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Gaza. Una domanda, un tentativo di risposta.


Rita D’Italia
Ma noi, concretamente, cosa possiamo fare?
Abbiamo un presidente del Consiglio che dileggia il Parlamento ed irride i giornalisti. Che scappa davanti ai problemi che non le interessano, un Presidente della Repubblica che tace e quando parla fa danno.
Protestiamo sui social ma nessuno ci ascolta.
Ci mangiamo il fegato perché abbiamo empatia piena col popolo palestinese, e soffriamo perché ci sentiamo impotenti davanti al massacro a cui assistiamo.

Ma concretamente cosa possiamo fare per fermare tutto questo?

 

Ennio Abate
Rita D’Italia
Quello che possiamo fare è poco o niente: testimoniare sì, raccogliere firme (Amnesty), tenersi in contatto con chi sta a Gaza (se questi contatti si hanno), amplificare le voci autorevoli dissenzienti e anch’esse inascoltate (il Papa ad es.), manifestare in pochi purtroppo (perché tutta una cultura politica antiautoritaria e di sostegno alle lotte degli oppressi è stata sconfitta), contrastare la ben foraggiata propaganda antipalestinese.

E tornare ad imparare come si organizzarono i nostri antenati che si opposero al fascismo.

(Sulla pagina FB di Doriana Goracci)

P.s.

SEGNALAZIONE


Il disagio come un sussurro
 

Stralcio:

Parlo, invece, di una responsabilità collettiva e corale del giornalismo italiano. Lo stesso che non scende in piazza, non fa sciopero, non si rifiuta di continuare a lavorare quando in un posto di meno di 400 km quadrati, in un anno e mezzo, vengono presi a bersaglio i giornalisti palestinesi di Gaza e ne vengono uccisi 208 (numeri del 24 marzo 2025). 208 giornaliste e giornalisti palestinesi di Gaza uccisi dalle forze armate israeliane in massima parte perché prese a bersaglio. Niente a che vedere con la seconda guerra mondiale o con il Vietnam: il paragone non regge, non solo per l’infima misura in chilometri quadrati di Gaza rispetto al Vietnam o all’intero mondo. Non regge perché a Gaza sono stati in massima parte presi a bersaglio. Erano e solo gli unici a mostrare la mattanza, il massacro, la strage, il genocidio, i crimini di guerra e contro l’umanità. Senza immagini e senza voci, il genocidio non si vedrebbe. E noi, noi ‘giornalisti internazionali’, forti della nostra presunta credibilità – bianca e occidentale – non ci possiamo entrare, a Gaza. Le autorità israeliane non ci fanno entrare, a Gaza.

La responsabilità collettiva e corale del giornalismo italiano, però, può esprimersi anche senza andare a Gaza. Ci sono le testimonianze dei nostri colleghi palestinesi. Ci sono le interviste da fare, a distanza. Basta conoscere Gaza. Conoscere la terra. E intuiremmo cosa sta succedendo, in una terra distrutta, tutta distrutta.

Ed è qui il secondo ostacolo, che va dritto alla questione delle parole, del linguaggio impreciso che si usa non dal 7 ottobre, ma da 20 anni. Sono 20 anni, almeno, che non si affronta sui giornali la questione israeliano-palestinese (non è un conflitto, maledizione, non c’è nessuna possibile equiparazione tra i due “contendenti”, non è un duello, non è la guerra tra 2 stati ognuno dei quali detiene il monopolio dell’uso della forza). La questione israeliano-palestinese è stata considerata periferica, l’idea che Israele l’avesse vinta è stata pervasiva, e ancor più pervasiva la diffusione di un pensiero unico (i palestinesi non vogliono la pace, sbagliano tutto, sono terroristi, Israele è il simbolo della modernità, Tel Aviv è la modernità, Israele è l’unica democrazia del Medio oriente).

 

 

 

DISCUTERE DI GAZA

UN SUNTO DELLA SERATA  SU GAZA ORGANIZZATA DALL’ANPI DI COLOGNO MONZESE
19 GENNAIO 2024

a cura di E. A.

Domanda
buon pomeriggio Ennio. quella di ieri [19 gennaio 2024) e’ stata una riunione interessante?

Risposta:

Direi di sì. Salone pieno. Introduzione di Violetti breve (una citazione da Etty Hillesum). Presentazione agile di Tagliaferri dei tre relatori: Barbara Archetti di Venti di terra, Stefano Levi Della Torre, Paola Caridi.
Ti riassumo i tre interventi:
– Archetti.
Da operatrice umanitaria ha fatto una fotografia della situazione tremenda di Gaza sotto i bombardamenti israeliani: territorio chiuso per persone, merci e medicinali; morti (arrivati nel frattempo ad una cifra approssimativa di 25-30.000), feriti che non si possono curare; fame; bambini – (già cresciuti in un clima di violenza per loro normale tanto da chiedersi: “Quando arriva quest’anno la stagione della guerra?) – abbandonati a se stessi; i palestinesi della West Bank [sponda occidentale del fiume Giordano, Cisgiordania] multati o visitati dall’IDF [Israel Defense Forces, esercito israeliano] se aiutano o sono in contatto con abitanti di Gaza; impossibilità di quantificare il fabbisogno per ricostruire Gaza ormai già ridotta a un cumulo di macerie.
– Levi Della Torre.
Un inquadramento approfondito, lucido e chiarificatore del conflitto israelo-palestinese. Lo riassumo così. Siamo ad un crinale della storia. In Israele abbiamo il governo di Netanyahu di destra estrema, alla Orban. Il 7 ottobre di Hamas ha trovato Israele divisa e sono saltati gli accordi di Abramo con i paesi arabi. C’è stata una sottovalutazione grave della questione palestinese: Netanyahu la dava per sedata con l’apartheid a Gaza e la West Bank sottomessa. Che ci fosse una percezione sbagliata della ituazione lo dimostra anche il rave dei giovani ebrei vicino al confine con Gaza.
La risposta di Israele all’attacco devastante di Hamas del 7 ottobre poteva imboccare due strade: o, con un’autocrtica politica, riprendere la via abbandonata del riconoscimento di un’autonomia dei palestinesi; o una nuova Nakba. Netanyahu ha scelto la seconda via. Di terrore e di violenza. E sono emerse preoccupanti analogie tra i discorsi fatti contro i palestinesi dai governanti della destra israeliana in questi mesi (“mandiamoli in Congo”) e quelli che fecero negli anni Trenta del Novecento i nazisti contro gli ebrei (“ mandiamoli in Madagascar”).
Cosa avrebbe dovuto fare il governo israeliano? Puntare soprattutto sulla liberazione degli ostaggi, non impantanarsi in questa guerra contro Hamas che è diventata immediatamente una guerra contro tutti i palestinesi.
Siamo di fronte ad un disastro per Israele e al successo di Hamas. Perché Gaza ridotta dall’IDF a un cumulo di macerie è una simbolo che a livello mondiale dice in modo semplificato una sola cosa: i palestinesi sono i martiri, gli israeliani sono i carnefici.
Lo scontro si fa anche sui simboli. E il simbolo della vittima ha grande impatto emotivo. Appropriarsi del simbolo della vittima è importante oggi come lo fu in passato. Non dobbiamo dimenticare che negli anni Trenta il nazismo si affermò in Germania anche utilizzando una ideologia vittimistica: il popolo tedesco vittima del Trattato di Versailles che l’aveva voluto punire e umiliare.
Cosa diremo, dunque, il 27 gennaio, il Giorno della memoria? E’ certamente sbagliato di fronte al massacro dei palestinesi lo slogan: gli ebrei da vittime si fanno carnefici. Eppure, se prima del 7 ottobre la distanza tra lo sterminio della Shoah e le continue uccisioni dei palestinesi da parte dell’IDF era enorme, oggi c’è un forte imbarazzo a sostenerlo.
Anche perché sempre più negli ultimi decenni lo Stato israeliano ha voluto presentare la Shoah come un suo scudo e uno scudo contro l’antisemitismo. Si è offuscata l’immagine della Shoah come crimine contro l’umanità, che è l’interpretazione più giusta. Israele ha, invece, imposto la sua interpretazione, per cui, se sono vittima (7 ottobre), qualunque cosa io faccia per difendermi è giustificata. Perché noi israeliani siamo gli eredi delle vittime della Shoah.
Bisogna correggere questa visione: dare solidarietà a tutte le vittime del passato ma allo stesso tempo combattere qualunque atrocità di massa. E bisogna anche chiedersi quanto la nostra passività di spettatori rispetto alla tragedia di Gaza ci mette dalla parte dei carnefici, perché è ritrovarsi dalla loro parte senza neppure saperlo.
– Caridi.
Ha ricordato che il processo intentato dal Sudafrica contro Israele per genocidio andrà per le lunghe e che sarà difficile dimostrare l’accusa di genocidio. Però, sembra che questo ricorso del Sudafrica possa essere lo strumento più veloce per fermare i bombardamenti. Il processo ha anch’esso un grande impatto simbolico, perché per la prima volta Israele è sul banco degli imputati ed in una posizione di debolezza agli occhi dell’opinione pubblica mondiale dopo la reazione militare all’attacco di Hamas, da molti ritenuta sproporzionata.
Ha poi ricordato: – le vicende che vanno dalla morte di Arafat all’affermazione della “linea territorialista” di Hamas, organizzazione che ha scelto di concentrare la propria azione politica e militare su Gaza abbandonando il tentativo dell’OLP di imporre, anche con attentati (ad es. alle Olimpiadi estive di Monaco nel 1972), la questione palestinese a livello internazionale; – la stagione degli attentati suicidi di Hamas nelle città israeliane; la sua partecipazione “pragmatica” alle elezioni del 2006 indette dall’ANP [Autorità Nazionale Palestinese], partecipazione accettata sia dagli Usa che da Israele che non prevedevano una vittoria così schiacciante di Hamas; – il ruolo preponderante che in Hamas si sono conquistate nell’ultimo periodo le Brigate Izz al-Din alQassam ponendo al primo posto l’obiettivo della liberazione dei detenuti palestinesi nelle carceri israeliane [Secondo Addameer, organizzazione per i diritti umani che si occupa proprio di fornire supporto ai detenuti palestinesi, il numero totale nelle carceri israeliane è attualmente di circa 7mila persone: di queste, 62 sono donne, 200 minori e 2.070 detenuti amministrativi, cioè senza un capo di accusa noto]. La liberazione dei prigionieri palestinesi mediante la cattura di ostaggi israeliani è una delle ragioni principali della crescente popolarità di Hamas presso le popolazioni arabe. Si tratterà di capire ora se ad un cessate il fuoco si arriverà con o senza l’espulsione dei palestinesi.
Infine, c’è stato purtroppo poco tempo – neppure 20 minuti – per gli interventi dal pubblico e non c’era l’audio ma la serata è stata buona e interessante. Insomma, potevi venire.