invito

Le prose qui raccolte lambiscono la gestazione del romanzo Domani e si dispiegano nel  secondo decennio, concluso dallo squarcio di verità di una sconosciuta frattaglia di men che vita. Con soffio leggerissimo ha traversato ogni confine biologico, nonché umano, a rammentare soprattutto a noi della parte di mondo che conta, i civili padroni, l’ordine delle cose, che nessuno può disfarsi della propria ombra, che la notte, mentre il giorno ancora affatica il sonno, alta nel cielo canta l’allodola.

Se scritti morali si uniscono ad altri narrativi fino a includere passi in versi che incrociano Questa notte, non è per sprezzo dei generi, perché anzi riconoscono il valore risignificante e la forza interdittiva di cui storicamente ciascuno si è incarnato, ma a imporlo è stato proprio il medesimo amore di verità.

Allo stesso modo, alla dispersione pulviscolare degli eventi dell’esistenza da cui le prose muovono, tenta di contrapporsi la spinta a un orizzonte di senso che genera sull’insieme effetti d’eco.

Giudicherà chi legge, se all’intento corrisponde il risultato, o se l’oscurità dei tempi ha meglio messo a nudo la mia debolezza.

Continua la lettura di Tre prose da “Fughe”