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le grandezze economiche, le loro mutevoli definizioni e il gatto di Schrödinger che diventa marxiano

di Paolo Di Marco

1- garbage in, garbage out

È un modo di dire informatico: se a un calcolatore dai in pasto spazzatura quello che otterrai sarà sempre spazzatura.
In economia questo significa che le nostre condizioni di partenza devono essere ineccepibili: le definizioni solide, non contradditorie, prive di presupposti nascosti, sufficienti a determinare tutti gli elementi successivi; le condizioni iniziali sensate e corrispondenti ad elementi empirici verificabili.
Iniziamo dai presupposti nascosti, e per chiarire cosa sono facciamo un esempio:
a) una storiella macabra: padre e figlio vanno in macchina, l’auto esce di strada; il padre muore, il figlio viene trasportato in ospedale. Portato in sala operatoria il chirurgo arriva, impallidisce e dice: non posso operarlo, è mio figlio. Come mai?
b) un problema geometrico: con 6 stecchini (o fiammiferi, o legnetti della stessa lunghezza) costruire 4 triangoli equilateri. Provate.
Questo e simili problemi sono stati posti a molte persone di tutti i livelli di cultura e intelligenza, e in tutti i casi hanno provocato notevoli turbamenti: qualcuno trovava la soluzione quasi immediatamente, per intuizione; qualcun altro si arrabbattava, cercava di cambiare i dati della questione per adattarli alla soluzione che aveva pensato; altri ancora dopo un poco ricorrevano alla forza bruta della logica:
nel primo caso la logica guarda la situazione partendo dal figlio, che ha padre e madre; se il padre muore il genitore che rimane è la madre; il presupposto fuorviante nasce dall’uso maschile di parole comuni come avvocato, sindaco, chirurgo…(anche se questo esempio è un pò datato…)
nel secondo caso la logica dice: un triangolo equilatero ha 3 lati uguali; quindi 4 triangoli hanno 12 lati; avendo sei stecchini ognuno di essi dovrà essere il lato di due triangoli; ma se li mettiamo sul piano il massimo che possiamo ottenere sono due triangoli combacianti; allora la soluzione non può essere sul piano; quindi è nello spazio: un tetraedro.
E in Economia? Qui i presupposti nascosti non mancano, e giocano a rimpiattino fra di loro: valore, costo, prezzo hanno tra di loro un rapporto ambiguo e a volte si fondano l’uno sull’altro in un’infinita catena ricorrente.
È come il gatto di Schrödinger: nella scatola è vivo e morto contemporaneamente..ma quando la apri è troppo tardi per salvarlo se è morto. Concetti come quello di equilibrio hanno in Economia lo stesso statuto, per non parlare della ‘mano invisibile’ che regola il mercato, di natura ancora più multipla della trinità celeste.
La terza puntata degli scritti di Sraffa qui di fianco si occupa di questo problema, mentre intanto andiamo a ritroso nel tempo per riuscire a vederne un significato non ambiguo ma scientificamente (in antropologia) fondato.
Nel frattempo vi lascio un altro problemino:
-perchè il PIL dovrebbe sempre crescere di anno in anno?

2- l’origine del denaro e del debito

Se ancora con David Graeber (‘Debt, the first 5000 years’) ripercorriamo la storia dell’umanità dalle origini, ancora una volta scopriamo che quello che viene dato per saggezza acquisita è in realtà una serie di fantasie e ipotesi ideologicamente motivate che poco hanno a che fare con la vita sociale dei nostri antenati.
Cominciamo dal debito, questo termine è architrave di tanta parte della nostra morale, della religione, del rapporto con lo stato: il debito che abbiamo coi nostri antenati, il debito alla natura o agli dei che ci hanno generati, il debito alla società che ci ha allevato e istruito e ci protegge….Ma tutti questi elementi sono parte dello stesso discorso che vede come carattere precipuo dell’uomo lo scambio e nella sua forma primitiva il baratto, quello stesso baratto che abbiamo visto essere solo elemento secondario e residuo dei rapporti sociali con stranieri.
Ma nelle aggregazioni sociali antiche anche urbane non c’è all’origine un’economia di scambio: i beni acquisiti attraverso l’attività di raccolta/caccia contribuiscono ad uno stato di parziale autosufficienza; laddove questa non è completa, sia per elementi di divisione del lavoro (a.e. la produzione di frecce) sia per motivi contingenti non c’è scambio ma dono: a chi manca qualcosa viene dato, senza promessa di restituzione; è un giro continuo, con tutte le sue irregolarità ed aleatoietà. Per mantenere un minimo di equilibrio la morale è costruita colle favole (come lo scroccone dei miti Lakota), ribadita nell’eloquenza dei capi; quando c’è un sovrappiù, vuoi per la stagione vuoi perchè c’è un allevamento-coltivazione estemporanea, il consiglio delle donne raccoglie e distribuisce. In tutte le origini, ma anche al livello base delle società più tarde troviamo questa forma di comunismo semplice.
Laddove dal dono si passa allo scambio fra equivalenti questo presuppone che anche i soggetti che scambiano siano degli uguali; il mercato è solo possibile a questa condizione. Col debito e poi col mercato nasce la misura, le equivalenze, l’unità: tradotta in metalli od oggetti preziosi prima, usata negli scambi con stranieri dopo, strumento dello stato per raccogliere le tasse e creare il mercato, mezzo di scambio universale solo qualche migliaio di anni più tardi. Le prime equivalenze nascono al di fuori dello scambio: sono i conti dettagliati di cosa si debba dare alla famiglia per l’uccisione di un uomo, la sua mutilazione, il suo onore. Rimangono fatto privato, non scambiabile. È solo coi mercanti che girano in terre straniere che i debiti diventano scambiabili: le lettere di credito dei Sumeri anticipano di 4000 anni quelle dei banchieri toscani, e la fiducia è parte essenziale del numerario. È solo in Cina che il metallo della moneta si scontra con l’uso simbolico, in una continua lotta tra il Confucianesimo di stato e le migliaia di templi buddisti che fondono il rame delle monete per costruire i tetti.
Ma è interessante ricordare le motivazioni per cui nell’Islam e nel Cristianesimo era vietato l’interesse (usura, nel suo termine classico): nel secondo perchè il tempo è di dio, e quindi il tempo del denaro (quello del prestito) non può essere appropriato dagli uomini (San Basilio il più intransigente); nel primo perchè la moneta di per sè non ha valore, e quindi di per sè non può dare frutti.
(In entrambi però si trova presto la scappatoia, con la ‘eccezione di Ambrogio’, che esclude da questa legge gli stranieri..aprendo la strada all’uso degli ebrei come usurai per conto altrui e poi anche proprio; e in Maometto-che mercante era nato- con la remunerazione del rischio).

3- i modelli economici

Un modello economico è fatto di tre strati:
la definizione delle grandezze materiali (beni di consumo, macchinari, tempo di lavoro..)
l’introduzione di grandezze astratte che implicano classificazioni e comparazioni (industrie, prezzi, valori, profitto..)
l’introduzione di relazioni tra tutte queste grandezze.
Ignoriamo per il momento il fatto che queste definizioni ed astrazioni sono spesso caricaturali, riducendo il lavoratore ad una macchietta con la casacca a righe e la palla al piede, o peggio false in quanto semplicistiche: come l’antropologia moderna ci insegna scambio e moneta sono momenti parziali dei rapporti sociali, che possono venire abbandonati per scelta in qualsiasi momento; la loro ossificazione esprime solo un rapporto di forza tra classi sociali e non una legge naturale.
Torniamo ai modelli; possiamo distinguerli in due grandi categorie: quelli intelligenti, che cercano risposta ad una domanda del tipo: cosa succede se varia una certa grandezza? Come e quanto si ripercuotono i suoi effetti?
Il che implica preliminarmente che le grandezze in gioco siano legate fra di loro con rapporti funzionali diretti o indiretti.
(Nel primo caso ad esempio abbiamo y=3x, che è rappresentato da una retta, quindi all’aumentare di x anche y aumenta linearmente; nel secondo abbiamo y+x=2, che possiamo però mettere in forma funzionale diretta: y=2-x /anch’esso una retta/, quindi all’aumentare di x vediamo y diminuire linearmente; e tutte le forme anche più complicate /esponenziali, iperboliche,…/ ma sempre logicamente ben determinate).
La seconda categoria è quella dei modelli stupidi (tecnicamente parlando): si mettono dentro tutti i dati e le relazioni empiriche di un certo momento e si cerca di farne un sistema completo. Un esempio è il modello econometrico dell’economia italiana M1B1 della Banca d’Italia degli anni ’60, pieno zeppo di coefficienti ad hoc nelle relazioni fra grandezze in modo da far tornare i conti. Un’operazione di questo tipo è stupida perchè non cerca di capire il funzionamento del sistema, quindi le relazioni principali tra i suoi elementi, ma descrive solo lo stato in un certo istante; senza nessuna idea di come e perchè questo possa variare nei tempi successivi. (È anche in parte il metodo di quella che con involontaria ironia si chiama intelligenza artificiale, in particolare i metodi basati sulle reti neurali: si danno in pasto a una popolazione di neuroni virtuali una serie di dati grezzi e si fa evolvere darwinianamente la popolazione finchè non dà immagini con un qualche senso.)
Un modello intelligente deve operare una selezione e individuare un nucleo fondamentale di relazioni.
Le tabelle di input-output di Leontief sono una buona rappresentazione della loro parte materiale: da un lato (input) c’è la tabella in cui ogni riga rappresenta un’industria coi suoi componenti e i prodotti che utilizza, dall’altro (output) la tabella coi prodotti relativi.
Su questa base incominciano le relazioni e le domande: una parte sono le condizioni efficienti di riproduzione (in modo da avere l’anno successivo un sistema completo e vitale) , l’altra parte sono i termini normalmente espressi in termini monetari: profitti, prezzi, di equilibrio o differenziati.
Le domande dell’economia classica sono essenzialmente tre:
– da dove viene la ricchezza/il profitto
– come si distribuisce la ricchezza
– se e come si può generare un equilibrio ottimale; nella sua forma più generale tale che tutti i fattori vengano retribuiti equamente (cioè in proporzione alla propria quota di partecipazione)
La nuova teoria marginalista lascia cadere la prima domanda, ed è poco interessata anche alla seconda; piuttosto, utilizzando metodi matematici un filo più avanzati come le derivate, cerca ottimi parziali, legati cioè a particolari fasi del processo produttivo. Il rovesciamento del punto di vista classico diventa completo quando alla ricerca del rapporto tra prezzi e lavoro incorporato si sostituiscono le preferenze dei consumatori nella determinazione dei prezzi. Gli ottimi Paretiani che compaiono al proposito fanno nominalmente omaggio alla complessità dei rapporti sociali che sottendono lo scambio capitalistico, ma di fatto ne coprono con un velo illusorio la sostanza. Quello scambio che nasce come rapporto tra uguali diventa scambio ineguale nel processo diretto e anche nel rapporto con l’esterno: i rapporti di forza e di classe vengono occultati nell’astrazione delle merci e delle ‘propensioni al consumo’.
Walras traduce in forma compiuta questo procedimento e formula un modello generale; rendendolo dinamico otteniamo un modello dinamico di equilibrio economico generale, in altri termini un modello di sviluppo.
La differenza coi modelli statici è che che le variabili (prezzi, quantità prodotte) sono funzioni del tempo attuale (t) e del tempo precedente (t-1). E non compaiono solo le quantità ma le loro derivate parziali, ovvero la variazione della quantità rispetto a una sua componente; che ne descrive la dipendenza istantanea. (Quelle che sono comunemente (e oscuramente) denominate quantità marginali: costo marginale significa che, supposto che il costo C sia funzione della quantità prodotta y -(C=C(y))- allora ∂C/∂y è la variazione del costo al variare della quantità prodotta-e viene chiamato costo marginale. Analogamente per produttività marginale e simili).
L’utilizzo dell’ipotesi della concorrenza perfetta permette anche di assumere come risolto il problema della riproducibilità fisica del sistema (che i beni prodotti siano uguali a quelli consumati). (v. nota 4)
Una soluzione a questo modello esiste (v Manara, nota 1) con una caratteristica precipua: per ottenere i prezzi di equilibrio è necessario fissare il tasso di interesse. Ovvero rimane indeterminato, con una variabile libera, e la soluzione è in realtà una serie di tassi di interesse cui corrisponde una serie di tabelle di prezzi. (v. nota 3)
Il modello generale da noi presentato in precedenza, che corrisponde allo schema rappresentato nel terzo volume del Capitale di Marx (v. nota 2) , diventava invece sovradeterminato se cercavamo contemporaneamente la corrispondenza tra prezzi e valori.
Una considerazione importante era però che questo corrispondeva alla natura contradditoria del processo produttivo, dove in realtà l’equilibrio è sempre un processo dinamico e mai soddisfatto, e dove la corrispondenza univoca valori-lavoro/prezzi era il riferimento ideale e insieme instabile. Tuttavia, nonostante in varie forme questa considerazione sia stata il motore della ricerca marxiana (dal carattere esterno dell’equilibrio di Rosa Luxemburg e alle sue varianti moderne terzomondiste in poi nelle teorie del consumo), rimane logicamente poco soddisfacente.
Una risposta diversa è stata data da Sraffa prima (e altri come Gianfranco Pala su linee corrispondenti) dove si cercava di preservare il lavoro accumulato come motore e unità di misura, anche se in forma indiretta.
Ma l’elemento di indeterminazione della soluzione all’equilibrio dinamico generale ci permette anche un’altra strada, facendo rientrare dalla finestra quel valore-lavoro che era stato ignorato alla porta: il tasso di interesse (o il saggio del profitto, che sono equivalenti dal punto di vista logico nel modello matematico) non lo consideriamo arbitrario -cosa che non appare nè logica nè vera osservando la realtà- ma come determinato dal saggio di sfruttamento; cioè da quel rapporto tra lavoro pagato e lavoro non pagato che è alla base dell’analisi marxiana.
Potremmo anche utilizzare il grado di libertà che la soluzione contiene per reintrodurre direttamente il rapporto prezzi-valori, ma ci cacceremmo in un ginepraio difficilmente traducibile in termini concreti. Ci basta rimandare alla dimostrazione di Pala sulla riconducibilità in linea di massima dei prezzi a una somma storica di valori-lavoro.
Quindi l’indeterminatezza si trasforma per necessità in un sistema univoco, con gran dispetto di Schrødinger che non trova più il suo gatto e anche di tutta l’ideologia che si era fatta economia.

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1-Equazione Equilibrio generale Dinamico (Manara in 1, p 197 seg.)

Questa è una delle equazioni di sintesi del modello, che al di là della formulazione in un linguaggio tecnico esprime una cosa molto semplice: l’esistenza di una relazione tra tutti i beni di produzione e di consumo valutati coi loro prezzi attuali e precedenti.
Ha un carattere talmente generale da essere anche generico, e l’elemento importante in realtà è il fatto che pur con questa genericità esista una soluzione. Riprende sia il modello di Leontief che quelli di von Neumann e Walras.

2-Possiamo leggere la storia degli ultimi secoli come una progressiva espropriazione del proprio tempo, trasformato in tempo di lavoro collettivo controllato dal capitale.
 Marx è l’ultimo economista che si occupa dell’origine del profitto (tema centrale dell’economia classica sino a Ricardo), e la sua analisi parte dalla giornata di lavoro, il cui tempo viene diviso in due parti: una in cui il lavoratore lavora per sé, l’altra per il padrone. Questa seconda dà origine al profitto.

Il capitalista investe del denaro D per ottenere dell’altro denaro D’, che includa un guadagno
D -> D’,          D’–D=R (profitto),        (R/D == saggio profitto)
come nasce R:
nel processo produttivo abbiamo:
cc: capitale costante (macchinari, stabilimenti),
cv: capitale variabile (gli operai);
sv: il surplus prodotto solo da cv (quello prodotto nel tempo ‘del padrone’);
quindi:
il capitalista trasforma il denaro D in mezzi di produzione, cc e cv e ne ottiene un prodotto p (che contiene il pluslavoro sv) che trasforma sul mercato in nuovo denaro
D’: cc+cv+sv= p (prodotto) R=sv
e, chiamando r il saggio:
r= sv/(cc+cv)
introduciamo due grandezze: il saggio di sfruttamento e, cioé il rapporto sv/cv, che ci dice quanta parte della giornata lavorativa l’operaio lavora per se e quanta per il padrone e la composizione organica del capitale, o, il rapporto cc/cv, che dice quanto macchinario usa una fabbrica in proporzione agli operai; allora possiamo riscrivere, dividendo sopra e sotto per cv:
r= e/(o+1)
che ci dice che il saggio del profitto é direttamente proporzionale al saggio di sfruttamento e inversamente proporzionale alla composizione organica.

3– un sistema di equazioni è fatto di n equazioni e m variabili.
Se n=m allora il sistema ha una soluzione;
se n>m allora è sovradeterminato e non ha soluzioni;
se n<m allora è indeterminato, e si può risolvere solo rispetto a n variabili lasciando le altre ‘libere’

4-‘Was aber die Koncurrenz nicht zeigt, das ist die Wertbestimmung, die die Bewegung der Produktion beherrecht’ -Marx, op. cit, p. 219 (Quello che la concorrenza però non mostra è il contenuto di valore che regola l’andamento della produzione’
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Riferimenti bibliografici
C.F. Manara, P.C. Nicola, Elementi di Economia Matematica, Viscontea 1970
H.R. Varian ed, Economic and Financial Modelling with Mathematica, Springer 1993
J. Von Neumann, O. Morgenstern, Theory of Games and Economic Behaviour, Princeton U.P. 1944
Marco Lippi, i prezzi di produzione, il Mulino,1979
Samir Amin-L’accumulation a l’échelle mondiale-Anthropos, 1970
Wassily Leontief, Il futuro dell’economia mondiale, Mondadori 1977
J. Gillman, Il saggio del profitto, Editori Riuniti, 1961
Michio Morishima, Theory of Economic Growth, Clarendon, 1969
Gianfranco Pala, L’ultima crisi, Franco Angeli, 1982
Karl Marx, Das Kapital, dritter band, Dietz 1965 (1894)
Paolo Di Marco, Modelli Economici, in Metodi matematici ed Economia, Clup 1983
Paul Baran, Il surplus economico e la teoria marxista dello sviluppo, Feltrinelli 1962
David Graeber, Debito, gli ultimi 5000 anni, il Saggiatore, 2014
David Graeber, L’alba di tutto, Rizzoli 2022
Jon Tisdall, in Enciclopedia Essenziale dei Finali, ‘Alfiere contro Cavallo’ , Prisma 1999

 

anno nuovo, vecchie trappole

 

la fusione nucleare come risposta energetica al riscaldamento globale

di Paolo Di Marco

Oltre ai piccoli reattori a fissione rispunta all’orizzonte la fusione. Ne parla anche Luigi Vinci (qui, a cui risponde Carlo Dario Ceccon, qui, in quello che è nella sostanza un panegirico di Draghi che ci fa mangiare alla tavola dei ricchi) e compare anche ogni tanto nei discorsi di Cingolani, che va detto che se  sembra più un propagandista ENI che un ecologo è perché sente nel governo un ambiente propizio.
La fusione: unire due atomi piccoli (idrogeno o suoi isotopi) e utilizzarne l’energia; come il sole, ci si dice.
E qui scatta la prima trappola, ché ci sentiamo subito tutti uniti come un sol uomo, l’homo onnipotens.
Ma dobbiamo guardare meglio cosa serve per unire gli atomi, perché l’avvicinamento richiede di vincere una resistenza enorme, quella all’origine di quanti:

dp*dm>h —>dp>h/dp   ,  dm=0 —>dp=∞

( —> equivale a  implica)

È il principio di indeterminazione, che tradotto in parole ci dice semplicemente che, data una particella, non possiamo sapere contemporaneamente con esattezza (d sta per differenza, quindi dp significa differenza di posizione e dm differenza di momento) la sua posizione e la sua energia (momento). È come se la particella occupasse non un punto ma un   intero cerchietto. Ma non è un sapere astratto bensì una cosa molto concreta: se diminuiamo il raggio del cerchietto la particella si agita sempre di più. E quindi è come se occupasse più spazio.
Non vorrei che a qualcuno venissero le vertigini, ma è il motivo per cui non passiamo attraverso il pavimento: i nostri atomi hanno tra di loro un sacco di spazio vuoto -e lo stesso quelli del pavimento; camminare dovrebbe essere come passare il pettine tra i capelli, ma invece gli atomi del pavimento non si scostano per far passare quelli dei nostri piedi (e se lo fanno aumentano il movimento quindi rioccupano più spazio…).
Se allora torniamo agli atomi di idrogeno della fissione per vincere l’indeterminazione serve un’energia, moltissima energia. Per immaginare quanta torniamo alle stelle: la loro vita dura quanto il combustibile che hanno (l’idrogeno all’inizio poi via via gli atomi più grandi) e che fornisce agli atomi l’energia per rimanere distanti; finita quella la gravità della stella prevale, vincendo tutte le resistenze, condensando sempre più la materia, finché vince anche la resistenza dell’indeterminazione e diventa una stella a neutroni o, se la massa è almeno 4 volte quella del sole, un buco nero. Nello stadio finale è come se ogni atomo avesse sopra di sé tonnellate e tonnellate di materia che lo schiacciano. L’energia che dobbiamo fornire agli atomi per la fissione è di questo ordine di grandezza, anche se qui si tratta di avvicinare.
Per il sole è facile, con densità e temperature altissime e tempi di confinamento infiniti, così il prodotto è un innocuo elio.
Ma le forze che abbiamo a disposizione sulla terra: campi magnetici fortissimi, raggi laser, non sono abbastanza per l’idrogeno.  E allora bisogna usare degli isotopi più pesanti deuterio e trizio (con numero di neutroni doppio o triplo) che sono molto più reattivi. E possiamo anche limitarci a vincere la repulsione elettrica, fino al punto di vicinanza in cui la forza forte terrà insieme le particelle.

Solo che qui cominciano i guai, perché:

  • l’80% del prodotto sono fasci di neutroni ad alta energia che danneggiano le strutture, producono scorie radioattive, generano forti danni biologici e, dulcis in fundo, potenzialmente plutonio 239, ottimo per le bombe.
  • più gli inconvenienti dei reattori convenzionali a fissione: l’uso di un combustibile che non esiste in natura, il trizio, che va rigenerato continuamente dal reattore stesso, e assorbimento di energia parassitica che ne riduce drasticamente la produzione (e che quando il processo di fusione è interrotto va prelevato dalla rete); questo implica una dimensione minima di convenienza che supera i 1000 MW

Gli esperimenti in corso stanno arrivando al limite della soglia netta di efficienza, dove l’energia prodotta è maggiore di quella immessa. Ma prima che questo percorso arrivi al livello di prototipi operativi passeranno ancora almeno 10 anni, superando la data limite del 2030. Almeno altri 10 anni per arrivare ad una operatività effettiva, con dei costi enormi e dei risultati inutili ai fini dell’elettricità prodotta: già adesso calcolabile intorno a 1/4 delle energie rinnovabili, per allora a 1/10. (Questo nell’ipotesi che tutto funzioni secondo previsioni, cosa che per gli ultimi impianti nucleari costruiti non è risultata vera: 10 anni in più e costi quadruplicati per le ultime centrali a fissione). E quello che ancora non si sa è quanta energia elettrica potrà essere concretamente ricavata, dato che per ora l’esemplare più grande, ITER a Cadarache, consuma 500 MW per produrre solo neutroni veloci; la seconda parte, dai neutroni all’elettricità, è ancora sperimentalmente indeterminata.

L’esperimento ENI/CFS, analogo a ITER ma con magneti superconduttori, ha le stesse problematiche, anche se i comunicati stampa ignorano tutti i particolari e riportano date il cui unico fondamento è l’ottimismo della volontà.
E poi c’è la seconda trappola: il punto di vista.
Per le industrie l’energia nucleare è una prospettiva entusiasmante: un sacco di soldi da fare nel venderle (con costi di ricerca in larga parte a carico nostro), un sacco di soldi per l’energia immessa in rete (che paghiamo noi).
I costi nascosti, come la gestione degli incidenti e lo smaltimento delle scorie radioattive, sono ovviamente sempre a carico nostro. Lo sa bene la Westinghouse che per aver fatto un contratto dove se ne accollava in parte i costi si è dovuta cautelare con una procedura fallimentare, dato che per due centrali chiuse sono accertati al momento centinaia di miliardi di costi di smaltimento.
In sostanza abbiamo una sola strada per affrontare a testa alta il riscaldamento planetario: le energie rinnovabili. Coi soldi necessari al nucleare se ne costruiscono abbastanza, accumulo incluso, da superarne i limiti di periodicità (l’eolico, i sistemi di accumulo, l’idrogeno da elettrolisi fotovoltaica compensano i limiti del fotovoltaico puro).
Il guaio è che la barca viene condotta da chi per natura guarda al profitto e da chi è educato ad assecondarli, …e per il resto di noi vale il motto ‘burn, baby burn’.

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Fonti del ‘Bulletin of the Atomic Scientists’ , 2017, 2018

https://thebulletin.org/2017/04/fusion-reactors-not-what-theyre-cracked-up-to-be/(Daniel Jassby, Princeton Plasma Physics Lab)

https://thebulletin.org/2018/02/iter-is-a-showcase-for-the-drawbacks-of-fusion-energy/(Daniel Jassby)

Fai clic per accedere a cs-eni-cfs-raggiunto-fusione-confinamento-magnetico.pdf

l’anno scientifico in pillole: barriere infrante

di Paolo Di Marco

Le notizie più interessanti in ordine di importanza sono state:
1-Il 6° rapporto IPCC  che conferma le previsioni più pessimistiche dei rapporti precedenti: laddove il 5° rapporto dava il 2100 come punto di riferimento per i ‘punti di svolta’ (tipping points’, ovvero picchi di non ritorno) in questo il 2030 è l’anno in cui vengono a maturare molti dei frutti avvelenati creati dall’uomo capitalista nel corso degli ultimi due secoli.                                                                                                     Si precisa ulteriormente che quella a cui siamo di fronte è una cascata di effetti, dove il riscaldamento globale è il punto iniziale di altre crisi, come esemplarmente l’acqua: riscaldamento —>siccità nei paesi equatoriali e aridi/tempeste di aumentata intensità negli altri paesi—>accaparramento acqua mediante dighe —->guerre per l’acqua/emigrazioni/carestie —->esportazione del conflitto in altri paesi. La catena coinvolge le calotte polari in scioglimento, con duplici conseguenze: aumento del livello dei mari (soprattutto da Groenlandia e Antartide) e diluizione della salinità dei mari subpolari, con rallentamento dell’AMOC (di cui la corrente del Golfo è parte) e messa in crisi di tutti gli equilibri climatici (l’acqua dell’AMOC sposta il caldo dal Sud al Nord garantendo una temperatura accettabile al Sud e una meno fredda al Nord). L’elemento chiave è che questi effetti sono parte del presente, non di un futuro ipotetico. Prima di chiederci cosa fare conviene approfondire la comprensione di cosa realmente sta avvenendo. È una lettura lunga ma avvincente.

2-Il Nobel a Giorgio Parisi, ne abbiamo parlato già ma val la pena di ricordare che gliel’hanno dato ‘a rimorchio’ delle applicazioni climatiche (come del resto ad Einstein non l’avevano dato per la Relatività ma per l’assai più tradizionale studio dell’effetto fotoelettrico..anche se poi questo apre la strada ai quanti). L’entrata della complessità nel cuore delle teorie scientifiche è ancora un cammino incompiuto, in una fase in cui le università sono sempre più motori delle applicazioni pratiche (con le startup pronte sulla rampa di lancio) -(almeno all’estero, da noi siamo ancora al concorso vinto dal figlio scemo del cugino demente dell’illustre cattedratico, o ai bru-bru inetti che gestiscono Istituti tecnologici, v. Cingolani e il miliardo restituito) e dove anche le cattedre universitarie non sono più scuole di ricerca ma premi temporanei in attesa di migliore offerta sulla base delle tendenze più alla moda (sempre all’estero ovviamente); l’eccessiva fortuna della teoria delle stringhe ne è un esempio. Come anche il fatto che ancora vada di moda una bufala come la ‘energia oscura’, presunta causa di un’espansione dell’universo che in realtà è già inclusa nelle equazioni della Relatività .

3-Il cristallo temporale (Time Cristal), creato nei laboratori di Google, Stanford e Princeton da Khemani, Moessner, Nayak et al., apre la possibilità del moto perpetuo, rompendo la barriera della seconda legge della termodinamica: è un cristallo che cambia periodicamente configurazione senza alcun consumo di energia. (Anche se le sottigliezze in questo campo sono tali che non si può escludere una futura smentita proveniente da un’analisi più accurata).

4-I vaccini a RNA-messaggero erano in preparazione da tempo e sono arrivati giusto per la pandemia, con una velocità di produzione e certificazione impossibile in altri tempi. Nonostante le voci scettiche i maggiori hanno superato regolarmente tutte le prove, dalle tre fasi sperimentali alla certificazione finale. (Per la natura stessa dei vaccini eventuali effetti secondari dannosi decrescono esponenzialmente col tempo, quindi se si presentassero rappresenterebbero un rischio minimo). La loro gestione è stata tutt’altra musica: dai produttori finanziati totalmente dallo stato come Moderna che rifiutano di venderlo al terzo mondo e presentano richiesta di brevetto che esclude proprio i ricercatori dello stato (NIH) agli stati ricchi come USA in primis ed Europa che si accaparrano tutte le dosi e lasciano il terzo mondo a fare da incubatore per tutte le possibili varianti. Così per risparmiare 12 miliardi (il costo della vaccinazione globale) ne spendono migliaia di costi pandemici prolungati, giusto per confermare la stupidità della logica egoistica. L’altra considerazione è che la lotta alla pandemia ha due gambe, la prevenzione della malattia da un lato e il blocco della diffusione dall’altro. La prima gamba ha funzionato a metà (i soli vaccini) dato che l’altra metà (sistema sanitario pubblico di base e centrale) era in asfissia da tempo; la seconda gamba ha funzionato solo coi piedi: dopo aver usato il cannone per sparare alle mosche (il lockdown) si è persa in un coacervo di misure improprie o inefficaci per non disturbare il grande manovratore (il profitto delle aziende di produzione e distribuzione), senza imporre la ventilazione+depurazione nei luoghi di lavoro/consumo. Imponendo così ai vaccini un carico improprio, rinunciando all’immunità di gregge…ai tempi della peste manzoniana avevano fatto meglio, pur non sapendo le cause.

5-La guerra batteriologica è viva e vegeta: questa è la grande notizia che porta con sé la pandemia; anche se non sappiamo con certezza se il virus sia artificiale o zoonotico sappiamo però che Wuhan è uno dei dieci laboratori a guida US dove si prepara la guerra batteriologica, con capofila Fort Detrick. (Ce l’hanno detto Wade sul Bulletin of Atomic Scientist, ne parla già nel 2015 il telegiornale Leonardo, ne parla anche la dettagliata ricostruzione di Fosco Giannini su Cumpanis). I nomi da ricordare sono Ralph Baric (North Carolina Un.) Peter Daszac (EcoHealth (!!) Alliance, NY) e Anthony Fauci (CDC). Non si chiama più col nome originale bandito dall’ONU e proibito da Obama, ma coll’eufemismo ‘gain-of-function’ e segue la stessa logica: a) si prende un agente patogeno (virus o batterio) presente in natura —>b) lo si virulenta (il gain-of-function) con un poco di ingegneria genetica che lo renda predisposto per l’uomo —>c) si costruisce un vaccino —>d) lo si sperimenta —> e) si dà il vaccino alle proprie truppe —> f) si sparge il virus sul territorio nemico —>g) si mandano le truppe a raccogliere i cocci. Le fasi autorizzate per ora non comprendono dalla e) in poi, quelle propriamente belliche. Le altre ci sono tutte.

6-GPT-3 ha iniziato a scrivere: è un’intelligenza artificiale (A.I.) addestrata sulla grande letteratura e scrive in automatico. Per ora scrive cose assai interessanti miste a elementi privi di senso, ma una prima barriera è stata superata.

7-Un’altra barriera è stata infranta col Deep Fake Porn (porno a falsificazione completa) :su un sito online se uno mette la foto di una persona (perlopiù donna) viene generato un filmino pornografico di cui la persona rappresentata è protagonista. In questo momento il sito è offline (spento) ma le potenzialità di danneggiamento con ricatti, vendette e altro su persone amate/odiate sono enormi; e incontrollabili. Anche politiche: immaginate venga fatto a Giorgia Meloni: anche se poi si scopre che è un falso la sua carriera politica è finita, perché, per quanto lo sappia, la gente non può smettere di identificarla con quel film.

8-Un grande passo avanti sul funzionamento del cervello è stato fatto da Lisa Feldman Barret (Un. N.E.): il grande avanzamento degli ultimi decenni era il livello di dettaglio sulle funzioni cerebrali grazie a immagini sempre più sofisticate per via magnetica/termica/elettrica. La Barret ha però scoperto che questo dettaglio era ingannevole, dato che molte funzioni coinvolgono assai più zone del previsto; così si generano anche collegamenti ingannevoli, perché se uno fa un esperimento che coinvolge in teoria una piccola zona ma nel frattempo il paziente muove l’occhio si illumina grazie a questo più di metà del cervello. E inoltre esistono assai più collegamenti tra zone diverse di quanto il meccanicismo in voga aveva immaginato. Questo porta due risultati, entrambe interessanti: il primo che molti farmaci per malattie che coinvolgono il cervello hanno un bersaglio sbagliato o impreciso. Il secondo è che rimette in discussione il meccanicismo descrittivo e porta alla ribalta analisi più complesse (v. ancora Parisi) e multidimensionali (v. Damasio).

9-La fisica tedesca Netta Engelhardt ha fatto un passo avanti -rompendo anche qui una barriera- sulla risoluzione del paradosso dei buchi neri: un teorema di Hawking ci diceva che i buchi neri nel corso della propria vita perdono informazione – il che rompeva una legge generale tabù equivalente al ‘nulla si distrugge’. Con un’analisi geoalgebricamente assai raffinata la Engelhardt ha trovato un modo per individuare con precisione la zona (astratta) dove si poteva vedere l’evoluzione dell’informazione. E questa corrisponde proprio ad un andamento dove l’informazione non si perde. Manca ancora il passo finale…ma un’altra barriera è stata infranta. L’elemento interessante è stato che il percorso non è stato lineare: invece di affrontare l’ostacolo a testa bassa ha girato intorno all’ostacolo, usando un ‘pensiero laterale’, un cambiamento di visuale.

10-Makhijani Ramana, sul Bulletin of Atomic Scientist del 21/7, ha dimostrato come i piccoli reattori atomici modulari (SMR) che oggi vanno per la maggiore (anche sulla bocca di ministri italiani) siano del tutto inadatti a contribuire alla lotta al riscaldamento globale, a) vuoi per i costi dell’energia prodotta, pari a 4 e più volte quella delle fonti rinnovabili, b) vuoi per i tempi (2030 e oltre per l’inizio) c) e anche per l’affidabilità (inferiore a quella già bassa dei reattori attuali) d)senza contare il problema delle scorie e dei costi di smaltimento delle stesse che moltiplicherebbe ulteriormente i costi per un fattore incognito ma probabilmente non inferiore a 10.

Tutto questo, nel suo insieme, è scienza: nel bene e nel male, per la conoscenza e per il profitto, per il bene di tutti o di pochi; ma con il controllo di quella severa maestra che sono i dati e la loro verifica collettiva. Non sempre avanza il migliore..ma il peggiore viene presto eliminato. Finora ci sembra sia andata così…

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

finalmente una buona notizia: la teoria economica è morta

Keynes, Graeber, Krugman

introduzione, Paolo Di Marco

Come ha detto recentemente un estremista come Giorgio La Malfa (v.3) alla presentazione dell’edizione dell’opera di Keynes curata da Anna Carabelli:
alla Bocconi negli ultimi trent’anni ci hanno insegnato fuffaContinua la lettura di finalmente una buona notizia: la teoria economica è morta

l’invenzione dell’egoismo

di    Paolo Di Marco

Ju/'Hoansi del nord Kalahari

1- le tribù dei raccoglitori-cacciatori
Nell’Aprile del 1966 la conferenza ‘Man, the Hunter’ (l’uomo, il cacciatore), convocata a Chicago dall’antropologo Richard Lee fu molto affollata; si era sparsa la voce che i risultati presentati sarebbero stati sorprendenti. Partecipavano i classici rappresentanti dell’antropologia accademica, compreso Levi Strauss, ma anche molti dei giovani antropologi che negli anni ’60, stanchi della pochezza dei dati forniti dagli studi archeologici avevano deciso di buttarsi nel campo a studiare i pochi sopravvisuti dei popoli di raccoglitori-cacciatori dell’antichità.
In quel periodo la saggezza convenzionale era che i popoli primitivi vivessero una vita di stenti, passando tutto il tempo a cercare uno scarso cibo che raramente li sfamava e morendo giovani sempre di stenti. E che quindi i pochi rimasti fossero un caso fortuito di nicchie di miserabile sopravvivenza.
Insieme a Lee che era stato nel Kalahari tra i Ju/‘Hoansi c’erano antropologi che avevano seguito lo stesso percorso nell’Artico, in Australia, in Asia sudorientale. E furono tutti concordi nel rovesciare il paradigma: nonostante la siccità che nello stesso periodo aveva costretto le popolazioni agricole della zona a sopravvivere di aiuti paracadutati, gli Ju/‘Hoansi avevano mantenuto un livello ottimale di alimentazione di 2104 calorie al giorno (il 10% in più di quanto oggi si raccomanda per persone della loro statura).
E questo con uno sforzo modesto: procurando il cibo 17 ore la settimana (esclusi anziani e bambini) e facendo altre attività (dal cucinare al riparare gli utensili) per 20 ore. Una media pari alla metà di un adulto americano.
E nonostante Lee avesse i conti più dettagliati la sostanza della sua analisi era condivisa da tutti gli altri antropologi sul campo.
Per inciso, come già rimarcato ne ‘Il giardino dell’Eden’, la vità della tribù era improntata ad una prassi rigorosamente comunitaria, senza proprietà privata né gerarchie di alcun tipo.
Per 300000 anni questo tipo di vita continuò con successo; i reperti archeologici mostrano che le comunità erano durevoli e mantenevano le stesse dimensioni, senza quindi carestie nè eccessi.
E non venivano neppure create riserve: ogni giorno si raccoglieva/cacciava solo ciò che serviva nell’immediato. Ed era una scelta precisa.
Per comprenderla occorre guardare all’ambiente come parte integrante ed attiva della comunità. Mentre Conrad nel suo Cuore di Tenebra, in preda alle allucinazioni della malaria e della dissenteria, descriveva la foresta intorno a lui come incubo vivente, popolato di bruti e di istinti dimenticati (ma nel mezzo del più brutale e vigliacco saccheggio che i bianchi abbiano mai perpetrato, grazie al re Leopoldo), i BaMbuti, che questa stessa foresta abitavano, la descrivevano come madre amorevole e protettrice.
In un rapporto di scambio reciproco ed equilibrio che il sovrasfruttamento o la sovrappopolazione avrebbero spezzato, minando la sopravvivenza stessa del popolo.

BaMbuti del Congo

2- le tribù degli economisti
In quel convegno erano presenti anche gli antropologi sociali che si occupavano di economia, divisi nelle due tribù dei formalisti e dei sostanzialisti.
Per i primi le economie primitive come quella dei Ju/‘Hoansi erano versioni elementari delle economie capitalistiche, basate sugli stessi impulsi e desideri primitivi, e alla base l’elemento universale che le accomunava erano la scarsità e la concorrenza. La definizione di economia come allocazione di risorse scarse diventa fatto naturale. La concorrenza e la volontà di ciascuno di perseguire il proprio interesse innanzitutto diventano anch’essi istinti e tendenze naturali. (Per gli economisti marginalisti).
I sostanzialisti, il cui rappresentante più interessante è Karl Polanyi vedono piuttosto come universale l’hybris dei sostenitori dei mercati e la razionalità della concorrenza come un sottoprodotto culturale dell’economia di mercato.
Al convegno era presente Marshall Sahlins, con qualche esperienza sul campo ma ferrato nelle questioni di economia, e la sintesi che ricava è sostanzialista: gli Ju/‘Hoansi erano la vera ‘società del benessere’.
E in effetti è stata l’economia di maggior successo della storia umana: per 300000 anni gli uomini sono stati bene, hanno lavorato poco, si sono spartiti equamente i prodotti del lavoro, sono stati in equilibrio fra di loro e con l’ambiente.

3- libertà vo cercando..
Mentre questo avrà sviluppi importanti per la teoria economica val la pena soffermarsi su come l’ideologia abbia falsato la nostra immagine del mondo e dell’uomo stesso, dando come elementi costitutivi della natura umana elementi che erano invece culturalmente indotti o semplicemente ipostatizzati.
Ed è ancora strettamente legata all’economia, reale e definita, l’idea di libertà che viene declinata in tutte le forme e accenti.
Mi resi conto di quale groviglio di elementi comprendesse quando tantissimi anni fa, supplente in un Istituto Tecnico in un periodo di agitazioni e occupazioni, diedi ai miei studenti un tema sul potere apparentemente semplice: ‘elenca tutte le persone che hanno potere su di te’. Ne venne di fuori di tutto: dai genitori al bidello agli insegnanti al bigliettaio del tram al prorietario della casa dei genitori al poliziotto ai vigile al finanziere che speculava sui terreni vicino a casa al prete al segretario della sezione giovanile a…..
Personaggi abitanti livelli diversi, con ruoli diversi, con cui però le sue possibilità di scelta si incontravano/scontravano. A volte direttamente, altre solo da lontano.
Ma se vogliamo portare avanti un discorso che non veda la libertà come pulsione interiore o ideale ma come fatto concreto dobbiamo iniziare a misurarla con le scelte possibili, un po’ come fa la definizione di informazione. E quindi rapportarla a tutti i cammini e i bivi di questi su ognuno dei piani che compongono la nostra vita.
Sembra complicato, e questo è però anche il nocciolo del discorso: viviamo in una società complessa, il cui funzionamento è legato all’interazione tra tutti i suoi elementi. Immaginare che ci sia una definizione semplice è illusorio. Immaginare che esista ‘la libertà’ è illusorio.
Se riguardiamo l’insieme dei cammini su piani diversi di cui è composta la nostra vita, e di tutte le scelte che su ognuno di essi possiamo fare, quand’anche dessimo massimo peso a un piano o un altro non possiamo che immaginare la libertà come una tabella di valori che bene o male vorremmo massimizzare. Senza ancora tener conto del peso di queste scelte sugli altri, di quanto siano accettabili per loro e anche per noi.
Dato che bene o male sopravviviamo ci siamo costruiti fin dall’infanzia una serie di meccanismi automatici, di abitudini, o altri le hanno scelte per noi e sono diventate parte di noi. Come per il multiverso le molte scelte possibili può darsi che si semplifichino, riconducano a pochi elementi, ma assai difficili da valutare.
Pensiamo nella storia degli Stati Uniti a due tipi di anarchici: quelli ‘di destra’ del Texas, alla Clint Eastwood, cresciuti fieri della propria indipendenza, convinti di essere autosufficienti senza bisogno né di altri né di autorità né dello Stato. Chiudendo gli occhi al fatto che la luce, le strade, le ferrovie, le automobili, i fucili glieli forniscono altri, che la loro autosufficienza è più uno stato dell’animo che un fatto reale. E che la terra su cui galoppano è stata rubata ai messicani e agli indiani.
E i wobblies, gli anarcosindacalisti rivoluzionari dell’IWW (l’erede della Prima Internazionale), convinti che la propria libertà è solo il frutto di una storia e una lotta collettiva, che nelle miniere e nelle fabbriche lottano per la libertà di sindacato e per una paga e una vita non ancora libera ma degna di essere vissuta.
Nei due casi condizioni materiali ed economiche diverse creano le basi per due idee di libertà antinomiche, al di là delle pulsioni individuali.
Ma il convegno di Chicago ci ha insegnato una cosa: non fidarsi mai quando ci dicono che qualcosa è innato, che fa parte della nostra natura. La gran parte dei nostri ‘istinti’ sono prodotti culturali: non siamo né lupi per gli altri uomini né pusilli atavici: possiamo cooperare o possiamo scannarci, non siamo costretti dalla nostra natura a scegliere nessuna delle due vie.
E così la ‘libertà’ è spesso vessillo per tutt’altro, dimenticando ogni volta nel modo più conveniente tutti gli strati di scelte da cui è composta. E riducendone dimensioni e scelte in modo tale da renderla una (minuscola) caricatura (come nel caso del bollino verde).
È anche stato di voga per qualche tempo parlare del ‘carattere’ degli italiani (come del resto di altri popoli), volta a volta poetico o codardo od opportunista: facile modo di eludere un’analisi delle condizioni materiali delle scelte e delle forze in gioco. Ma involontariamente forse rafforzando i pregiudizi ottocenteschi, dal positivismo lombrosiano alle superiorità razziali..fino alla naturalità del capitalismo e del suo mercato dai denti affilati.

La difficoltà di conciliare egualitarismo e libertà individuale nei raccoglitori-cacciatori è stata risolta riducendo al minimo la complessità: l’orizzonte temporale è ridotto al solo giorno della raccolta/caccia; non ci sono pianificazioni né le gerarchie che ne conseguono, non ci sono provviste colle funzioni aggiuntive che implicano. E la libertà dell’individuo di muoversi come meglio gli aggrada viene compensata dal sistema della ‘condivisione su domanda’ (demand sharing): quando qualcuno ha oggetti che interessano ad altri, e questi glieli chiedono, la norma sociale (la ‘buona educazione’) richiede di accontentarlo. Cosicché l’egualitarismo è assicurato.

In un sistema complesso questo equilibrio non funziona più: tribù più grandi (come quelle del Nord America ricco di salmoni) hanno introdotto la conservazione del cibo e le gerarchie.   C’è quindi un ultimo elemento che va detto sulla libertà oggi: se è composta di molte scelte il suo esercizio comporta molte conoscenze. E c’è quindi un’asimmetria inevitabile tra sapienti ed ignoranti.
Varrà questo sempre, anche in un altro tipo di società? Probabilmente no, perché nel caso che il nostro mondo sopravviva e nell’improbabile eventualità di un’uscita dal capitalismo cesserebbe quello che Marx chiamava il ‘regno della necessità’ e con esso la gran parte delle interdipendenze che ci legano. Il numero di piani e di cammini sarebbe cioè drasticamente ridotto, e molte delle scelte possibili sarebbero a somma positiva (io guadagno, tu guadagni) invece che a somma zero (io guadagno, tu perdi). Tornando ad una situazione analoga ai JU/’Hoansi. Si potrebbe allora parlare di libertà vedendola anche.
Altrimenti qualcuno potrebbe accontentarsi di quell’uscita dalla necessità che è l’uscita dal samsara, dal ciclo delle reincarnazioni o dalla ruota del tempo…ma lo vedo come un percorso molto privato.

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Tutti i dati di quest’articolo provengono dal libro :

James Suzman, Work, PenguinPress 2021

Fulvio Ventura, Sagacity, il Multiverso

da Sagacity di Fulvio Ventura

di Paolo Di Marco

È uscito per l’editore americano The Ice Plant, presentato alla galleria san Fedele da Giovanni Chiaramonte il libro di fotografie di Fulvio Ventura: Sagacity.
Un libro con un curioso destino: ero nello studio di Ghirri a Modena insieme allo stesso e a Fulvio quando arrivarono le bozze dei libri rispettivi preparati per la casa editrice di Ghirri. Ma la copia di Fulvio conteneva delle scelte di impaginazione che non gli piacquero, e lo rifiutò stizzoso. Poi la casa editrice chiuse e non ci furono più occasioni. Dopo la morte avvenuta l’anno scorso una ricerca fortunata ha ritrovato le bozze, e un’altrettanto fortunata ricerca un nuovo editore.

C’eravamo incontrati nel ’60 alla Statale di Milano, accomunati da letture, Arno Schmidt, Le Clezio, Sanavio, Cortazar, dalla musica jazz e antica insieme, dal surrealismo. Lui cerca altre strade e altri mondi, il sufismo uno dei percorsi chiave della ricerca.

Dicono i neurofisiologi che l’adolescente ha un’esplosione di collegamenti sinaptici, poi nella maturità questi si ridurranno alla metà: vengono scartati quelli meno frequentati e meno utili.
E in questo modo il cervello diventa sempre meno aperto a nuove idee e nuove strade.

La ricerca di Ventura cerca di ridar vita a quelle possibilità che abbiamo perso con la selezione dell’età adulta. fa intravvedere nuovi mondi oltre quello che vediamo quotidianamente, che ci siamo ridotti a vedere quotidianamente.

C’è un’interpretazione della teoria dei quanti dovuta ad Everett che, pur nel suo estremismo, è presa seriamente da molti fisici: quella dei molti mondi:
il dilemma centrale dei quanti è che se una particella può essere in due stati, possiamo sapere in quale solo misurando, violando il suo stato di incertezza. Everett ipotizza che ad ogni scelta entrambe le possibilità si avverino, e che di conseguenza si formino due mondi paralleli. Così all’infinito.
Ed è questa infinità che la rende dubbia e indigesta.
Ma se andiamo avanti e cerchiamo di capire cosa succede a questi mondi paralleli non è detto che assistiamo ad una continua divergenza, ma possiamo pensare ad una evoluzione soggetta alle pressioni selettive dell’ambiente e di tutte le scelte circostanti: molte delle divergenze verranno probabilmente annullate, altre resteranno ma quasi indistinguibili. La molteplicità non necessariamente si moltiplicherà.
Questo scenario è certamente più interessante di quello classico, e soprattutto si apre a un confronto con la realtà che ci sembra di vedere tutti i giorni, imprevista ma immutabile.

Le fotografie di Ventura possono essere viste come un’allusione a questo scenario: giardini dove si intravedono fate sfuggenti, personaggi presenti ma mal definiti o con più dimensioni di quelle che appaiono, paesi e paesaggi che sanno di non essere immutabili. Ci fanno sentire il peso dei mondi che avrebbero potuto essere e insieme ci liberano per un poco dalle catene del mondo che ci sembra essere.

Come ci dice de Santillana ne ‘il mulino di Amleto’ molte scuole esoteriche, dai Sufi ai Rosacroce, hanno alla base l’elaborazione di una perdita: quella della via che riportava l’anima alle stelle d’origine. Un viaggio periglioso e guidato da fari che sono le costellazioni chiave. Ma a un certo punto del passato la precessione degli equinozi sconvolse le mappe, togliendo fari chiave.

E compito originale delle sette esoteriche (anche se poi si allarga a molto altro e perde talvolta lo scopo iniziale) è il ritrovamento del cammino perduto.
Questa narrazione appare riprodurre, traslato nello spazio fisico piuttosto che in quello delle possibilità, il rapporto che abbiamo/avremmo con il multiverso che ci accompagna.

Nobel per la Fisica : anche un orologio rotto segna l’ora giusta, due volte al giorno

di Paolo Di Marco

Anche stavolta l’Accademia delle Scienze svedese è riuscita suo malgrado a dare un ottimo Nobel per la Fisica, dopo quello di Kip Thorne 4 anni fa; stavolta è toccato a Giorgio Parisi, grandissimo ed eretico studioso della complessità.

Volendo mostrare di far qualcosa per il clima l’Accademia ha premiato due autori di modelli climatici. Ed è stato inevitabile premiare anche chi da 40 anni ne aveva posto le basi teoriche.

Con grande sconcerto non solo dei climatologi, che non se ne erano accorti, ma anche della grande stampa come il NYTimes che non ha ancora capito che il clima è un caso di sistemi complessi e turbolenti; e che le basi sono in quelle teorie del caos che solo a pronunciarlo fanno venire i brividi ai benpensanti.

Parisi inizia negli anni ’70 a occuparsi del caos, che allora emergeva quasi clandestinamente nei colloqui ai margini dei convegni, ma non si ferma là dove  anche i più arditi hanno i brividi, là dove emerge la turbolenza; laddove i più si accontentano degli ‘strani attrattori’ e delle loro orbite quasi addomesticate. Lui si butta ad affrontare la turbolenza sviluppata, creando strumenti di analisi sempre più raffinati: se la teoria dei ‘vetri di spin’ da lui  creata ha l’aria troppo esotica basta assimilarla alle sabbie del deserto e alla loro eterna maledizione di non poter mai avere un equilibrio stabile; la loro perpetua frustrazione.

È questo suo studio di sistemi complessi e apparentemente totalmente imprevedibili che dà la possibilità di modellare sistemi con interazioni multiple come il clima.

Che lui poi sia un coautore della nuova edizione de l”L’ape e l’architetto’, con la sua critica profonda della neutralità della scienza e i suoi richiami all’analisi sociale marxiana aggiunge un ulteriore livello di profondità alla sua ricerca eretica. La complessità è sempre rimasta al margine della ricerca ‘ufficiale’, anche in termini di importanza accademica come fondi e cattedre, nonostante la grande maggioranza dei fenomeni degni di studio sia non lineare. E per chi era interessato a comprendere veramente il mondo Parisi è sempre stato un riferimento.

Val la pena di citare al proposito una storiella del suo prossimo libro ‘La chiave, la luce e l’ubriaco; come procede la ricerca scientifica’: ‘un ubriaco di notte sta cercando una chiave sotto un lampione; arriva un tale che lo aiuta ma, non trovando nulla, gli chiede: ma sei sicuro che la chiave sia qui? e l’ubriaco risponde: no, ma è qui che c’è la luce’.

 

L’orgoglio di Cardano

di Paolo Di Marco

L’ultimo periodo della sua vita avventurosa, dal 1570 al 1576, Gerolamo Cardano la passò a Roma, ospite di quello stesso papa che appena prima l’aveva fatto imprigionare per il suo eretico oroscopo di Cristo.
È abbastanza curioso che il medico miracoloso e giocatore incallito, matematico e ingegnere di enorme presunzione, si accomodasse tanto tranquillamente in quella situazione, col suo carattere superbo e i numerosi vizi.
Ma un quaderno di appunti recentemente ritrovato in una collezione vaticana getta ora luce su quel periodo (1), anche se…(2)
Aveva realizzato anni prima un ingegnoso meccanismo per realizzare operazioni geometriche complicate, e pensò di costruire per la corte papale un automa capace di svolgere tutti i tipi di calcolo; erano di moda in quel periodo delle bambole che, seppur semplicissime, estasiavano i nobili prelati e le loro amanti emettendo gridolini con diverse intonazioni, così pensò di aggiungere al suo automa la capacità di esprimere apprezzamento per i risultati.
Come spesso accade l’entusiasmo e il caso ampliarono il progetto, spinti dal perfezionismo del matematico. Deciso a dedicarvi tutto il tempo necessario acquistò una fattoria vicina a Rieti con annesso un vecchio mulino. Fornito di rovere della miglior qualità e di dovizia di arnesi -alcuni dei quali da lui stesso inventati- iniziò la costruzione.
Mentre il motore del calcolo era abbastanza semplice – un sistema di ingranaggi a ruote dentate e leve collegate tra loro da aste e giunti per le operazioni algebriche di base, delle slitte a profilo elicoidale variabile per le operazioni geometriche e non lineari – il vero pezzo di bravura fu per lui la realizzazione dell’uscita: i calcoli dovevano venir declamati a voce. Così un ingegnoso sistema di carillons venne organizzato in modo da riprodurre le sillabe fondamentali, sì che la combinazione apparisse voce.
Anche l’ingresso dei numeri e le operazioni da compiere erano realizzati in modo semplice: un insieme di regoli con tacche per i numeri e i decimali, un altro regolo con tacche per le operazioni fondamentali; più complicato il sistema per la loro sequenza, con un insieme di regoli in parallelo, ognuno collegato a una parte degli ingranaggi centrali.
Mentre all’inizio il sistema era mosso a mano da una ruota, ben presto Cardano lo collegò al mulino così da avere continuamente l’energia necessaria. La costruzione, che occupava l’intero granaio della fattoria, occupò quasi tre anni: fresando, alesando e scanalando accuratamente tutti i pezzi di robusto rovere, bilanciando con precisione le distanze e gli equilibri, tarando le aste e registrando la robustezza degli snodi.
Il quarto anno il sistema iniziò a funzionare in continuazione, provando e riprovando le combinazioni e la correttezza dei risultati; la parte più difficile fu tarare la voce in modo che codificasse esattamente i risultati presenti sui regoli di uscita, ma anche questa parte ambiziosa alla fine risultò soddisfacente.
Per continuare le prove della parte vocale Cardano organizzò un sistema di selezione causale dei dati di ingresso da parte della macchina, così da evitare di dover riattraversare ogni volta la stanza per riimmetterli.
Ma una volta che tutto fu messo a punto, che le operazioni più complicate dettero i risultati corretti, espressi con voce metallica ma cristallina e melodiosa, Cardano sentì che mancava qualcosa. Sì la macchina parlava, ma non dava quello che lui voleva: la soddisfazione per i risultati raggiunti, quell’imitazione stupida ma efficace di emozione che le bambole di corte fornivano.
In un attimo di presunzione o di follia decise di far sì che la macchina, insieme ai dati di ingresso, registrasse anche il proprio stato; dopo un mese di progetti aggiunse ad ogni unità di operazione un sistema di pulegge e corde, intrecciate e collegate fra loro in modo da generare insieme una torsione e un avvolgimento, la prima proporzionale alla velocità di esecuzione, la seconda al numero di operazioni. E ulteriori corde univano tra loro le diverse unità, messe in tensione lungo la sequenza delle operazioni secondo il logaritmo degli avvolgimenti.
Fu un lavoro mostruoso, e la taratura richiese un intero anno. Ma l’orgoglio di Cardano ebbe la meglio, ed alla fine il risultato di questa rete di funi venne collegato all’uscita della macchina, dove andò a comandare delle trombe aggiunte ai carillons per amplificarne la voce e modificarne il tono.
Fu così che la macchina iniziò ad enunciare i risultati in tono soddisfatto o triste, entusiasta o declamante. Cardano riposò, e per tutta la settimana stesse ad ascoltare l’apparato cantare i suoi calcoli.
Per dare il tocco finale a quella che ormai gli appariva la maggior meraviglia dell’epoca collegò l’ingresso all’uscita, in modo che la macchina potesse declamare tutta l’operazione: “l’area di una circonferenza di raggio 2 è… pausa di un minuto…12,56637” con voce rombante e suadente insieme.
E infine Cardano, dopo 6 anni di lavoro, poté contemplare orgoglioso i risultati e pensare di mostrare quella meraviglia alla corte papale e al mondo.
Ritornò quindi a Roma ad occuparsi degli affari rimasti in sospeso, a blandire il papa ancora bisognoso delle sue cure, a rifarsi della fatica giocando interminabili partite a scacchi; iniziando anche le mosse preliminari della presentazione pubblica.
Nella sua assenza la macchina continuò a lavorare ininterrottamente, mossa dal mulino, e a cantare melodiosamente i suoi conti;
ma un fattore imprevisto, forse inevitabile dato il lungo collaudo, iniziò ad operare: qualche ingranaggio e qualche snodo, pur costruiti di duro rovere, si consumò quasi impercettibilmente; e il sistema, prima perfettamente bilanciato dalla somma abilità di Cardano, iniziò a trasmettere torsioni impreviste da una parte all’altra: ogni parte della macchina si trovò così in comunicazione con tutto il resto e soprattutto con la parte finale dell’elaborazione; e l’uscita del sistema di apprezzamento si trovò collegata anche come parte dell’entrata, in un insieme di vibrazioni che si propagavano in continuazione attraverso gli ingranaggi; quelli che erano inizialmente sussulti si smorzavano, riprendevano, si combinavano fino a dar vita ad un’unica onda che pulsava per tutta la macchina. Stando all’uscita la si poteva sentire percorrere i contorni avanti e indietro.
Fu così che, quando Cardano ritornò, sentì uscire dalla macchina suoni strani e senza senso uniti a parole e numeri ben distinti ma senza nesso apparente; insieme ai cigolii del legno sottoposto a sforzi sempre più intensi e alle vibrazioni caotiche dei carillons. Ma, nel momento in cui Cardano arrivò all’uscita per controllare, la confusione cessò per un momento, e una voce insieme cristallina e rombante profferì : “io sono…” E in quel momento lo sforzo ruppe il delicato equilibrio e la macchina rovinò in pezzi ai piedi del suo artefice.

Una versione orale contemporanea ma non comprovata racconta che quando il giorno dopo un disperato Cardano andò a raccogliere quello che restava del suo meraviglioso progetto la prima cosa che gli cadde sotto gli occhi fu il regolo d’uscita, fisso sul numero 666. la ‘Macchina analitica’ di Babbage

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(1) Archivum Apostolicum Vaticanum/digitavaticana.org/Reg.lett.2023/Gregorius PP XIII recipiens

(2) Delegazione di Asti dell’Accademia Italiana della Cucina, in data 7 febbraio 2005, ha registrato una ricetta “da ritenersi la più affidabile e tramandabile”. Depositata a Costigliole d’Asti con registrazione sottoscritta dal notaio Marzia Krieg

Covid19, aggiornamenti

circolazione virus con finestra aperta e un portatore

di Paolo Di Marco

1- la trasmissione del virus e i mezzi per fermarla

-Si conferma che la trasmissione per contatto, diretto o indiretto (superfici) è trascurabile.
-La trasmissione di gran lunga prevalente (~90%) è per via aerea tramite particelle piccolissime (aerosol): all’aperto di conseguenza è trascurabile (salvo assembramenti vocianti a distanza ravvicinata), si attiva nei luoghi chiusi, affollati e senza circolazione d’aria.
-Le maschere, soprattutto quelle chirurgiche, hanno un’efficacia assai limitata (dallo 0 al 12% secondo gli studi)
-La trasmissione con particelle di maggiori dimensioni (starnuti, canto, urla..) ha un raggio di sicurezza (riduzione del 90%) di 2 metri.
Di conseguenza i liquidi igienizzanti a la sanificazione classica (con disinfettanti) degli ambienti sono inutili. Poco efficaci sono anche i vetri divisori. Le mascherine hanno un’efficacia assai limitata e danno un falso senso di sicurezza.

La questione della trasmissione per contatto è un caso esemplare di deformazione (bias) dei risultati in base alle aspettative, che a loro volta provengono dalle indicazioni centrali (che quindi tendono a non venire mai smentite): la maggior parte degli studi (in generale condotti con criteri troppo approssimativi, dice una meta-ricerca) analizza la presenza di virus sulle superfici, ne misura la concentrazione..e finisce lì. Non si prova quasi mai se il virus è ancora infettivo (sembrando così scontato che lo sia). Quando la prova è stata fatta il risultato è stato negativo, con probabilità da 1/70 a 1/10000. E anche indirettamente (Giappone) le maschere e il lavaggio delle mani sono risultati i 2 fattori (su 7) ininfluenti sull’infezione.

Le misure per bloccare o ridurre in modo efficace la carica virale sono concentrate sulla circolazione d’aria:
-manifestazioni all’aperto (senza affollamento, ovvero distanze > 2 m)
-finestre aperte, possibilmente con riscontro (basta una sola finestra per ridurre a metà la carica virale), e in generale ACH (tasso di ricambio per ora) di almeno 3 (più è alto meglio è).
-ventilatori, meglio se rivolti all’esterno (controllo mediante sensori CO2, anche se le indicazioni non sono precise, ad es. nelle chiese); ventilatori con CADR (circolazione) di 8,5 metri cubi/minuto=140 lt/sec (equivale a una finestra aperta di 1 mq con vento di 0,15 m/s, per i marinai 1/4 di nodo..una leggerissima brezza)
-filtri Hepa  (e purificatori portatili: 2 in un una stanza  eliminano il 99% degli aerosol in pochi minuti)
-impianti di condizionamento senza ricircolazione d’aria
I valori efficaci sono:
Filtri: Merv (undice di efficacia) almeno=13 (catturano l’85% delle particelle pericolose: questo valore vale solo per i nuovissimi, quelli vecchi hanno Merv 6).

Sono in commercio anche altri tipi di sanificatori la cui efficacia però non è ancora stata verificata. Anche i raggi UV hanno effetti dubbi, anche perché l’intensità aumenta con la frequenza, ma anche gli effetti negativi sugli uomini. (Ricordiamo che anche l’ozono è gravemente tossico oltre le 18 ppm).

Il (parziale) cambiamento di protocollo è un caso esemplare per la sociologia del potere (ne parla Z. Tufekci sul NYT), con la modifica di parametri (e mentalità) ormai centenari. E forse permettendo una risposta più efficace la prossima volta (ovviamente tranne che in Italia, dove nessuno ha ancora aggiornato e semplificato i protocolli).
Se usate oppurtunamente (anche se tardivamente) queste misure possono rendere sani i luoghi di lavoro, non pericolosi i luoghi pubblici (dai ristoranti ai cinema), inutili i blocchi totali o parziali (lockdown), agibili senza pericolo le scuole.
In alcuni casi richiedono investimenti. Meglio di rimborsi, ristori e chiusure.

2-i vaccini

a)Il meccanismo d’azione
dei vaccini è noto: simula (con cellule/virus morti o loro parti) un attacco. Il sistema immunitario risponde e memorizza, cosicchè al prossimo attacco vero ha pronto lo stampo per una risposta veloce e massiccia.
Quindi il vaccino è molto diverso da una medicina classica: laddove questa attacca lei direttamente gli invasori e li uccide (insieme a un numero imprecisato di alleati- del nostro bioma- e con danni piccoli o grandi alle nostre cellule) qui il compito è lasciato al nostro corpo. Il vaccino dà solo l’usta. In questo senso è la medicina più intelligente inventata finora (e anche per malattie più complicate come i tumori la stimolazione del sistema immunitario è una delle vie più promettenti).
Dei vaccini finora approvati (uno, Pfizer, con approvazione definitiva, gli altri di emergenza) due sono a mRNA e gli altri (Astrazeneca, Johnson, …) classici. L’usta che presentano è la punta (proteina Spike) con cui il virus penetra nella cellula. Quando le particelle con l’mRNA entrano la cellula replica al suo interno la proteina Spike che poi si diffonde anche all’esterno sulla membrana. Il sistema immunitario reagisce come se tutta la cellula fosse infetta, attivando sia la risposta (e la conseguente memoria) dei linfociti B, produttori di anticorpi, che quella dei linfociti T (killer che uccidono la cellula). Il mRna virale ingegnerizzato si comporta all’interno della cellula come tutti gli altri mRna che la cellula produce nel suo ciclo vitale e dopo essere stato tradotto un po’ di volte per produrre la proteina Spike viene degradato: di lui non resta nulla. Le nostre cellule utilizzano il mRna soltanto per la sintesi proteica: il mRna non può quindi modificare il genoma cellulare. L’aver assunto come bersaglio la proteina Spike è stata una scelta con dei rischi, ma si è rivelata vincente, dato il tasso di efficacia raggiunto.

b) danni
I danni collaterali (trombosi e simili che si sono manifestati in alcuni casi) derivano probabilmente dalle caratteristiche stesse della proteina Spike, che li manifesta in misura massiccia nei casi gravi di malattia e in qualche caso anche nei casi vaccinati. (In proporzione inferiore a 1/10000)

c) efficacia
L’efficacia di questi vaccini varia secondo l’ambiente, le caratteristiche del soggetto, la sua storia sanitaria. Per Pfizer e Moderna è dell’ordine del 93%, sul 91% per AstraZeneca. Questo significa che la probabilità di un vaccinato di prendere il Covid è di 8/1 milione, di trasmetterlo di 1/1 milione. Per le varianti i dati sono ormai abbastanza ampi ma non univoci. Se all’inizio (Israele) appariva una diminuzione dell’efficacia dal 93 al 70-60%, confermata poi per Pfizer (Qatar, tra 53 e 65%) ma non per Moderna (Qatar, 79/85%) i dati successivi (Scozia) su una popolazione più ampia e soprattutto su un periodo più lungo davano un’efficacia solo marginalmente ridotta. In tutti i casi restava quasi inalterata la capacità del vaccino di evitare i casi gravi (dal 93% di Astrazeneca al 100% di Moderna).
La miopia criminale degli stati ricchi che spingono per la terza dose in casa propria e negano il vaccino ai paesi poveri fa però prevedere un moltiplicarsi delle varianti con conseguenze probabilmente non piacevoli.

d) farmaci antiCovid
Attualmente farmaci in grado di curare dal Covid19 non esistono. Tutti i dati sperimentali lo confermano.(v. rif 1 e le nuove ricerche visibili su Medrxiv),
Quelli sperimentati si possono raggruppare in tre categorie:
-antivirali (Remdesivir, Ivermectin, Idrossiclorochina): gli studi susseguenti ad esperimenti di laboratorio su animali o a riferimenti anedottici non hanno trovato effetti verificabili. Inoltre sia Idrossiclorochina sia Ivermectin, già utilizzati in altri ambiti con dosaggio diverso, hanno pesanti effetti tossici. Il Remdesivir ha blandi effetti nel diminuire i sintomi, e viene utilizzato per abbreviare le degenze (di circa 2/3 giorni) o in qualche caso evitare i ricoveri.
-anticorpi monoclonali, plasma iperimmune: a parte i costi proibitivi (1 milione di dollari a persona per i monoclonali) gli effetti sono risultati sotto la soglia di evidenza.
-cortisonici: utili nei casi di reazione esagerata del sistema immunitario (tempesta di citochine) per i pazienti ricoverati più gravi. Per gli altri controindicati dato che deprimono proprio le difese naturali.
L’utilizzo principale di questi farmaci è rallentare la malattia e guadagnare il tempo necessario per lo sviluppo delle ben più efficaci difese immunitarie, che sperabilmente porteranno alla guarigione.
Anche in presenza di varianti quindi l’unica protezione efficace sono i vaccini.
Il fatto che proprio loro siano diventati bersaglio degli strali della tribù anti Big Pharma è paradossale ma comprensibile, dato il ruolo di questa nel combattere la medicina preventiva (conferenza di Jakarta), il peso e i profitti enormi di questa fase.
Che anche i fautori della naturalità e dell’omeopatia li abbiano presi a bersaglio, preferendo sostanze inutili e tossiche come l’idrossiclorochina suona più strano, se non nell’ottica di crescente tribalizzazione degli schieramenti sul Covid dove un elemento di consenso basta ad aggregarne a sè altri anche assai diversi.
In questo quadro un fattore positivo, la rapidità quasi miracolosa della produzione di vaccini efficaci e in grande quantità come quelli a mRNA è diventato elemento di sospetto, implicito nella nomea di ‘vaccini sperimentali’. Cosa che non sono, avendo già passato una fase di sperimentazione accurata (decine di migliaia di soggetti) e una fase sul campo con milioni di somministrazioni. È certamente possibile che si manifestino effetti avversi a lunga scadenza, anche se sempre più improbabili e più rari man mano che passa il tempo. Non possiamo neppure escludere che il buon amico che nell’infanzia accoglievamo con piacere a difenderci dal morbillo e della polio si trasformi in un lupo cattivo al servizio di Bill Gates che ci trasformerà tutti in suoi schiavi.
Ma nel frattempo però conviene fare una considerazione molto semplice: Il tasso di mortalità varia dal 2 al 3% (dati odierni, mondiali e italiani, tendenzialmente sottostimato); Tutte le classi di età sono coivolte (attualmente negli USA i bambini sono 1/4 dei casi; la scarsa o nulla mortalità che appariva per i giovani ai tempi del lockdown era un effetto di mascheramento: erano sparite le morti per incidenti stradali prevalenti in quella fascia d’età). Con le varianti che si moltiplicano e fanno in fretta il giro del mondo prima o poi ognuno di noi se lo troverà addosso (e le varianti vanificano almeno in parte l’immunità di gregge) .
In quel momento forse è preferibile avere qualche difesa sicura.

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Riferimenti
1.v. il precedente 'Covid19, una strategia' con la relativa bibliografia.
2.Tara Parker-Pope. NYT, 13/9/21, 6 questions to ask about Covid and air quality at work
3.Zeynep Tufekci, NYT, 7/5/21 Why did it take so long to accept the facts about Covid?
4.OMS, sito, 2/5 aggiornamento sui meccanismi di trasmissione del virus.
5.CDC aggiornamento protocollo, 7/5 (solo parziale, si riconosce la trasmissione via aerosol ma non come principale: un esempio di come anche negli USA igiene pubblica e scienza vadano poco d'accordo, v.3).
6.Abaluck et al, The Impact of Community Masking on COVID-19: A Cluster-Randomized Trial in Bangladesh, 1/9/21, IPA, ( 340000 persone, con aumento del 30% di maschere;  un aumento maggiore avrebbe forse dato altri risultati. CDC USA: risultati trascurabili.   
7.https://www.ilfattoquotidiano.it/2021/08/10/vaccini-ad-alta-tecnologia-come-funzionano, Andrea Belleli
8.Paul M McKeigue et al, Efficacy of vaccination against severe COVID-19 in relation to Delta variant and time since second dose: the REACT-SCOT case-control study,  12/9/2021
9.Tang et al, Vaccine effectiveness against delta variant in Qatar, 11/8/21

18 Brumaio e dintorni

di Paolo Di Marco

Alla tragica estinzione della lotta di classe è succeduto in questi tempi l’emergere un po’ farsesco della contraddizione fra libertà dei singoli e necessità dell’igiene pubblica.

Ma sorge il sospetto che, come negli Stati Uniti i residui della classe operaia sono diventati i più accaniti sostenitori di Trump, così qui da noi i più accesi talibani della verità scientifica contro la superstizione e difensori del patto sociale contro l’arbitrio individualista stiano sbagliando bersaglio. (n.b.: questa è un’autocritica..)

Giustificati forse dalle trappole semantiche e politiche collocate da forse non innocenti filosofi, eppure colpevoli di miopia.

Perché a sorreggere tutta la costellazione di movimenti no-vincoli e a darle forza sta una constatazione ineludibile: che il patto sociale è stato già da tempo rotto. E che lo stato non è nostro amico.

Notizia vecchia, e già alla base delle lotte comuniste, eppure dimenticata nei lunghissimi anni di ingannevoli speranze e snervanti compromessi del dopoguerra, e accantonata quando ne è morto politicamente il protagonista sociale, la classe operaia. Per aggrapparsi agli scampoli di democrazia ancora pendenti dai balconi e soprattutto al relativo benessere che li reggeva.

Ma intanto il patto sociale veniva sempre più eroso dall’interno, e la privatizzazione del sistema sanitario ne era lampante testimone. Finché la pandemia non ha presentato il conto.

Ed è un segno della residua vitalità del sistema che i portavoce dei rapinatori siano diventati i paladini dei rapinati. Con diffuso e trasversale consenso. A destra come a sinistra, fra i colti e gli ignoranti, gli intelligenti e gli stupidi, ma tutti uniti dalla convinzione che quando piove è il governo che è ladro. E che il greco (anche vestito da scienziato) è sempre nemico, anche quando porta doni.

Pesa su di noi la tradizione socialista di identificazione con lo stato nei paesi dell’est e di compromesso con esso ad ovest. E non ci hanno aperto gli occhi lo svuotamento progressivo dei diritti e beni né la crisi del 2008 né il clima che impazza. Del resto ai ciechi se mostri la luna al massimo toccano il dito. E siamo diventati ciechi per ignavia, compiacenza, pigrizia.

Ma anche perché ci hanno tolto i sogni.

In ogni grande trasformazione c’è una combinazione inestricabile di necessità e speranza, di sogno e bisogno. Che coinvolge tutti.

E allora, come ci ricorda Bodei nell’introduzione al ‘Principio Speranza’ di Bloch, “non abbiamo forse fin troppo abbassato lo sguardo confondendo, più banalmente, la caduta di alcuni idoli con la caduta degli ideali?”; e più tardi, citando Bloch (133):” la speranza è un concetto antitetico all’angoscia ma anche alla memoria”.

Aprire gli occhi altrui significa allora innanzitutto riaprirli noi. Liberandoci dal socialismo e il suo stato come peccato originale del comunismo. Riconoscendo che la sviluppo delle forze produttive ci permette oggi di compiere qualunque passo, se la sovrastruttura lo consente.

Ricostruendo dunque quell’alleanza tra anarchici e comunisti che era già stata alla base della terza Internazionale, in un percorso che Guido Viale vede svilupparsi dal basso, dai territori, poi  ‘l’Intendance suivrà’, fuori dalle logiche di stato.

La polemica sui vincoli è dunque trappola, su ben altro occorre buttare la polemica, alzare il tiro al disopra di questa mischia. E ricominciare, subito, un dibattito sul futuro. Finché il futuro ce ne darà tempo.