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In mare aperto: tra revisioni e revisionismo

NOTE DI FINE ESTATE (6)

Questo contributo è  già stato pubblicato sul numero  8 cartaceo di Poliscritture dedicato al tema dei revisionismi nel dicembre 2011 (scaricabile da qui). Mi sembra utile ripubblicarlo perché è, in qualche modo, in continuazione col mio discorso sul padre (qui). [D. S.]

di Donato Salzarulo

1 – Dopo il Sessantotto, per buona parte degli anni Settanta, sono stato impegnato, insieme ad altri, in una militanza politica che aveva per obiettivo la costruzione di un partito comunista rivoluzionario; condizione soggettiva necessaria per tentare un cambiamento radicale del sistema proprietario capitalistico, che per sue “leggi di funzionamento” manifesta ciclicamente crisi economico-sociali più o meno profonde e strutturali. Un partito rivoluzionario dovrebbe approfittare di queste crisi per porre all’ordine del giorno la costruzione di nuovi assetti e rapporti sociali.

Il compito prevedeva, tra l’altro, il superamento della galassia dei gruppuscoli rivoluzionari, nati col Sessantotto o preesistenti ad esso, ed una battaglia politico-culturale serrata contro il PCI revisionista, gradualista, riformista e opportunista. Esso si arenò e fallì alla fine degli anni Settanta. Perché?

Bisognerebbe tornare a scavare in quegli anni per comprenderne le ragioni. In fondo quel decennio non fu segnato solo da terrorismo, Brigate Rosse e P38. La mia, ad esempio, è la storia di un giovane ventenne che, pur staccandosi dal PCI, non poteva dimenticare quanto questo partito fosse stato importante nella storia di suo padre. Contadino povero e semi-analfabeta dell’Irpinia, aveva trascorso tre mesi nelle patrie galere per aver partecipato al movimento d’occupazione delle terre nei primi anni Cinquanta. E le persone che l’avevano difeso si chiamavano Ingrao, Napolitano, Amendola.

La costruzione del partito comunista rivoluzionario comportava una battaglia quasi continua con mio padre. Non c’era pranzo domenicale – allora il sottoscritto era già sposato e aveva una sua famiglia – che non si tramutasse in confronti accesi e scontri verbali – a volte anche con pugni battuti sul tavolo – sul ruolo e la natura del PCI. Secondo me era revisionista, non difendeva più i lavoratori, non aveva più nel suo programma la rivoluzione e la costruzione di una società socialista. Secondo mio padre ero fuori di testa; indebolendo il partito, indebolivo i lavoratori; non capivo quanto erano costate le loro pur modeste conquiste, ecc. E, infine, domanda cruciale: «Facciamo finta che tu e i tuoi amici abbiate ragione, chi mi assicura che il partito rivoluzionario che volete costruire, non diventi revisionista, burocratizzato, opportunista come il PCI?…»

Nel breve periodo, la battaglia culturale in famiglia la vinsi io e negli anni seguenti mi trascinai mio padre in molte manifestazioni della sinistra rivoluzionaria. Nel giro di due decenni, però, ci ritrovammo ambedue sconfitti: io senza il partito rivoluzionario e mio padre senza la trincea del PCI. Oggi io e il suo fantasma siamo in mare aperto.

Perché dovrebbe interessarmi una discussione sul revisionismo o sui revisionismi?

  1. Per difendere il patrimonio di lotte e di conquiste di mio padre (e dei miei padri): la Resistenza e la Liberazione, la Costituzione democratica ed antifascista, lo Statuto dei Lavoratori, la Contrattazione nazionale, ecc.
  2. Per riaffermare la bontà e la giustezza degli intenti rivoluzionari miei e di quelli della mia generazione.
  3. Per tenere aperta una strada di lotta allo sfruttamento capitalistico (estrazione di plusvalore-pluslavoro) e di liberazione dall’oppressione e dalla disuguaglianza sostanziale caratteristiche delle nostre formazioni sociali.

Sono, lo capisco, petizioni di principio. Più simile ad un elenco di buone intenzioni o di affermazioni aprioristiche che proposizioni risultanti da complesse analisi storiche del presente e del passato. Non m’importa. Nessuno pensa, scrive, agisce, ingaggia battaglie politiche e culturali avendo tutto chiaro in testa. Mi interessa combattere il revisionismo che equipara partigiani e repubblichini di Salò, che nega i forni crematori per gli Ebrei e per gli Zingari, quello di chi vorrebbe cambiare la Costituzione italiana perché “sovietica” e “dirigista”, ecc. ecc. Mi interessa combattere il revisionismo di chi mette sullo stesso piano fascismo- nazismo e il tentativo (fallito) di costruire una società alternativa al capitalismo. Non so se ci sia un revisionismo “buono” e uno “cattivo”…Ma i revisionisti “buoni” chi sono? Gramsci, ad esempio, lo si può ritenere tale rispetto al pensiero di Marx? Direi di no. Per me è un “filosofo della prassi” che ha sviluppato in maniera originale e creativa diversi luoghi e aspetti di quel pensiero.

2. – Il decennio che mi vide impegnato nella costruzione del partito comunista rivoluzionario fu per me anche quello dell’apprendimento e dello studio del marxismo. Scrivo marxismo, ma so che non esiste un corpus teorico che possa definirsi tale. Ci sono i testi di Marx, quelli pubblicati mentre era in vita e quelli editi successivamente, spesso a distanza di decenni dalla sua morte. Ci sono i testi pubblicati insieme ad Engels. Insomma, un enorme work in progress studiato in oltre un secolo e mezzo da decine e decine di intrepreti (militanti rivoluzionari, politici, statisti, filosofi, economisti, storici, sociologi, ecc.). Giustamente Cristina Corradi intitola il suo libro «Storia dei marxismi in Italia» (La talpa libri, Il manifesto, 2005). Si potrebbe dire anche «Storia dei marxismi in Europa e nel mondo» e sicuramente non si sbaglierebbe.

Marx non è stato e non è un pensatore qualsiasi. Ispirandosi alle sue idee, sono stati costruiti partiti rivoluzionari, di opposizione e di governo su tutto il pianeta. Vi sono stati regimi guidati da partiti comunisti. Ancora oggi ve ne sono, quantunque realizzino politiche che non si comprende cosa abbiano a che fare con le sue idee e le sue aspirazioni. Ridurre Marx a uno “scienziato sociale”, all’inventore di concetti utili alla comprensione della storia (modo di produzione, rapporti sociali di produzione e riproduzione, capitale come rapporto sociale, plusvalore e pluslavoro, ecc. ecc.) significa far torto alle sue aspirazioni a sostituire le “armi della critica” con la “critica delle armi”. Pensatore sì, ma della prassi sociale, della volontà di trasformare il mondo. «La forza materiale deve essere abbattuta dalla forza materiale…Anche la teoria diviene una forza materiale non appena si impadronisce delle masse.» (Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico)

Ebbene, a sfogliare anche soltanto l’indice del libro citato di Cristina Corradi, ci si imbatte in nomi che a me dicono molto: Labriola, Gramsci, Della Volpe, Luporini, Colletti, Panzieri, Tronti, Timpanaro, Negri, Cacciari…Ho trascorso molte ore sui capitoli dei loro libri e sui loro articoli. Con quale profitto?

L’avventura cominciò a 16 anni, intorno al 1965. Cominciò sulle pagine di “Rinascita”, il settimanale del PCI destinato ai quadri di partito. Io non ero un quadro. Cercavo soltanto di uscire dai programmi scolastici, dalle proposte di studio dei professori. Un articolo di Della Volpe dovevo leggerlo, rileggerlo e rileggerlo. Dire che era oscuro è poco. Parlava un’altra lingua. Ma a quell’età si sfida il mondo. E potevano gli articoli di un professore universitario rappresentare ostacoli insuperabili per un giovane studente?…

Ne ricordo uno: «Dialectica in nuce». Già il titolo, scritto in lingua morta, nel latino appreso sui banchi di scuola, lanciava un preciso segno di distinzione. Poi, all’interno, nel tessuto delle proposizioni, tutto un fiorire di corsivi, di citazioni, di parentesi tonde e quadre, di idest, tertium e apriori, di tautòn-thateron e diairesis, di Widerspruch e Antithesis …La faccio breve: un tale gergo mi affascinava e provai persino ad usarlo in qualche tema scolastico. Risultato: il solito sette – i prof. tendono a dare a uno studente sempre lo stesso voto – con l’invito perentorio a scrivere «in modo meno bislacco».

Scimmiottature e aneddoti a parte, la sostanza di quell’articolo era che, per Della Volpe, Marx affrontava analisi storiche puntuali di contraddizioni che richiedevano una dialettica diversa da quella dell’Idea hegeliana, metafisica e metastorica. Per poter conoscere il mondo e rivoluzionarlo servivano astrazioni determinate (il corsivo in questo caso è d’obbligo) e non generiche «ipostasi», criticate già nell’opera giovanile del 1843, cioè nella marxiana «Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico». Giusto. E allora?…

Il punto dolente di queste mie letture non era rappresentato soltanto dal contagio di una scrittura gergale e bislacca, ma dal fatto che, letto l’articolo, non avevo con chi discuterlo e, soprattutto, non mi era chiaro in che rapporto veniva a trovarsi con le mie scelte di vita pratica e quotidiana. «Senza teoria rivoluzionaria non esiste movimento rivoluzionario». L’importanza della teoria era, quindi, indiscutibile, ma non riuscivo a togliermi di dosso la sensazione di studiare articoli marxisti così come studiavo paragrafi di manuali di storia, di letteratura, di filosofia o di matematica e scienze. In parte, in modo scolastico. Dico in parte, perché nessuno, per fortuna, mi interrogava sull’interpretazione dellavolpiana del pensiero di Marx!

Comunque, provai a discutere questi articoli nella locale sezione della FGCI di allora. Impossibile. Poi, grazie al cielo, diventai amico di Nicola Arminio, uno studente universitario più grande di sette o otto anni. Aveva in casa, addirittura, «Critica del gusto» e me la prestò. Insieme, tra il ’65 e il ’67, parlammo di Della Volpe, dei dibattiti suscitati dalle pubblicazioni di Louis Althusser («Per Marx» e l’opera collettiva «Leggere il Capitale»), del «Manifesto dei comunisti» e del saggio scritto in memoria da Labriola…Parlavamo più spesso di Gramsci. Era l’autore della “questione meridionale” e questa, più della dibattuta “rottura epistemologica” fra il giovane Marx ed Hegel, appariva come la nostra questione. Nicola aveva già trascorso dei periodi di lavoro in Germania. Anche il mio destino era segnato: mio nonno era emigrato per sei anni in America, mio padre per due o tre in Svizzera (senza contare i suoi nove anni in Etiopia), una città del Nord sicuramente attendeva me…E la prospettiva, in verità, neanche mi dispiaceva. Era grande in quegli anni la voglia di andare via dal paese.

3. – Quando arrivo a Torino, nell’autunno del 1967 e partecipo senza esitazioni all’occupazione di Palazzo Campana, ho in testa un compito preciso, volontariamente assunto e interiorizzato. Mi viene dal cofanetto Einaudi dei Quaderni del fondatore del PCI. È scritto negli «Appunti per una introduzione e un avviamento allo studio della filosofia e della storia della cultura»: tutti gli uomini sono «filosofi», sia pure in modo spontaneo e inconsapevole. Lo sono attraverso il linguaggio, il senso comune e il buon senso, il sistema di credenze, superstizioni, opinioni, modi di vedere rappresentati dalla religione popolare e dal folclore…Le “filosofie spontanee”, disgregate e occasionali, imposte meccanicamente «da uno dei tanti gruppi sociali nei quali ognuno è automaticamente coinvolto fin dalla sua entrata nel mondo cosciente», sono importanti, ma non possono bastare. Occorre superarle, elaborando «la propria concezione del mondo consapevolmente e criticamente e quindi, in connessione con tale lavorio del proprio cervello, scegliere la propria sfera di attività, partecipare attivamente alla produzione della storia del mondo, essere guida di se stessi e non già accettare passivamente e supinamente dall’esterno l’impronta alla propria personalità».

Compito chiaro, entusiasmante. C’è una citazione, tratta proprio da quelle pagine, che continuava ad accompagnarmi:

«Per la propria concezione del mondo si appartiene sempre a un determinato aggruppamento, e precisamente a quello di tutti gli elementi sociali che condividono uno stesso modo di pensare e di operare. Si è conformisti di un qualche conformismo, si è sempre uomini-massa o uomini-collettivi. La quistione è questa: di che tipo storico è il conformismo, l’uomo-massa di cui si fa parte? Quando la concezione del mondo non è critica e coerente ma occasionale e disgregata, si appartiene simultaneamente a una molteplicità di uomini-massa, la propria personalità è composta in modo bizzarro: si trovano in essa elementi dell’uomo delle caverne e principii della scienza più moderna e progredita, pregiudizi di tutte le fasi storiche passate grettamente localistiche e intuizioni di una filosofia avvenire quale sarà propria del genere umano unificato mondialmente. Criticare la propria concezione del mondo significa dunque renderla unitaria e coerente e innalzarla fino al punto cui è giunto il pensiero mondiale più progredito. Significa quindi criticare tutta la filosofia finora esistita, in quanto essa ha lasciato stratificazioni consolidate nella filosofia popolare. L’inizio dell’elaborazione critica è la coscienza di quello che è realmente, cioè un “conosci te stesso” come prodotto del processo storico finora svoltosi che ha lasciato in te stesso un’infinità di tracce accolte senza beneficio d’inventario. Occorre fare inizialmente un tale inventario.» (pag. 1376)

4. – Lavorio del proprio cervello. Cominciò in quegli anni e non è ancora finito. Dovevo dotarmi di una concezione del mondo organica, unitaria e coerente. Più facile a dirsi che a farsi. Dovevo innalzarla fino al punto in cui è giunto “il pensiero mondiale più progredito”. Ancora più difficile. Cos’era questo pensiero mondiale? Mi diventò subito evidente che non esisteva uno solo pensiero mondiale ma tante “scuole di pensiero” con professori, più o meno famosi, a tenere lezioni nelle Università dei vari Paesi e i loro allievi a seguirle per obbligo o per piacere. Esisteva un mercato editoriale che smerciava libri e riviste scritti da questi prof. Esistevano laboratori scientifici pubblici e privati. E chi ci lavorava dentro non era più un Galileo Galilei, un geniale artigiano del pensiero, ma un “lavoratore collettivo” composto da tanti ricercatori gerarchizzati in ruoli e funzioni e impegnati in programmi di ricerca tutt’altro che disinteressati. La scienza – questo avevo imparato nei controcorsi universitari – non era neutra. I soldi spesi per far camminare sulla Luna il primo bipede umano non soddisfacevano generici “bisogni di conoscenza”. La gara lunare tra gli Stati Uniti e l’allora Unione Sovietica era, in realtà, una guerra, sia pure fredda. Anche questa richiede e produce conoscenze. Furono i sovietici a lanciare in orbita il primo Sputnik ai primi di ottobre del 1957. Presi di contropiede, i gruppi dirigenti americani cercarono di correre subito ai ripari. La Conferenza di Woods Hole nel settembre del 1959 serviva anche a questo. Jerome S. Bruner ne ricavò un libro («Dopo Dewey. Il processo di apprendimento nelle due culture») che lessi e studiai per sostenere il mio primo esame di pedagogia. Per vincere una guerra, era necessario riformare il proprio sistema scolastico. La cultura è un campo di battaglia e fornisce armi agli attori in lotta. In lotta per cosa? Per l’egemonia, sosteneva il mio Gramsci. Egemonia, cioè consenso e coercizione. Era questo potere che permetteva ad alcuni di appropriarsi, più o meno, legittimamente di risorse economiche, sociali, istituzionali e ad altri (la maggioranza) di restare con un pugno di mosche in mano.

Quanto alle intuizioni della filosofia del futuro, quella “del genere umano unificato mondialmente”, ammessa la bontà dell’aspirazione, non vedevo grandi tracce, se non quelle depositate dai rapporti sociali capitalistici o implicite nelle varie Carte dell’ONU, dei Trattati commerciali internazionali, ecc. Sarebbe scaturita da questi “depositi” l’altra umanità? Da queste cristallizzazioni che tendevano a unificare il genere umano? E sarebbe scaturita dopo l’insurrezione, l’occupazione del Palazzo d’Inverno o nel qui ed ora del presente?

Ogni tanto provavo a fare l’inventario delle mie conoscenze. Il compito, soprattutto, agli inizi mi risultava anche relativamente facile. “Storia di lotte di classi”, “Egemonia”, “Rapporti di forza sociali”, “Campo ideologico”, “Società come totalità strutturata a dominante”, “Contraddizione e surdeterminazione”, “Anello debole”, “Sviluppo ineguale”… Tutti concetti interessanti, ma a chi andavo a raccontarli? Il problema si ripresentava.

A Rivoli ero ospite (pagante) di un Collegio (o qualcosa di simile) che formava pastori protestanti. Conobbi Pippo, un giovane di qualche anno più grande di me. Diventammo amici e si beccò tutte le critiche marxiane alla religione. Ovviamente si beccò anche tutti gli attacchi di Althusser all’umanesimo. Poi notai anche che il filosofo francese ce l’aveva con Gramsci, col suo storicismo e umanesimo. E qui i conti non mi tornavano. La storia è un processo senza soggetto, sosteneva.  Non lo sanno, ma lo fanno. E io, studente “contestatore”, che stavo lì a combattere l’autoritarismo professorale, che manifestavo per il Vietnam, io che desideravo l’impossibile, cos’ero? Un gattino cieco? Forse, è vero. Un movimento è un’azione collettiva, più o meno duratura. Ciò che effettivamente produrrà in una società, lo si potrà valutare dopo. In un movimento si entra in tanti. Le ragioni individuali e/o soggettive possono essere diverse. Conta il risultato. E però io partecipavo con entusiasmo all’occupazione di Palazzo Campana non solo per scrollarmi di dosso l’autoritarismo scolastico e sociale  – mio padre era comunista, ma picchiava come un fascista – , anche perché credevo di partecipare attivamente alla “produzione della storia” o, almeno, di un suo momento. Mi illudevo?…Gramsci ed Althusser nel mio cervello si misero a duellare. Chi aveva ragione? «Gramsci, Gramsci…» suggeriva una vocina interiore. Studiavo «Per Marx» e «Leggere il Capitale» perché era stato il rivoluzionario sardo a indicarmi il compito: impadronirsi di tutte le conoscenze prodotte dal “pensiero mondiale più progredito”… Compito immane, certo!,  che richiedeva un buon numero di vite. Però… Grande Gramsci e grande il mio desiderio di stargli dietro.

Nel decennio Sessantotto-Settantotto riempii diversi scaffali di libri marxisti, a partire dalle opere di Marx-Engels, di Lenin e di Mao. Contro i revisionisti, dovevo tornare al vero pensiero di Marx; un pensiero che mi sembrava vivo ed efficace. Oltre ai “Quaderni piacentini”, a “Critica marxista”, a “Politica ed economia” e a tanta pubblicistica gruppettara, comprai riviste come “Sapere”, “Le scienze”, ecc. per elaborare una mia concezione del mondo organica e coerente, fondata su principi scientifici e non sulle paure, le superstizioni e i fantasmi dell’uomo delle caverne. Anche se, devo dire, questo poveraccio non mi era poi del tutto antipatico.

Insomma, il lavorio del cervello andava avanti tra alti e bassi, luci ed ombre, certezze ed incertezze. La qualità dei marxismi appresi non si modificò. Continuò a soffrire di scolasticismo. Riunioni e riunioni: della Segreteria, del direttivo, dell’assemblea degli iscritti, degli organismi di massa. Manifestazioni quasi settimanali. Stesura, ciclostilatura e diffusione di volantini, da soli o insieme a quella (domenicale) del quotidiano. Lettura di documenti: della Direzione Nazionale, del Comitato Centrale, del Direttivo Regionale o Provinciale…Tutto per la costruzione del partito comunista rivoluzionario. Una frenetica scorpacciata di “politica al primo posto”. Ogni tanto qualche “gruppo di studio”. Ma se ti capitava di leggere «Calcolo economico e forme di proprietà» di Bettelheim o «Potere politico e classi sociali» di Poulantzas con chi potevi discuterli?…Al massimo, potevo scambiare qualche impressione con Ennio. Per il resto “intellettuale” era già diventato una parolaccia e “intellettualismo” il massimo della vergogna.

A fine anni Settanta, la crisi. Della costruzione del partito comunista rivoluzionario, del marxismo, della ragione, delle grandi narrazioni, della centralità operaia, ecc. ecc. Un diluvio. Perché? Per diversi motivi: una costellazione di cause, come in tutti i fenomeni storici. E si potrebbe star lì a discuterne per ore. Io ci metterei: la risposta dei capitalisti al ciclo di lotte operaie (ristrutturazione), lo stragismo e la scelta terroristica, l’incapacità di produrre teoria dei gruppi dirigenti della sinistra rivoluzionaria, l’affermarsi di nuovi bisogni e istanze sociali (il femminismo), il finanziamento di Fondazioni universitarie e para-universitarie da parte della CIA (o di chi volete voi: imprenditori, Rockefeller center, e via di seguito) per convincere l’universo-mondo che “lo Stato soffoca l’economia”, “privato è bello”, “i capi delle imprese pubbliche sono boiardi di Stato”, “il pensiero debole è meglio di quello forte”, “Heidegger ha visto più e meglio di Marx” ecc. Breve digressione: tiro in ballo degli slogan a casaccio. Ma il senso è chiaro: i fatti sociali non sempre si toccano con mano. Un licenziamento e la chiusura di una fabbrica si subiscono e si vedono, ma che uno “Stato soffochi l’economia” è una proposizione indimostrata e indimostrabile. Pura ideologia. La lotta per l’egemonia utilizza tutto e tutti: la scienza, la tecnica, la religione, l’ideologia, l’economia, gli apparati di Stato…È una lotta che va organizzata e finanziata. Il revisionismo storico è sicuramente il frutto di questa lotta.  Fine della digressione.

Risultato della crisi fine anni Settanta: oltre ai suicidi, alla “strage delle illusioni”, alla distruzione di una generazione con l’eroina, ci fu il cosiddetto “riflusso nel privato”. Ma io il virus della politica l’avevo contratto. Ridurmi al ruolo di buon padre di famiglia, neanche a pensarci. Tornare a compulsare le carte degli anni Settanta e destinarmi a un’esistenza silenziosa di studioso di testi marxisti continuava a fare a pugni con la mia vita quotidiana. In fondo, catturato dal compito della costruzione del partito comunista rivoluzionario, non avevo neanche terminato i miei studi universitari. È vero che avevo vinto subito, nel ‘71, il concorso da maestro e uno stipendio ce l’avevo; in casa, però, lavoravo da solo e, a fine mese, si faceva fatica ad arrivare. Esame di realtà. «Analisi concreta della situazione concreta». Ripresi gli studi e nei primi anni Ottanta aderii come indipendente al PCI.

Tra il 1967 e il ’68, venne pubblicato un libro di Lorenza Mazzetti: «Uccidere il padre e la madre». Era esattamente quello che avevo fatto. Da giovane, avevo “ucciso” mio padre, trovando dei “sostituti rivoluzionari”. Ora che i sostituti andavano in crisi o fallivano, tornavo, figliol prodigo, nella casa del padre. Mosso, probabilmente, da un inconscio complesso di colpa. Da rivoluzionario in lotta coi revisionisti a revisionista. Il percorso del gambero? Sì e no. Sì perché il tentativo di costruire un partito rivoluzionario era fallito e di fatti rifluivo insieme ad altri nella trincea da cui volevo uscire.  No, perché l’indipendenza nel PCI non è stata per me una foglia di fico. Primo, perché il PCI non era quel monolito stalinista di cui si ciancia. Secondo, perché potevo continuare a studiare liberamente il marxismo nella crisi e se la Democrazia Proletaria di allora o gli operaisti avessero prodotto idee e iniziative effettivamente coinvolgenti avrei potuto aderirvi. A Cologno in quegli anni tenemmo in piedi IPSILON, un “laboratorio di cultura critica” che organizzò diversi incontri e discussioni. Ad alcuni partecipò Costanzo Preve.

Anche dopo il crollo del Muro, dell’URSS e del PCI, ho continuato a leggere autori a cui Cristina Corradi dedica interi capitoli della sua «Storia dei marxismi in Italia»: Tronti, Negri, Losurdo, Bellofiore, La Grassa e Turchetto, il citato Preve, e via di seguito.

Letture, purtroppo, sempre parzialmente scolastiche. Che rapporto hanno le loro pagine con la mia vita quotidiana? Che posso farci se non mi convincono? Se non riescono ad esercitare egemonia sul mio pensiero? I problemi lasciati irrisolti dal “libro nero del comunismo” sono ancora lì: a) quello del partito rivoluzionario e del suo rapporto con la società, b) del cosa significa fare una rivoluzione nella nostra società e di quale strategia dotarsi, c) di come assicurare quella che Della Volpe chiamava la “legalità socialista” o, se si preferisce, la democrazia e la “libertà dei comunisti”…

Conosco la critica di Marx alla democrazia borghese: tutti siamo “cittadini” e “soggetti di diritto” e, quindi, formalmente eguali, ma il cittadino Berlusconi o Montezemolo lo sono di più. Infatti, hanno tante e tali risorse economiche che potrebbero comprare tutte le teste d’uovo che vogliono per organizzarsi, “scendere in campo” e difendere anche in Parlamento e nelle sedute del Consiglio dei Ministri i loro interessi. Possono fondare associazioni, orchestrare campagne di stampa e propaganda, realizzare iniziative politiche e sociali mirate a singoli pubblici, ecc. Tutto vero. E allora? Riproponiamo la “dittatura del proletariato” o la lotta per difendere e attuare la Costituzione? E ci organizziamo per l’uno o per l’altro fine?…

C’è chi sostiene che è tutto passato, che sono battaglie vecchie. Di un’altra epoca. Probabile. Quali sono quelle nuove? E in che rapporto sono con quelle vecchie? Se il nuovo lo portano certi personaggi, preferisco il vecchio…

Insomma, bisogna evitare la palude, ma siamo nel bel mezzo di un caos. La situazione è tutt’altro che eccellente.

Io e il fantasma di mio padre continuiamo la nostra deriva. In mare aperto.

8 settembre 2011

“La bisaccia del diavolo“

di Rita Simonitto

C’è un momento nell’arco della nostra vita in cui si ha l’impressione che le cose ci siano chiare o, per lo meno, che acquisiscano una loro configurazione certa e che tutto ciò potrebbe portarci di buon diritto ad esclamare “Eureka!”. E invece poi sembra ribaltarsi tutto e si re-inizia partendo da un riassetto diverso. Semprechè la realtà lo permetta.

Come gli esiti degli incroci della rosa Floribunda trovano il massimo splendore degli effetti di massa nelle giornate estive e il consenso estetico è unanime, così poi, ai primi rovesci temporaleschi, si ‘impappinano’ contaminando nella palta l’una rosa con l’altra, con un effetto a catena devastante. Brillantezza e profumo vengono sovrastati da un laidore diffuso.

Affacciato alla gotica porta-finestra dell’antico palazzetto romano, forse Don Bartolo stava pensando proprio a questi paradossali effetti di laboratorio, in quanto li vedeva palesati davanti ai suoi occhi, nel suo terrazzino che ospitava varie tipologie di rosa fra cui anche la Floribunda. La sua riflessione non riguardava però solo il tema della caducità delle cose o della loro trasformazione, bensì il doversi confrontare con delle incongruenze, e ciò gli richiamava alla mente l’espressione di suo nonno: “Chi ha pane non ha denti, chi ha denti non ha pane”. Ovvero la discrasia esistente tra il sogno e la realtà.

Ad esempio, che se ne faceva oggidì, a settantasei anni suonati, di questo appartamento che godeva di un certo prestigio e che sua zia Amalia gli aveva lasciato in eredità, chissà perché proprio a lui. Forse perché le idee di lui le conosceva benissimo o fors’anche perché lo sentiva una specie di risarcimento per aver sopito le idee sue, di lei, quando sposò il colonnello Jorge Alvarez, argentino, in Italia per chissà quale missione. Un amore travolgente divampato proprio in quell’appartamento che il focoso amante donò a sua moglie come regalo di nozze. E che lei, ritornando vedova in Italia, dopo la caduta dei colonnelli, riabitò per un certo tempo.

Quando si è soli è facile abbandonarsi ai ricordi quale unica compagnia. “Sì, sì, è proprio così”. Gli è che in questo modo siamo senza contraddittorio! Mentre questa particolarità è l’essenza della partecipazione e del contatto/contratto sociale! Altro che ‘isolamento’! Altro che ‘riscoprirete la vostra interiorità’, come venne propagandato per sostenere le chiusure domiciliari antipandemia… “così dopo ne usciremo migliori”! Bah!

L’osservazione pertinente, ma ininfluente, fece tirare su col naso Don Bartolo il quale, distaccatosi dalla rutilante porta finestra mosaicata, che non aveva voluto aprire e varcare per non vedere il disastro che trasudava dal silenzio di quel quartiere che era stato ricco di movimento, di vita, di storia, “ah, la Garbatella, Ah!” nonché di personaggi importanti che lo avevano reso famoso, rientrò, sfiorò appena appena il pianoforte e si afflosciò sul divano come un soufflé. …  ma che senso aveva ricordare ora?

Recitare Pasolini “Io sono una forza del passato./ Solo nella tradizione è il mio amore./Vengo dai ruderi, dalle chiese, /dalle pale d’altare, dai borghi  abbandonati “, sarebbe stato quantomeno anacronistico in questo dannato maggio 2020, visto che la tradizione (il nostro essere sociali, le nostre ‘chiese’, da intendersi come ‘ecclesia’, luogo di incontro) era stata sacrificata sugli altari di una scienza trasformatasi in ‘scientismo’ e pertanto volatile, umbratile, schiava di una politica diventata essa stessa politicismo? Come di-spiegare ai suoi studenti liceali, in DAD, nelle sue lezioni di filosofia a Siracusa, il senso di quanto diceva il filosofo Emanuele Severino: “un apparente illuminismo scientista, che non riconosce i limiti costitutivi della scienza naturale, sfocia sempre nel peggiore degli oscurantismi”?

E poi che risultati ne derivavano dallo stare alla finestra dei ricordi?

Conosceva quell’appartamento. Lo aveva utilizzato più volte come base per mantenere i contatti con amici e/o compagni che dal Nord si erano trasferiti nella Capitale immaginata come la Mecca dei sogni. Ma soprattutto per stare vicino a sua zia Amalia, per lenire in qualche modo la sua devastante vedovanza. Il fratello di lei, padre di Bartolomeo, la disconobbe. Non solo perché si vergognava del fatto che la sua sorella maggiore, all’età di 17 anni avesse deciso di fare la soubrette al Teatro Jovinelli di Roma, ma soprattutto perché si era sposata con un militare, un ‘colonnello’, rompendo clamorosamente con le tradizioni familiari. Infatti suo padre, quando nel 1953 morì J. Stalin, ebbe il coraggio di esporre sul balcone di casa in quel piccolo paese della provincia vicentina (dominata dallo scudo crociato) la bandiera rossa del PCI listata a lutto. Il fatto che lei, dopo aver seguito il marito in Argentina, e, a seguito della morte di lui – eliminato dalle faide interne alla dittatura di J. R. Videla -, fosse riuscita perigliosamente a ri-approdare sulle rive del Tevere, ciò non modificasse, salvo che per Bartolomeo, l’isolamento familiare, per Amalia non rappresentò certo una buona accoglienza in famiglia. D’altronde questo è il destino della proscrizione ideologica.

Ragion per cui non solo lei ri-approdò a quelle sponde, ma alcuni anni dopo una vedovanza etichettata come infamante da un pensiero ‘politicamente corretto’, decise di abbandonarsi proprio a quelle bionde acque gettandosi dal ponte Sublicio poco distante da quel nido d’amore che, nel bene e nel male, aveva dato un senso alla sua vita. L’ostracismo della sua famiglia, l’evitamento da parte del gruppo sociale, senza sapere se il colonnello Jorge fosse stato o meno implicato negli assassinȋ della giunta militare argentina, non l’aiutarono certo a superare la perdita di quella persona che aveva veramente amato e dalla quale era stata amata.

Come spesso accade, da quello sprofondamento sul divano, un ricordo tirò l’altro. Ecco vivida la scena in cui la zia si trascina tristemente per i corridoi e lui che, mettendosi al piano, grida “Zia Ami, senti questa!”

Che cosa gli fosse passato per la testa per mettersi a strimpellare il brano “Everybody Needs Somebody to Love ” dei Blues Brothers, non se lo seppe spiegare. Forse il messaggio era che ognuno ha bisogno di qualcuno da amare, e se non di qualcuno, almeno di un’idea?

Zia Amalia, nonostante stesse raggiungendo la ottantina, era ancora una bella donna, flessuosa nel suo portamento e il colore fulvo della sua capigliatura aveva ingannato il passare del tempo assumendo quelle striature chiaro-dorate che turbano l’osservatore quando, in autunno, raccoglie una foglia di platano dai colori variegati che non preludono alla fine ma a una nuova rappresentazione sulla scena della vita.

Così, accompagnata dalla musica, la zia si lancia in un ballo scatenato, degno del suo passato di soubrette, piroettando fra i mobili, mimando amplessi con i cuscini colorati e i copridivani di arredo… solo che dopo quella meravigliosa esibizione crolla di botto a terra in un pianto dirotto, disperato. Poi, davanti allo sguardo atterrito di Bartolomeo, si alza e corre a chiudersi in camera.

Il ricordo poi si sfuma nella mente di Don Bartolo ma non si cancella una domanda: perché, nonostante la tragicità di quei vissuti, l’orrore dei momenti passati, pur tuttavia permaneva in lui una idea di futuro mentre invece oggi, per quanto ci si possa sforzare, e lui ci prova, tutto sembra nebuloso?

Comunque adesso è a Roma e qualcuno deve pur incontrare!

Compone un numero: “Cristina?”

“Bart, sei tu? Ma te possino..! Che ce fai a Roma? Sei sgusciato dalle maglie dell’ultimo DPCM? Guarda che questa libertà dura poco! In Sicilia ce devi tornà! Sennò te c’arimanno io!”, conclude ridendo.

Quanto odiava essere chiamato “Bart”. Ma Cristina era così, decideva lei, faceva le domande e poi si dava le risposte. Eppoi era la sua cara amica, docente come lui al Liceo A. Pigafetta di Vicenza. Ne era sortito un sodalizio interessante dove le frizioni fra terra (il pragmatismo di Cristina) e cielo (l’inconoscibile che tormentava Bartolomeo) trovavano alla fine delle linee di compromesso. Almeno nelle loro animate diatribe verbali.

Poi Cristina si sposò con un politico che, diventato parlamentare, la trascinò a Roma. Bartolomeo invece si unì con una amica di Cristina, Susanna, detta Susy. La quale Susy, nella convinzione che bisognava fare esperienza di tutto (però senza fare tesoro di niente) si infatuò della antroposofia, a dirla tutta di uno dei suoi docenti steineriani, e diede il ben servito al ‘compassato’ Bart. Così fu che Bartolomeo decise di abbandonare il Nord e accettare una docenza al Sud, a Siracusa.

“Cristina, sì, sono a Roma. Devo definire ancora alcune pratiche per l’appartamento di zia. Che cosa fai questa sera? Ti va di andare, visto che adesso si può, alla Pizzeria Garbatella? Ce l’ho qui sotto casa!”.

“Tesoro, non posso. Mio marito è ancora reclutato agli ‘scranni’ e la Caramella ha fatto la sterilizzazione questa mattina… gli altri gatti/e la sentono come ‘strana’ e le soffiano per via che porta il collare autoprotettivo per non leccarsi il taglio….  per cui devo stare a casa. Magari ci sentiamo domani”

“O.K. O.K. Sì, certo. Va bene per domani”.

“Ciao Bart. A domani”

Sì, essere chiamato Bart gli dava fastidio, ma era sempre preferibile a quella eco di “Meo… meo… meo” cantilenato a scuola come un miagolio…: presa in giro a causa dell’epiteto vicentino di “magna gati”. D’ altronde la filastrocca parlava chiaro: “Venexiani, gran signori; Padovani, gran dotori; Vissentini, magna gati; Veronesi… tuti mati; Udinesi, castelani co i cognòmj de Furlani; Trevisani, pan e tripe; Rovigòti, baco e pipe; i Cremaschi fa coioni; i Bresàn, tàia cantoni; ghe n’é ncora de pì tristi… Bergamaschi brusacristi! E Belun? Póre Belun, te se proprio de nisun!”.

Certo, non gli piaceva nemmeno essere chiamato ‘Don Bartolo’, ma quella usanza sicula gli aveva dato meno fastidio. Era una specie di onorificenza!

In quel momento di disagio che lo frastorna, sente pressante il bisogno di ritornare al Bistrot 36, alla Garbatella, dove andava ogni tanto o con la zia oppure anche da solo, seduto davanti all’antico orologio tondo, che troneggiava sopra un vecchio menù incorniciato, e a lato la lunga fila di bicchieri posti sul ripiano dietro la mescita…

Riprende in mano il telefono.

 “Ehi ciao, Giorgio. Ti ho disturbato? Sono Bartolomeo  eo… eo.. eo…ti ricordi? Sono risalito dal profondo Sud! Come va?”

Il silenzio dall’altra parte non depone favorevolmente e il click del telefono chiuso è raggelante. Giorgio non ha fiatato. Eppure si sentiva che era lì…

Una volta, le motivazioni legate a quei silenzi pesanti erano ‘essenzialmente’ due: o eri un STR tu, oppure lo era la persona che ti stava tenendo sulle spine. Oggi si è aggiunto un altro fattore: il terrore del contatto, quello dell’attacco pandemico, dell’essere un untore in senso stretto o in senso lato, anche soltanto portando qualche pensiero non accreditato!

Ecco uno squillo … un segnale quasi allarmante visto che non ha avvisato nessuno della sua presenza a Roma. Invece è Ernesto che è stato allertato da Cristina!

“Ehilà. Non ci si può proprio liberare di te! Hai finito di pontificare con i tuoi ‘bla…bla’’ filosofici? Cristina diceva che il progetto era la Pizzeria Garbatella. Mi lasci sentire la disponibilità e poi ti richiamo?”

Pur essendosi laureato in Lingue e Letterature Straniere, Ernesto ha scelto di fare il tipografo, come se avesse bisogno di rispondere ad una ricerca di combaciamento: la versatilità delle varie lingue con la versatilità delle varie immagini tipografiche. Infatti la sua produzione è molto ricercata.

Alle 21.15 i due amici si trovano davanti alla Pizzeria. Ovviamente, non ci si può abbracciare, le regole anticovid lo vietano, ma i loro sguardi sono come viticchi che non possono che sciogliersi attraverso dolcissime parole scurrili: il loro codice linguistico!

All’interno della Pizzeria, l’Orologio sta sempre lì… che gliene frega a lui… se le ore passano, i tempi cambiano… mica è affare suo! Questo pensiero lascia correre un brivido lungo la schiena di Bartolomeo.

Le loro ordinazioni sono di routine: d’altronde non è per quello che si sono trovati lì. Tutti e due sembrano sovrastati dai ricordi di un passato ormai ininfluente che però li richiama ma a cui non vogliono lasciarsi andare.

Fa ancora chiaro a Roma a quell’ora, e questa luce particolare sembra gettare un certo movimento sui bicchieri esposti in bella fila davanti al bancone: “Ernesto, guarda!”.

Ernesto si gira e rimane incantato dal gioco di rimandi luci/ombre che l’andare avanti e indietro di Cesira e suo marito creano sullo sfondo a specchio. Poi sembra re-immergersi nella sua esperienza professionale, come se la sua mente incominciasse a viaggiare in territori sconosciuti ai più. Una libertà che, di sponda, attiva reminiscenze anche in Bartolomeo.

E’ il moment del “post prandium”, quando, gambe distese sotto il tavolo, si riassumerebbero le varie esperienze sia culinarie che emotive.

Ma i tempi tecnici, dettati sempre dall’ottemperanza alle regole del Covid, sono invece stretti e pertanto devono lasciare il loro tavolo. E se Ernesto si avvia verso l’uscita, il suo amico sembra bloccato alla sedia, paralizzato da rigurgiti di intolleranza intrecciati ai vissuti personali. La collera, cattiva consigliera, suggerisce a Bart che, se si può soccombere alla durezza dei fatti (la realtà esterna, così come è avvenuto per zia Amalia), non si può, né si deve invece soccombere davanti alla sovversione dei principi e alla loro manipolazione. La suggestione Orwelliana è ben presente dentro di lui. Ed è questo che tenta di spiegare ad Ernesto quando lo raggiunge fuori: questa la ragione per cui è rimasto paralizzato al tavolo, proprio per non esplodere.

Il ‘gherbino’ (ponentino) romano che accompagna i loro passi fuori dalla Pizzeria, pur galvanizzandoli, li tiene distanti. Ognuno incapsulato nei propri pensieri e che il fantasma del contagio, connesso ad un eventuale e desiderabile abbraccio, inibisce ancor di più.

Ernesto sembra, paradossalmente, essere il più inquieto tant’è che inciampa e starebbe per rovinare a terra se non venisse provvidenzialmente sorretto dall’amico.

Gli ‘sconnessi sanpietrini romani!’.

“Ehi, Bart, ti ricordi di Valle Giulia? Dai! Sì che c’eravamo! E’ stato emozionante, no? Ma poi non avevi scritto un articolo in appoggio alla poesia di Pasolini sui poliziotti e ti avevano trattato come si tratta un cane in Chiesa? Sì, forse stava iniziando una trasformazione generazionale e culturale già da allora! Meno male che io non avevo nessuna tessera e così potei prendere liberamente le tue difese! Ma me ne dissero lo stesso…”

“E tu adesso…?” Ma, vista la faccia cupa dell’amico, Ernesto si trattiene dal proseguire: sarebbe stata una domanda rischiosa o quantomeno inutile.

I cieli romani sono sempre imprevedibili e di punto in bianco si ‘sturbano’. Ora pare che si stia preparando un temporale e bisogna correre subito verso un riparo. Per fortuna l’auto di Ernesto non è molto distante e mentre i goccioloni compiono la loro danza di fine maggio, dentro l’abitacolo i due amici sembrano crollare sopraffatti dai loro pensieri.

Il tipografo sa di aver toccato un nervo scoperto di Bartolomeo: a suo tempo quelle situazioni politiche avevano creato forti discussioni tra loro due ma senza incrinarne la amicizia.

Nel silenzio che ingravida quello spazio ristretto, il lampo accecante che investe la vettura ha una potenzialità disvelatrice che Ernesto coglie al volo: gli appare davanti l’acquaforte n. 43 di Francisco Goya (1797) dal titolo “Il sonno della ragione genera mostri”.

Ma poi c’è un altro lampo dentro di lui che, in modo copernicano, rovescia la vulgata di quel titolo. Ovvero, quando la ‘Ragione’ occupa un posto non suo, è “in sonno” – vale a dire che non rispetta la differenza tra i registri del sogno e quelli dominati dai vincoli della logica -, non solo inibisce ogni forma sognante e creativa ma costringe il reale nella tenaglia assolutista del pensiero unico. Allora sì che si scatenano i mostri, non più controllati da niente e da nessuno. Il ‘Sogno’ (ed effettivamente Goya lo chiamò così) della Ragione di poter controllare tutto fa sì che si produca una aberrazione, in quanto viene millantato come reale – solo perché risponde ai canoni della ‘ragionevolezza’- ciò che invece è molto distante dal reale.

“Non ti sembra, Bart, che sia questo ciò a cui stiamo assistendo oggi? La Ragione deificata, timorosa della libertà individuali, ha cercato di omologare i nostri sogni, li ha vincolati al giogo della maggioranza (è la quantità che fa testo, non la qualità), ed è da questa costrizione che poi si scatenano i deliri?” E, a fare da insano contrappunto, la visceralità ostile ad ogni limite, ad ogni regola…libertà, libertà, libertà”

Come non convenirne…

Un altro lampo illumina quell’angusto spazio. La parola “libertà” attiva in Bartolomeo non solo fascinazioni letterarie sopite, ma anche intuizioni filosofiche svelatesi in tempi non sospetti. Preso dalla felicità per queste reminiscenze vorrebbe uscire dall’auto anche se la pioggia continua a cadere a secchiate. Vorrebbe saltare nelle pozzanghere ma… forse è meglio parlare … anche se ciò è più difficile.

Personalmente provava una idiosincrasia verso i ‘luoghi comuni’, queste ‘ostie consacrate dal mainstream che ti danno la benedizione: ‘evvai’ sul sicuro, sei dei nostri! Quanto gli stava sulle scatole la tanto abusata espressione di Martin Luther King: “La mia libertà finisce dove comincia la vostra”. Non perché non avesse un qualche fondamento, ma solo per l’uso spregiudicato che ne veniva fatto!

In quei cortocircuiti mentali che a volte accadono, veniamo infatti travolti dalla fascinosità dell’effetto che si gioca a partire proprio da una banale ovvietà che va a coprire una sostanza, la quale andrebbe invece indagata più in profondità. Vedi, ad esempio, il concetto di libertà (= fautori della “liberté, fraternité, égalité”, ça va sans dire) che, al pari della ‘democrazia’, sembra essere un ‘pass’ per essere accreditati nel Palazzo dei ‘migliori’ dei “saggi”.

Fuori la pioggia continua a picchiare senza sosta e ciò crea uno scenario surreale di tensione tra i ‘rumori’ esterni e quelli che vengono dal travaglio interno dei due amici.

Bartolomeo si decide a parlare: “Ernesto, ti sembrerà assurdo ciò che sto per dirti, ma, ti prego, ascoltami. Durante le vacanze natalizie dell’anno scorso ero tornato su dai miei, a Vicenza. In quei pochi giorni avevo vissuto non solo l’esperienza di essere quell’“Ospite inquietante” (forse anche per le vicende di zia Amalia), come argomentava F. Nietzsche, ma anche di sperimentare “in vivo” quella domanda da lui formulata ne “La Gaia Scienza”: “Che mai facemmo, a sciogliere questa terra dalla catena del suo sole?” (F. Nietzsche, La Gaia scienza, Milano, Adelphi, 1988, par. 125). Già. Che cosa avevamo fatto? Da QUALE ‘sole’ dovevamo distoglierci?

Così, chissà per quali imprevedibili associazioni mentali, mi venne in mente il racconto di F. Kafka “Davanti alla Legge”, la passività che contrassegnava il ‘contadino’ il quale, testardamente, rimaneva lì nell’attesa che finalmente i portoni della Legge si aprissero per lui e senza che lui dovesse fare niente.

Incominciarono a frullarmi idee per la testa in merito ad una visione oggi abbastanza generalizzata e cioè quella di poter accampare dei diritti a fronte di Legge e Libertà. Buttai giù uno schema per le prossime lezioni a scuola in cui avrei messo a confronto le intuizioni del filosofo e del letterato. Poi le restrizioni pandemiche modificarono tutto”.

I finestrini dell’auto erano così appannati che fu necessario aprirli anche a costo di far entrare la pioggia.

E la pioggia cadde dentro, incurante del fatto di bagnare tutto. Ma cadde anche un silenzio inquietante, come se ognuno di loro due avesse toccato qualche cosa di significativo, di importante. Ma nello stesso tempo si fosse giocato anche le sue ultime cartucce: pur nella convinzione della giustezza della battaglia, la battaglia era persa.

Infatti a chi avrebbero potuto raccontare che l’eccessivo razionalismo, o un falso “illuminismo scientista” che ‘costruisce’ una realtà fittizia che risponde solo ai criteri della credibilità ma non ha una visione progettuale, genera alla fine mostri? E che la libertà non è un diritto caduto dal cielo ed è inalienabile, bensì è l’esito non solo di una dolorosa conquista ma anche di una scelta altrettanto impegnativa?

E, soprattutto, che la scelta è sempre individuale? Ed è questa individualità che ci spaventa perché dobbiamo rispondere solo a noi stessi? Non abbiamo ‘supporter’!

Nel Racconto di J. Kafka, il ‘contadino’ insiste nel suo volere stare lì, convinto della giustezza del suo presupposto, perché la sua linea guida è agognare alla conoscenza (e chi lo potrebbe contraddire?), e a quel fine sacrifica tutto, immagina che la Legge debba essere lì per lui e che prima o poi la raggiungerà e molto dipenderà dalla benevolenza del Guardiano al quale affida la sua sorte. Ma Albert Einstein diceva: “Follia è ripetere sempre la stessa cosa aspettandosi risultati diversi”. E invece il ‘contadino’ ripete…ripete… incurante dei cambiamenti che pur è costretto ad osservare.

 Come scuotere le menti appiattite da quella corrente dominante che omologa i cervelli portandoli a pensare che solo nella uniformità e disconoscendo i conflitti legati alle differenze il mondo sarà migliore?

Quanta pazienza, quanta fiducia (e speranza), quanto tempo sarà necessario per far vedere che le bisacce del diavolo non contenevano monete sonanti ma solo foglie secche?

20.08.2021

Appunti  sulla storia di AO

di Ennio Abate

Meglio la malinconica consapevolezza di una sconfitta. Meglio la dignitosa riflessione di un intellettuale che contribuisce alla lotta con l’esperienza maturata in un’altra epoca.

(Fabrizio Billi e William Gambetta, Massimo Gorla una vita nella sinistra rivoluzionaria,  pag. 90, Centro Documentazione di Pistoia)

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Ancora sugli anni ’70

Discussioni a spizzichi e bocconi
Riprendo un articolo comparso sulla pagina Facebook di Lanfranco Caminiti (qui) e una selezione dei  commenti, tra i quali due miei. [E. A.]

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La barzelletta dei due frati

 di Angelo Australi

  

Quando l’ho incontrato mi trovavo in una strada poco frequentata del centro. È spuntato all’improvviso da dietro l’angolo di una casa con un folto giardino, mentre mi stavo avvicinando al punto dove inizia la passeggiata che faccio nelle mattinate di sole, ogni giorno sempre gli stessi diecimila passi (almeno questo dichiara lo smartphone), fatti in gran parte sugli argini del fiume, nel tratto non ancora asfaltato che attraversa la campagna. Volevo tirare di lungo, ma Ottorino sembrava avere una gran voglia di parlare. Continua la lettura di La barzelletta dei due frati

Un «filo» tra Milano e Cologno Monzese

Disegni di Tabea Nineo 1978

Franco Fortini e gli “intellettuali periferici”

di Ennio Abate

quel filo che più
non brilla e che fu
tuo, mio.
Franco Fortini, Poesie inedite
 
 

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Gli anni Settanta nel «panorama storico» di Gianfranco La Grassa

Articolo uscito sul n.8 cartaceo di POLISCRITTURE (dicembre 2011) scaricabile qui

di Ennio Abate

Tempo fa un giovane storico mi confidò che, a suo parere, molti colleghi più anziani di lui erano rimasti fissati (questo il termine usato) agli anni Settanta. Non gli dissi che anch’io, senza essere storico, torno spesso su quegli anni; e, anzi, ho tentato invano di indurre amici, che come me da lì politicamente e culturalmente vengono, a rifletterci assieme. La damnatio memoriae non cede. Ogni tanto, però, scopro con piacere  che qualcuno non li liquida come «i peggiori della nostra vita»[1] e ci torna su quegli anni in modi non banali. È il caso di Raffaele Donnarumma, che in un saggio dedicato al «terrorismo nella narrativa italiana»,[2] si attesta sulla posizione moderata di chi «combatte da anni per impedire l’equiparazione tra gli anni Settanta e gli anni di piombo»[3] e così sintetizza il trapasso da un’epoca a un’altra avvenuto allora: 

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Taccuino di un militante di AO. Quattro mesi del 1978

Domani 22 febbraio 2021 alle 17,30, collegandosi su Facebook ( qui) o su Yotube (qui), è possibile seguire la presentazione di “VOLEVAMO CAMBIARE IL MONDO. Storia di Avanguardia Operaia (1968-1977).

di Ennio Abate

Sono stato in Avanguardia Operaia dal 1968 al 1977, cioè fino alla sua scissione. Da allora, in tutti questi anni ho continuato a rimuginare e a scrivere su quella mia militanza politica e sulle vicende degli anni Settanta. Dei numerosi appunti (in forma di diario, di narratorio e di saggio) ho pubblicato finora pochi brani su Poliscritture ma ho sempre colto qualsiasi occasione per tornare su quella storia e confrontarmi con i miei ex compagni di AO. E’ accaduto in particolare nel 2016 sulla pagina FB “Via Vetere al 3”, dove per la prima volta  si affacciò l’idea di una Storia di AO. E quando uno di loro, Luca Visentini, ha pubblicato «Sognavamo cavalli selvaggi», una rielaborazione narrativa della sua esperienza in AO, che ho attentamente recensito (qui).

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«Viva la sinistra» di Alessandro Dal Lago

 Letture in quarantena (5)

 di Donato Salzarulo 

Questa “Lettura d’autore”, annunciatami  da tempo dall’amico Salzarulo che la stava completando, capita nel pieno dell’acceso dibattito  scaturito dagli interventi di Luciano Aguzzi e dalle repliche ad essi (qui e qui). E’, però, una riflessione  autonoma e approfondita di un libro; e come tale va considerata. Al di là delle prese di posizione implicite o esplicite  che indirettamente dà ai dilemmi, agli aut-aut, alle ambivalenze con cui stiamo facendo i conti. Anche se, come suol dirsi, aggiunge altra (o troppa) carne al fuoco già acceso, mi parrebbe immotivato  rinviarne la pubblicazione [E. A.] Continua la lettura di «Viva la sinistra» di Alessandro Dal Lago

Nei dintorni di F.F. – Frammento 1

 

Per un libro da scrivere

di Ennio Abate

Nel mio PC ho una cartella dal titolo “Fortini nei dintorni dal 2002”. Vi ho stipato negli anni appunti, scritti di Fortini o miei e di altri su Fortini, qualche disegno, saggi e resoconti delle iniziative fatte per ricordarne l’opera alla Libreria popolare di Via Tadino a Milano nel 2014 e altro ancora.  Nel 2017, anno del centenario della sua nascita, pensavo di sistemare in forma di libro questi materiali. Per varie ragioni non ci riuscii.  Ci riprovo pubblicando  su Poliscritture  i frammenti  numerati di quello che potrà forse diventare il libro. [E. A.]
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