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Da Tiravanija a Shimabuku

Note sull’arte nel passaggio dagli  anni novanta agli anni zero. Seconda parte.

 

di Paolo Antognoli

Queste annotazioni sono il secondo testo, scritto nel ’18 e poi abbandonato, che segue a quello già pubblicato (qui) per recuperare ricordi e condividere esperienze personali che risalgono ai primissimi anni del Duemila[1]. Per introdurre lo scritto che segue vorrei perciò rimandare a quello, dedicato alla Stazione Utopia della Biennale di Venezia del 2003.

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Stazione Utopia. Utopia Station (Testo n.1)

di Paolo Antognoli

Ho recuperato alcune carte inedite con alcune annotazioni che risalgono ai primi anni Duemila. Sono due piccoli testi che avevo scritto in Germania, nel 2018 poi rimasti seppelliti in una cartella.
In questi giorni, leggendo alcune ricostruzioni dell’arte italiana degli ultimi vent’anni, mi sono convinto di riprendere questi appunti per iniziare a ricostruire quegli stessi anni passati dal mio punto di vista personale, iniziando, per così dire, da una prospettiva obliqua, laterale, marginale.
Vorrei premettere che questo scritto è una sorta di scavo progressivo nella mia memoria per ricostruire e fermare certi pensieri anche se fugaci e provvisori scusandomi per eventuali imprecisioni.
Queste stesse carte hanno molto a che vedere con Pier Luigi Tazzi, recentemente scomparso, che allora frequentavo, più spesso a distanza, con messaggi e email, e del quale leggevo e raccoglievo ciò che aveva scritto, studiando in quegli anni artisti e ambienti del suo stesso contesto. Questi due scritti risentono molto di quelle letture e di quelle conversazioni. Credo perciò sia doveroso dedicare questi due testi a Pier Luigi.

 

1.
Nel 2003, Molly Nesbit, Hans-Ulrich Obrist e Rirkrit Tiravanija progettarono per la Biennale d’Arte di Venezia (La dittatura dello spettatore, a cura di Francesco Bonami), la sezione, all’Arsenale, intitolata Utopia Station, appunto «una stazione dove passare, fermarsi, sedersi per un’ora o un mese, con le proprie idee, il proprio bagaglio; parlare, guardare, riposarsi, prima di ripartire e ricominciare il viaggio». [1]
Sono passati più di quindici anni [ormai venti adesso che rileggo questa bozza]. Eppure è curioso che di quel padiglione non ricordi neppure un’opera distintamente. Rivedo invece architetture informali, poster (un museum in progress di formato portatile), testi, ephemera cartacei, poi il gentile affollamento nel giardino, una tenda sotto il sole e gli artisti invitati, che furono molti, più di un centinaio, fra i quali Yoko Ono con gli occhiali scuri, Lawrence Wiener, che mi sorprese in canottiera rossa e cappotto lungo ormai d’estate, con la barba lunga, profetica e bianca. Rivedo quel multiforme accampamento nell’afa estiva, quel bazar colorato, piacevole caos di architetture e stand di legno poi di moda negli anni seguenti – forse lo erano già.
Si scrisse in epigrafe che fu un progetto per curatori e non per artisti; ma la confusione tra il ruolo dei primi e dei secondi era in quel tempo una polvere accettabile come vento su una spiaggia da esplorare. Allora difatti si andava incontro alle cose nell’attesa di un mondo nuovo.
Per l’allestimento, Tiravanija collaborava con Liam Gillick coinvolgendo le idee di architetti legati a una certa accezione modernista di utopia, a partire da Buckminster Fuller – «Today the world is too dangerous for anything less than utopia». Tale richiamo non includeva soltanto la memoria di strutture geodetiche e drop cities. Vi figurava anche Yona Friedman, considerato un utopista, dedito invece a un’architettura del possibile, concreta, mobile e povera che fosse. Per Friedman costruire era risolvere problemi.
Era da tempo in atto una rilettura della modernità e della sua architettura la quale risentiva della presa di distanza dalle forme più glamour del primo Postmodernismo degli anni ottanta.
Le costruzioni di Tobias Rehberger, allievo di Thomas Bayrle a Francoforte, spostavano il discorso verso una architettura relazionale – tale definizione era da poco sopraggiunta. La californiana Andrea Zittel investigava il design. Esordiva in quegli anni Michael Beutler, poco più tardi Tomas Saraceno – le strutture gonfiabili, la partecipazione. Manfred Pernice costruiva strutture architettoniche quasi di controdesign frugando fra riviste e cimiteri del moderno. Gregor Schneider inventava cunicoli segreti e passaggi ricavati in spazi dati. Aveva iniziato svuotando la propria stanza, trasformando il proprio appartamento…
Quell’accampamento veneziano, invece, tornando a quell’estate 2003, sembrava preludere a un’estetica nuova e di taglio politico. Sembra adesso strano a dirsi.

 

2.
Eppure c’erano fatti, in quel tempo, che sintonizzavano positivamente con Stazione Utopia. Nel 2001, mi trovavo spesso a Francoforte. Frequentavo le mostre al vecchio Portikus –  ancora dietro il frontespizio neoclassico bianco da cui prendeva il nome. Un edificio che oltre il porticato consisteva di containers di metallo assemblati lungo il Meno. Eppure presero vita in quell’interno alcuni progetti che allora seppero aprire nuovi orizzonti.
Intanto, Michael Elmgreen & Ingar Dragset, sorprendentemente, avevano trasformato l’interno del Portikus con una gigantesca ondulazione del pavimento e del soffitto vetrato. Il titolo, Powerless Structures (“Strutture impotenti”), conteneva un’allusione al sesso che sdrammatizzava quell’architettura bizzarra ma alquanto glaciale. Quell’onda simmetrica e doppia trasformava la percezione del container – simile al cassone di un grande autocarro o come una delle chiatte che ancora passano sul fiume lì di fronte.
Nella mostra seguente venne la volta di Rirkrit Tiravanija, il quale convertì questa stessa struttura impotente del duo danese in una possente piattaforma di eventi, concerti, conferenze, film ed edizioni, installandovi un bar, cucinando per tutti la sera inaugurale e programmando gare di cucina fra artisti e curatori. Il titolo era Demo Station No. 1, che già prefigurava Utopia Station. Sulla stessa struttura ondulata, Tiravanija appoggiò una piattaforma di legno simile una doppia tavola da surf, fra mare e cielo. Inoltre, programmò una trasmissione dal vivo su un canale online – un’onda metaforica.

Si trattava in sostanza di uno di scenario in cui i protagonisti, gli artisti e i visitatori, vivevano la propria realtà quotidiana e già festiva di partecipanti, senza la finzione di un altrove fittizio o teatrale. L’artista si limitava a predisporre un palinstesto, abbozzare un programma. Stava agli altri farlo vivere. Un luogo in cui i visitatori e gli artisti parlavano e stavano assieme senza sentirsi estranei.

 

3.
Anche nella futura Stazione Utopia di Venezia contava sì il progetto, l’architettura fisica, il display, ma solo in seconda istanza, vivendo più nel momento dell’incontro come raduno collettivo, nella sua capacità di attrarre energie e simpatie, di farsi arena del possibile. Qui entrava in gioco la seconda parte della titolazione di Utopia Station, appunto, l’utopia.
Allora mi interessavano i rapporti fra arte e politica. Ho menzionato il 2001, l’anno dell’11 settembre. Questa data costituì per molti uno spartiacque, ma già dopo il crollo del muro di Berlino erano seguite nuove guerre come nell’ex Jugoslavia e quel terribile evento offriva adesso il pretesto per nuovi conflitti: l’imminente aggressione al Medio Oriente, l’invasione dell’Afghanistan, dell’Irak e gli altri fatti sciagurati che seguiranno [più quelli recenti che allora, nel ’18, non avrei previsto].
L’arte invece costruiva sfondi, scenari, luoghi di sosta ed eventi, favorendo relazioni, dialoghi e incontri e – almeno idealmente – senza dimenticare il mondo e i suoi problemi.
Nel 2002 a Kassel si era tenuta Documenta 11 a cura di Okwui Enwezor. Vi erano affluiti materiali, video e testimonianze da ogni parte del mondo.
Sembrava allora possibile vedere, condividere, prendere coscienza dei problemi del mondo, non più sentirli come una sorta di fiction. Sembrava implosa quella distanza mentale tra opera e documento, fra testo e contesto. Tutto sembrava accadere in un presente dove anche il passato e il dolore passavano lo schermo reclamando consapevolezza. C’era una certa fiducia nella possibilità di poter intervenire nel tessuto del mondo. Ma tale sensazione non durò per molto tempo.
Avevo letto, nel frattempo, Postproduzione – pur sommariamente dopo Esthétique relationnelle.[2]
Mi aveva anche colpito che il vecchio Pierre Restany avesse contrapposto quell’edizione di Documenta – giudicata negativamente – alla coeva apertura del Palais de Tokyo. Benché non potessi capire la sua riduzione dell’arte a «comunicazione» trovavo interessante tale contrapposizione. Da parte mia, avevo alcune riserve sull’arte relazionale – vi ritornai senza remore con uno scritto più tardo, nel 2007, per il catalogo di una Biennale di giovani artisti che si tenne a Pisa. Invece Documenta e il Palais de Tokyo mi piacquero entrambi, ognuno a suo modo e per ragioni diverse, benché allora preferissi progetti che vedevo connotati da un carattere ‘politico’ più marcato – attratto in quel tempo dall’approccio del post-operaismo o dallo zapatismo…
Nel 2002 era stata pubblicata l’edizione italiana di Impero di Hardt e Antonio Negri.[3]  Un saggio brillante ma con molti punti oscuri, che mi lasciarono a lungo perplesso e irritato.
Contemporaneamente iniziava anche una pratica diversificata che avvicinava l’arte all’attivismo politico, con una sua effimera estetica della rivolta – le tute bianche, i black-block…. In Italia, fra le varie tendenze curatoriali, forse il lavoro più coerente e il più vicino alla speculazione operaista sarà condotto da Marco Scotini, che proprio in quel momento riusciva a emergere.

 

4.
Utopia Station si profilava come una sorta di crocevia da cui si sarebbero aperte diverse strade, anche se fra loro antitetiche o divergenti. Tornando perciò a Venezia, nel 2003, scriveva Marcuse che il termine utopia era stato creato per screditare l’idea di un mondo nuovo e possibile. Mi incuriosiva l’uso di quel termine, utopia, del tutto rinnovato dai social forum dopo Seattle.
Nemmeno un anno dopo, nel marzo 2004, seguî un meeting al Depot di Francoforte, in cui conobbi Immanuel Wallerstein. Mi fece enorme impressione. Avevo letto alcuni suoi libri, che mi erano stati introdotti da un amico economista, Rodrigo Rivas, che ebbi il piacere di quando frequentavo il gruppo di studio su Ivan Illich – i Granchi di Kuchenbuch. Ne parlai con Aldo Zanchetta e invitai Wallerstein a Lucca per una conferenza. Era d’accordo, ma poi non fu possibile organizzarla.
Rivas, con Wallerstein, era convinto che ci trovassimo alla fine di un ciclo storico e sistemico durato cinquecento anni e ancora dominato dal capitalismo. Considerati i cicli di Kondratieff, il sistema mondiale stava per mutarsi in qualcos’altro ancora ignoto e per nulla positivo. Con il declino dell’Impero americano, stavamo per entrare in un’inedita transizione la cui caratteristica più immediata era il caos. E seppure diffidassi delle previsioni del marxismo scientifico, una crisi di sistema mi pareva evidente.
Rivas tuttavia metteva in guardia sul fatto che il declino americano non fosse qualcosa di rassicurante. Diceva che una tigre ferita può risultare molto più pericolosa. Non si trattava ovviamente della vecchia idea obsoleta del capitalismo in crisi, bensì dell’alba di una trasformazione sistemica senza precedenti e senza modelli già scritti. Allo stesso tempo, per le stesse ragioni, ciò poteva lasciare spazio a un movimento cosciente nuovo ed emancipatore.
Wallerstein aveva scritto un saggio che ebbe molto successo: Utopistica. Le scelte storiche del XXI secolo. In Italia fu edito da Asterios nel 2003, ma l’edizione inglese risaliva già al 1998. L’Utopistica non era l’utopia, bensì la valutazione scrupolosa, realistica, razionale, delle alternative storiche possibili. Non era affatto previsionismo né futurologia. Wallerstein, studioso molto serio, era stato il direttore del Braudel Center, le sue analisi erano sempre fondate e trovavano spesso riscontro.
Quando invitai Wallerstein nel marzo 2004, dopo la sua conferenza (Warum Erst Jetzt? / Why Only Now?) al  TAT/Bockenheimer Depot di Francoforte sul Meno, nella tappa tedesca del tour di Utopia Station, dopo la Biennale, ero molto colpito proprio dal suo libro sull’utopistica. Ricordo allora Obrist e Bruno Serralongue. Quest’ultimo proiettò le sue foto di manifestanti – iniziava un po’ la moda che chiamai del pret-à-revolter. A Francoforte appariva più esplicita che a Venezia la portata politica dell’operazione, che intendeva ricollegarsi, seppure idealmente, all’onda di quel movimento dei movimenti che era il World Social Forum, il quale, da Seattle a Porto Alegre e infine quell’anno a Bombay, si riconosceva nella questione-slogan: Un altro mondo è possibile?

 

5.
Nel 2004 quei movimenti erano ancora vitali. Poi scomparsero improvvisamente. A dirla tutta nel maggio 2004 la componente ambientalista di quella nuova critica era già in crisi. In una conferenza lucchese, Wolfgang Sachs, amico di Ivan Illich, autore di uno splendido saggio dal titolo Ambiente e giustizia sociale, già lamentava la tragica sparizione dell’ambientalismo. Ricordando adesso la celebre frase del 18° Brumaio di Marx, sarebbe tornato nell’arte ben presto ma in quanto farsa.
Dal 2004, dunque, il più ampio movimento globale di protesta, seppure formalmente continuando a esistere, perdeva qualsiasi incidenza sulla realtà, entrando in una impasse definitiva. Si può solo aggiungere che dagli anni Dieci le grandi manifestazioni politiche e artistiche sarebbero divenute gorghi centrifughi in cui la cellularizzazione individualistica sarebbe divenuta dominante. Da lì innanzi le grandi organizzazioni internazionali avrebbero dettato dall’alto le loro agende indirizzando strategicamente tutta l’attenzione dei media e della cultura verso i diritti dell’individuo singolo liberale e verso istanze collettive particolari ormai isolate da una lotta per i beni comuni e i diritti di tutti… Erano gli abiti nuovi del solito trito divide et impera, ma sarebbe stata questa la direzione vincente: indagini su questioni riguardanti minoranze, ma in quanto scollegate dalle lotte sociali collettive e anzi ad esse opposte. Parve chiaro, solo più tardi, che quel mondo, che parlava di questioni riguardanti il lavoro, le condizioni dei lavoratori e delle loro famiglie ma anche di chi, senza famiglia, aspira a una vita dignitosa, era quasi un passato remoto. Dal primo decennio del duemila parve chiaro che l’ideologia del mondo dell’arte sarebb divenuta oramai quella realpolitik concorrenziale dell’individuo singolo neoliberale, nomade, flessibile, integrata, senza altre rivendicazioni se non le stesse identiche istanze promosse dalle élites e dai grandi organismi sovranazionali e da esse diramate ai ministeri nazionali. Si iniziava a guardare l’utopia – quella del passato, ovviamente – come scarto archeologico.

6.
La Stazione Utopia rivista adesso appare pertanto, retrospettivamente, l’ultimo scintillamento di un miraggio, nell’istante che precede un bivio o una diversa coscienza. Forse per questo si è guardato a quell’esperienza con fiducia e benevolenza. Una luce positiva perchè promettente. Quell’idea curatoriale, pure già troppo invasiva, aveva la sua ragione di essere in quell’aria di festa, in vista di un possibile più ampio, di quella speranza-cometa, o forse soltanto per il desiderio che qualcosa di nuovo e positivo per tutti potesse accadere. Forse erano solo i pensieri confusi di un passante in quel frammento di spazio-tempo all’Arsenale, ma quella scheggia luminosa di un movimento in vista un mondo nuovo parve subito dopo nient’altro che l’ennesimo evento mondano.

 

Frankfurt a.M., 23. 02. 2018

 

Note

[1] Obrist ne descriveva alcune caratteristiche: «La Stazione diventerà un luogo in cui fermarsi, riflettere, […] riposare […], parlare e fare scambi […] incorpora materiali estetici, questioni estetiche, in un’altra economia che non considera l’arte come una cosa inevitabilmente dissociata».

[2] Nicolas Bourriaud. Postproduction, Postmedia Books, 2004 (ed. originale Postproduction, Berlino, Lukas & Sternberg, 2002) e inoltre: N. Bourriaud, Esthétique relationnelle, Dijon, Les presses du réel, 1998 (tradotto solo nel 2010 in italiano Arte relazionale, Postmedia Books, 2010.

 

[3] M. Hardt – A. Negri, Empire, Cambridge, Harvard University Press, 2000 (M. Hardt – A. Negri, Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, Milano, Rizzoli, 2002.

VIDEO:

Utopia Station, Venice Biennale, Summer 2003
RAM radioartemobile and Zerynthia, 2003
RAM presents Utopia Station with: Jimmie Durham, W. Podrazik, Moldi Ravenna, Yoko Ono, Franz West, Luigi Ontani, H. U. Obrist, Lawrence Weiner… non linear editing: Antonio Trimani
https://www.youtube.com/watch?v=Ww_RZ-PyYrc

Immagini da: https://www.portikus.de/en/exhibitions/208g_portikus_xxx