di Ezio Partesana
Il nominalismo in politica è una forma della propaganda, ma deve presentarsi come realismo estremo per avere successo. Libero è chi serve.
Se le parole sono convenzioni arbitrarie anche il loro referente concettuale lo diventa e il giudizio più solido oscilla nel suo possibile opposto, perché il meccanismo attraverso il quale avanza la propaganda non è la ripetizione, bensì la differenza tra la parola e la cosa, tra l’intenzione e la riflessione.
Il romantico illuminismo di Freud ancora era in grado di indicare con una frase sola l’obbiettivo dell’autonomia dell’individuo e un principio speranza: Dove era l’Es, dovrà diventare l’Io, anche a costo di perdere qualche pezzo per strada. Ma la progressiva separazione del nome dall’oggetto, la scomparsa o almeno la quarantena a tempo indeterminato degli “universali”, era però già nascosta dietro le buone intenzioni di quell’imperativo; è bastato proclamare che la sostituzione era compiuta e, a scanso di equivoci, identificare Io e Volontà, affinché i nazionalsocialisti inverassero quel motto in un inferno.
La lingua del Terzo impero è oggi parlata da milioni di persone come lingua madre. La sostituibilità infinita del referente – così simile a quella della forza lavoro – è maturata in una confusione semantica dove tutte le vacche sono candide e degne di essere venerate per sacre, sino alla prova contraria degli indici di borsa.
“Tutto il potere ai Soviet!” identificava ancora un programma politico, “Sous le pavés, la plage”, immagine onirica perfetta della rivoluzione, non lo è già più. È stato però necessario togliere la pelle dal coniglio prima di poterlo cucinare, e cioè separare i concetti (questo è il nome che gli “universali” hanno nella filosofia moderna) dal processo che li aveva resi reali, dalla prassi che li aveva resi reali.
Non basta insomma dire che la vera libertà è ubbidire a un Führer qualunque per ottenere la sottomissione, è anche necessario svuotare preventivamente la storia sociale di una lingua prima di stravolgerla. La polisemia non è solo una caratteristica del linguaggio ma ancor più il risultato di una astrazione forzata dalla storia e dalla comunità dei parlanti. Questo significa però che nelle grammatiche e nei dizionari si trova anche una resistenza alla libera manipolazione del linguaggio, e la sua forza non può essere altro che l’esperienza.
Il pallido linguaggio odierno di partecipazione, inclusione, fantasia e sentimento, ha le sue radici nello smarrimento individuale, non in una esperienza collettiva, e le parole d’ordine non significano più nulla; tutti sono d’accordo, naturalmente, ma ognuno per sé. Per riconoscere un’ombra di verità in quelle frasi bisognerebbe indicare l’avversario e lo scontro, una prassi politica insomma, cosa che ci si guarda bene dal fare in nome di un universalismo che di comune ha solo il cattivo fantasma del quale bisogna liberarsi al più presto.
Il nominalismo ha reso astratto anche il nemico.
Nota a cura di E. A.
“Dal fiume al mare” sono le parole – vuote per l’autore – che usano i coloni in Giudea e Samaria e i palestinesi delle fazioni combattenti. Per approfondimenti cfr. https://www.ilpost.it/2023/11/16/dal-fiume-al-mare-palestina/
Questo testo farà parte di un lavoro ben più ampio in preparazione.