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Karel Jaromír Erben

E’ uscita la prima traduzione italiana delle 13 ballate, note in origine come “Kytice”, di Karel Jaromír Erben, importante poeta e folclorista ceco del XIX secolo. L’edizione è bilingue. Qui pubblico, ringraziando gli autori, la prefazione di Antonio Sagredo e tre delle ballate di Erben tradotte e curate da Paolo Statuti. [E. A.]

prefazione di Antonio Sagredo

  Karel Jaromír Erben nacque a Miletín il 7 novembre 1811 e morì a Praga il 21 novembre 1870 di tubercolosi. Fu etnografo, storico, poeta, scrittore e studioso del folclore ceco e slavo. Raccolse i canti e i detti nazionali ed elaborò tutte le leggende in modo artistico, preservando la loro freschezza originale.

È generalmente considerato il secondo più importante poeta del Romanticismo ceco, insieme con Karel Hynek Mácha (1810-1836), autore del famoso poemetto Maggio. In contrasto con l’enfasi posta da quest’ultimo sull’unicità e individualità della vita umana, Erben mette a fuoco la validità di una legge universale, interpretata di solito come Fato. Studiò in collegio a Hradec Králové. Nel 1831 si trasferì a Praga, dove si iscrisse alla facoltà di filosofia e in seguito a quella di diritto. Nel 1843 iniziò a lavorare nel Museo Nazionale, insieme con František Palacký (1798-1876), storico e politico, uno dei principali fautori della rinascita ceca. Nel 1848 diventò redattore della rivista Notizie praghesi, e due anni dopo fu nominato archivista del Museo Nazionale. Svolse questo impiego per lunghi anni e ciò gli permise di esaminare molti antichi documenti e di farsi una solida preparazione sulla storia ceca.

Tra le sue opere principali ricordiamo: una bella raccolta di sue poesie, i Canti popolari di Boemia, con 500 testi; i Canti popolari cechi e rime per bambini; Cento racconti e leggende slave nei dialetti originali, opera nota anche col sottotitolo Libro di lettura slava, influenzata dalle favole dei fratelli Grimm. In tutte le sue opere, sature di poetica popolare, egli affronta i temi dell’amore, della morte, della colpa e del castigo.

Nel 1853 Erben pubblicò Kytice z povĕstí národních, in italiano Un mazzetto di leggende popolari, una raccolta di 13 ballate diventata un classico della letteratura ceca, uno dei più conosciuti e amati dal popolo ceco. Alcune di esse sono affini a quelle di altri Paesi europei: ad esempio, L’arcolaio d’oro, colma di scene raccapriccianti,è simile a una vecchia ballata del confine anglo-scozzese e nelle Camicie nuziali, intrisa di vampirismo,si ritrova un motivo delle ballate tedesche.

La sostanza materiale delle varie ballate è data essenzialmente da un folclore ricchissimo di temi, di suggestioni, di storie che attingono a un mondo antico pagano, talvolta cristiano, il tutto pervaso da uno spirito slavo atavico che ha ben piantato le sue radici nelle varie aree geografiche, ciascuna con le proprie specificità.

Forse la matrice più evidente e importante di questo folclore ceco (boemo) lo si trova in quel vastissimo sentimento che fu la “fratellanza slava”, cioè delle genti di chiare origini slave, accomunate appunto da un sentire comune ma anche troppo idealistico. I primi assertori di questa fratellanza furono F. Palacký e P.J. Šafárik (1795-1861), che studiarono a Bratislava e che con il loro piccolo volume Inizi della poesia ceca, in particolare della prosodia suscitarono un gran clamore, anche perché vi era un non celato sentimento nazionalistico. Entrambi filologi e profondissimi conoscitori delle lingue e letterature slave, dettero un apporto notevolissimo, ciascuno nel proprio campo di ricerca, alla conoscenza di una cultura slava davvero originariamente antica: Šafárik con Antichità slave e, nello specifico, Palacký con la sua Storia della nazione ceca in Boemia e in Moravia.

Queste tematiche furono poi riprese con gran vigore sia da Jan Kollar (1793-1852) che da F.L. Čelakovský (1799-1852), ambedue imbevuti del sentimento della fratellanza fra popoli slavi e, come i primi due, di sentimenti antigermanici. Essi pubblicarono raccolte di canti popolari slavi, in specie slovacchi e cechi, ed entrambi attinsero anche ai canti popolari e folcloristici russi.

Ma fu di F.L. Čelakovský la prima formulazione balladica, con Toman e la vergine del bosco che, come dire, fu il nucleo da cui si sviluppò tutta una serie di temi e motivazioni balladici. Alcuni di questi temi furono in parte ripresi con grande maestria e originalità da Karel Jaromír Erben.

Erben, che collaborò con Palacký, fu insuperabile nella conoscenza del mondo folclorico e la filologia che lo sosteneva gli fu di utilissimo aiuto, poiché il materiale folclorico fu da lui elaborato e riadattato con espedienti letterariamente originali, di cui ancora adesso si possono cogliere la vivacità e la scioltezza.

La creazione di Kytice attinge al mondo popolare ceco e moravo in tutti i suoi aspetti più nascosti e più singolari: ogni minuzia è controllata affinché il mito ne risulti più chiaro ed evidente, e la parola (sceneggiatura) che lo esprime è sottoposta a un rigido schema espressionistico, tant’è che davvero alcune scene (scenografia), che escon fuori dai dialoghi fra gli attori, sono da cinema espressionista tedesco: come quello dell’orrore e del terrore persistenti, che attanagliano i gesti e i pensieri dei personaggi della ballata. Vi sono scene dagli squarci acuti e affilati, fitte di luci, di ombre e penombre che si succedono senza requie in un bianco e nero (da preferire ai colori!), tanto che lo stesso lettore deve fare una pausa per riprendersi, come dalla scena dello squartamento del corpo nella ballata L’arcolaio d’oro.

Scrive Ripellino: «La tematica di Erben, tipo schizoide-romantico, è il mondo della immaginazione satanica, surreale, morbosamente fantastica. La tonalità della ballata si riveste di un senso religioso dove l’uomo è tragicamente passivo, soggetto a un essere superiore che lo domina sempre. L’aldilà è sempre un presente metafisico e religioso e impegna l’uomo in una eterna, ma vana, lotta per sopravvivere ad ogni costo a forze più grandi di lui, malgrado la passività».

A sua volta Meriggi mette in evidenza nelle ballate di Erben «l’analisi meticolosa e ossessiva dei sentimenti dei vari personaggi, specialmente di quello materno… Ovunque risplende la maestria dell’autore, il quale si dimostra un acuto osservatore della psicologia dei protagonisti e un estasiato ammiratore degli spettacoli naturali che si presentano al suo sguardo».

Le ballate hanno come tema principe la lotta tra il bene e il male. Si ripete lo schema: tesi, antitesi ed epilogo finale positivo e vincente; come dire: e vissero felici e contenti. Restano come un ritornello le atmosfere cupe, terrifiche, con personaggi che incutono paura, e che appaiono improvvisi per suscitare sgomento, spavento. La foresta domina incontrastata la scena, perché in essa avvengono fatti indicibili e inspiegabili: essa è fitta e impenetrabile…

Spesso il sangue irrompe nella scena, come nella ballata Le camicie nuziali:

Sopra le rose canine,
sugli arbusti e sulle spine,
i suoi bianchi piedi posava
e tracce di sangue lasciava.

Oppure  nella ballata  Vodnik:

Due cose a terra nel sangue –
una vista orribile e funesta:
la testa senza corpicino
e il corpicino senza testa!

Insomma queste ballate di Erben fanno spesso pensare a una continua morgue ma poi, come una sorpresa, in alcune prevale l’aspetto moralistico, come un monito, ad esempio nel Tesoro; in altre invece l’atmosfera domestica esalta gli affetti familiari, e la quotidianità diviene il personaggio principale da celebrare in tutti i possibili atteggiamenti e comportamenti scanditi dalla tradizione; regole fisse e rigide ci aiutano anche a comprendere la psicologia degli attori… Il sangue qui è scomparso, finalmente, pur facendo capolino in qualche verso qualcosa di incomprensibile che si aggira tra le mura domestiche, come nella Vigilia di Natale.

Le ballate di Erben si somigliano fra loro per molti aspetti, siano essi compositivi che riferiti alle varie tematiche. Per ogni tema ripetuto vi è una variante dello stesso tema che la distingue dalle altre varianti, e ciò testimonia quanto furono essenziali le differenti elaborazioni cui Erben sottopose le sue ballate, e spesso la stessa ballata. Fu proprio questa strategia a decretare il successo di Kytice: le varianti di una ballata diventano altre ballate e tutte diverse fra di loro. Questo fu dovuto alla conoscenza capillare e profonda delle dinamiche filologiche e folcloriche di cui Erben era provvisto, per promuovere a più alti livelli la cultura popolare. E facendo appunto di ogni ballata una sorta di racconto, la elevò al grado di una letteratura alla portata di tutti. Questo raccontare in rima gli eventi e le azioni dà alla sua ballata una dinamica chiara ed espressivamente sciolta quando la si legge o la si recita.

La traduzione delle ballate di Erben di Paolo Statuti dà un apporto notevole al modo in cui si devono leggere o recitare i versi che sono quasi rigidamente rimati, e tradotti con tecnica stilistica rara, per non cadere in facili cantilene, per cui la loro musicalità compositiva risulta sempre controllata ed equilibrata. E ciò è degno di gran lode e di riconoscimento.

Per concludere vorrei ricordare che le ballate di Erben ispirarono diversi compositori cechi, in primo luogo Antonín Dvořák con la cantata Le camicie nuziali e i poemi sinfonici Le camicie nuziali, Il Vodnik, La strega di mezzodì, L’arcolaio d’oro, Il piccolo colombo. Inoltre ricordiamo Zdeněk Fibich, con i melodrammi La vigilia di Natale e Il Vodnik, e Bohuslav Martinů con la cantata Le camicie nuziali. Anche Robert Schumann ha composto una romanza per voci femminili, Der Wassermann, Op. 91/9.


tre ballate

Un mazzetto di leggende

Morì la madre e fu seppellita,
orfani i figli restarono;
ogni mattina essi venivano
e la mammina cercavano.
 
Dei bambini la madre ebbe pietà,
e allora il suo cuore ritornò
e, trasformatosi in un fiorellino,
con esso la tomba adornò.
 
Sentirono la madre dal profumo
i figli e presero a ballare;
e il fiore – loro consolazione,
cuordimamma vollero chiamare.
  
Cuordimamma! caro alla nostra patria,
voi semplici nostre leggende!
Sopra una vecchia tomba ti ho colto
e ti porterò tra la gente.
  
Io farò di te un mazzetto,
ti metterò un nastro e infine,
ti mostrerò la strada per la terra
dove hai una famiglia affine.
 
Si troverà una figlia di mamma
che il tuo profumo sentirà?
E si troverà un giorno un figlio
che al suo petto ti stringerà?
 

La strega di mezzodì

Vicino al banco il bambino
urlava a squarciagola.
“Smettila una buona volta,
almeno un’ora sola!
 
Tra poco è mezzogiorno,
papà ritorna ed io
non riesco a cucinare,
sei un castigo di Dio!
 
Zitto! hai i soldatini –
Gioca! – qui hai il galletto!”
ma ciò che ha sottomano,                        
getta via con dispetto.
 
La madre allora esclama:
”Che strazio, basta così!
Adesso ti porterà via
la strega di mezzodì!
 
Vieni a prenderlo, o strega,
portalo via lontano!”
Ed ecco che nella stanza
la porta s’apre pian piano.
 
Un fazzoletto in testa,
bassa e di pelle scura,
Le gambe storte e la gruccia –
entra questa figura!
 
“Dammi il bambino!” – “O Cristo!
Grazia una peccatrice!”
La morte è già nell’aria
e la strega è felice.
 
La strega come un’ombra
è sempre più vicino;
la madre, terrorizzata,
afferra il suo bambino.
 
Lo stringe a sé, indietreggia –
oh, guai al bambino, guai!
La strega è vicina al bimbo,
quasi lo tocca ormai.
 
Già allunga la sua mano,
stringe le braccia la madre:
“Per la passione di Cristo!” –
grida ma sviene e cade.
 
Ora suona la campana
la dodicesima volta,                                            
la maniglia ha cigolato,
il padre varca la porta.
 
La madre giace svenuta,
il bimbo al petto è serrato:
la madre riprende i sensi,
ma il bimbo – è soffocato.

La maledizione della figlia

“Perché sei così rattristata, figlia mia?
Perché sei così rattristata?
Eri così spensierata,
ora hai cessato di ridere!”
 
“Ho ucciso un colombo appena nato, madre mia!
Ho ucciso un colombo appena nato –
era solo e abbandonato –
era bianco come la neve!”
 
“Un colombo non era, figlia mia!
Un colombo non era –
il tuo viso non è quello di ieri
e il tuo aspetto è trasandato!”
 
“Oh, ho ucciso il bambino, madre mia!
Oh, ho ucciso il bambino,
il mio povero piccino –
voglio andarmene anch’io adesso!”
 
“E ora che conti di fare,
che conti di fare, figlia mia?
La tua colpa come riscattare
e lenire l’ira di Dio?”
  
“Andrò a cercare quel fiore, madre mia!
Andrò a cercare quel fiore
che perdona anche il più grave errore
e raffredda il sangue mio.”
  
“E dove lo troverai, figlia mia?
E dove lo troverai,
dove nel vasto mondo cercherai?
In quale giardino cresce?”
 
“Sul poggio c’è un palo, madre mia!
Sul poggio c’è un palo con un chiodo,
e sul chiodo c’è un nodo –
un cappio di canapa, madre mia!”
 
“E che lascerai a quel giovinetto, figlia mia?
e che lascerai a quel giovinetto
che frequentava il nostro tetto
e con te si rallegrava?”
 
“Lasciagli la benedizione, madre mia!
Lasciagli la benedizione –
l’inferno sia la sua dannazione,
per avermi falsamente parlato!”
 
“E a me che ti ho amata, figlia mia?
E a me che ti ho amata,
che ti ho dolcemente cullata,
che tanto amore ti ho dato?”
 
“La maledizione ti lascerò, madre mia!
La maledizione, che tu soccomba
e ti sia negata la pace di una tomba.
per avermi lasciato fare di testa mia!”
 

Aspettare e non venire

di Rita Simonitto

                                    “Aspettare e non venire,  
                                     stare a letto e non dormire,
                                     ben servire e non gradire,
                                     son tre cose da morire.”
 
                     (da La serva padrona – Intermezzo di G.B. Pergolesi)              

La spiaggia, ovvero quel fazzoletto di spiaggia, era incassata tra due propaggini di costa alta che scivolavano giù al mare e la cui vegetazione era variegata,frammista di rocce aguzze, ginestre, lentischi e corbezzoli e, più in alto, a svettare disordinate, piante di orniello dalle tremule foglie.

Ci si arrivava attraverso un accidentato sentiero, ombroso al punto giusto per non far demordere il viaggiatore nel suo tragitto verso la caletta.

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Rettifiche di una lettura

di Rita Simonitto

Approfitto dello spazio che Ennio mette a disposizione di chi vuole partecipare alla vita di Poliscritture, non solo per integrare con alcune mie osservazioni la sua pur precisa e sensibile disamina al mio Libro di poesie, ma anche per mettere giù due veloci righe a proposito della apertura del lock down, a seguito del Coronavirus.

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Su “Per ordine di verso” di Rita Simonitto

di Ennio Abate

1.

Ho letto questo libro partendo dalla Nota dell’autore posta alla fine, dove Rita espone la genesi della sua poesia. Che – scrive – è ricomposizione di “frammenti di storie” o di “esperienze private” in “una storia unica” secondo un “ordine” (o forma) che è quello imposto dai versi. Da qui il titolo, che – precisa – non corrisponde, di per sé, ad un “ordine di senso”. Eppure la bella foto di copertina riempita di foglie macerate sì ma di colori intensi su uno sfondo nero cupo – un riferimento alla canzone “Les feuilles mortes “ del 1946? – è più di un suggerimento. Con una metafora, che è anche un omaggio al mondo contadino della sua infanzia, Rita paragona le quattro sezioni del suo libro a “fasci di mannelle” e il lettore è invitato a scegliere singole spighe-poesie avendo riguardo per l’”insieme”.

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Antonio Sagredo, La gorgiera e il delirio

Schena editore

In questo libro (170 pagine) appena pubblicato dall’editore Schena di Fasano (Brindisi), Antonio Sagredo ha raccolto sue poesie scritte tra 2003 e 2018. Alcune comparse in questi anni anche su Poliscritture. Ne segnalo volentieri l’uscita, proponendo tre testi da Legioni, presenti ne La Gorgiera e il delirio; e in Appendice la Prefazione di Donato Di Stasi. Su questa per ora mi soffermo con brevi appunti. Per continuare la mia precedente riflessione sui componimenti di Sagredo e confrontarla con un altro punto di vista, rispettabile ma antitetico al mio. Perché? Di Stasi, invece di tenere le giuste distanze critiche dal poeta, incita i lettori ad accogliere senza riserve la ricchezza teatrale e folleggiante di questa poesia, che diventa tout court la Poesia: «Ai poeti bisogna chiedere di essere inquietanti e eccessivi, di seminare disordine e illimitatezza, di suscitare perplessità e di affilare costantemente il crinale del dubbio». Eppure proprio i suoi tratti fondamentali e specifici (la “mercurialità” delle composizioni, che a Di Stasi «appaiono oscure e lampanti»; la drammaticità elisabettiana del poeta alle prese con i suoi numerosi alter ego; la sua volontà di addentrarsi nell’«orrore» pur di esplorare un «Oltre che reclama di venire alla luce e di farsi materia vivente e corruttibile») andrebbero interrogati e approfonditi. Cosa implica l’adesione – ingenua o raffinata – alle mitologie dell’io poetico sagrediano: il «poeta-rospo» che si tramuta in «minotauro »? O al suo vitalismo: «si toglie le gramaglie del lutto e inneggia alla vita sfolgorante dei sensi e ai salti mortali della ragione»? Oppure a un indeterminato «Oltre che reclama di venire alla luce» e che, non ricondotto alla sua dimensione storica, parrebbe offrirci una «vita sfolgorante dei sensi», mentre più che mai la cronaca quotidiana ci mette di fronte a una sempre più preoccupante «vita offesa» (Adorno)? La “meraviglia” per la mostruosità del Presente può, appunto, pietrificare e annichilire. E, dunque, non di altri «salti mortali della ragione» avremmo bisogno. Semmai di una uscita dalla sua sonnolenza, che – come si dice – genera mostri. E di quel suo camminare con passo lento e misurato. Anche in poesia. [E. A.]

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Ricordando Eugenio Grandinetti

di Giorgio Mannacio

Ho chiesto a varie persone che hanno conosciuto Eugenio Grandinetti un ricordo o una riflessione sulla sua figura o sulla sua poesia. Ecco il primo contributo arrivato. [E. A.]

1.

Ho conosciuto Eugenio Grandinetti, recentemente scomparso attraverso la rivista Poliscritture ma ci siamo visti solo un paio di volte, credo. Nacque tra di noi una simpatia fondata su elementi poco significativi: seppi che era calabrese (come me) e, successivamente, che era cugino di un mio collega di lavoro. Nel contesto della rivista che ho ricordato ebbi modo di leggere alcune sue poesie che suscitarono un certo dibattito intorno all’argomento nichilismo/pessimismo. Ad esso ho partecipato anch’io. Posto che non posso e non devo ostentare una amicizia in senso stretto ma certamente una comunanza di esperienze poetiche e una partecipazione ad una sorte che accomuna tutti noi uomini, ho creduto di ricordarlo intitolando al suo nome le osservazioni sul tema che quella sua esperienza ha suscitato in me.

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Viaggio eleusino

di Antonio Sagredo

I cembali dei presentimenti a te, Eleusina, incantata
che muori nella neve imminente e risorgi al primo fiore
e il mito ti è fedele ancora, e le tue labbra ora
sono spente da cingolati che radono l’Oriente – svegliati! Continua la lettura di Viaggio eleusino

Due idee di spazio

accampamento-pigmei

di Giorgio Mannacio

I.
La vastità del mare aperto, che non pone neppure un ostacolo fisso allo sguardo, sembra attuare pienamente quella riflessione circa la successione degli spazi in una serie infinita che è il fuoco centrale di una delle meditazioni leopardiane. Di quest’ultima resta irrisolto però, in una pluralità di significati , il verso finale che suona così: e naufragar mi è dolce in questo mare.
Continua la lettura di Due idee di spazio

Goytisolo e il suo tempo

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Intervista  di Alessandro Scuro a Francesco Luti

Questa intervista appare in seguito alla pubblicazione di alcuni interventi sull’opera di José Agustín Goytisolo del quale lei ha tradotto varie poesie, come ha fatto con i componimenti di altri poeti del ‘50 e delle generazioni successive. Che origine ha il suo interesse per la poesia e, nello specifico, per i summenzionati poeti? Continua la lettura di Goytisolo e il suo tempo

La Fanciulla Rapita

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Tabea Nineo, La fanciulla rapita, carboncino 70×100, 1993 circa

 (da un dipinto di Ennio Abate)

di Ubaldo de Robertis

Dove fugge, di giorno, e forse, soprattutto di notte,
il giovane
favorito dalla stessa alternanza di ombre e luci,
/aspetti peculiari del ritratto/? Continua la lettura di La Fanciulla Rapita