(e di altre stagioni più o meno belle della vita)
di Andrea Malagola
La lettura di questi due capitoli del romanzo d’esordio di Andrea Malagola, edito da Terre Sommerse, ci mette di fronte ad una inquietudine giovanile allo stato brado, vitale ma sempre sul filo della disperazione. Lasciamo stare i «Dolori del giovane Werther», «Il giovane Holden», il Paul Nizan di «Aden Arabia» («Avevo vent’anni. Non permetterò a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita»), le «macchine desideranti». Echi di tali libri pur potrebbero esserci. In queste pagine, però, la letteratura (intesa come disciplina della scrittura) secondo me funziona poco. E allora come introdurre per i lettori di Poliscritture una scrittura così immediata, sognante, ingenuamente provocatoria, almeno per un vecchio come me? No, mi sono, non cedere all’atteggiamento sprezzante dell’adulto e cinico architetto de «L’avventura» di Michelangelo Antonioni, quello che nella piazza di un paese siciliano rovescia di proposito un calamaio sul disegno che stava facendo un giovane ( qui) . Insinua il seme del dubbio e la scossa della critica dialogante. E perciò chiedo all’autore: Ma è poi grigia la periferia milanese? ( E Cologno Monzese?). E’ davvero selva oscura? Come fa un giovane ad essere così succube di un immaginario anni Settanta in buona parte falsato? (A Sesto San Giovanni, la “ex Stalingrado d’Italia”, davvero “la gioia dell’assalto al cielo” illuminò “la vita salariata degli operai”?). Fu Marx o furono i suoi moderati e spesso saccenti seguaci a immaginare soli dell’avvenire mai veramente sorti? E quante illusioni comporta il ritorno all’agricoltura di tanti giovani, se non avranno chiaro quanto ferrea è la gabbia del capitalismo mondializzato? [E. A.]
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