* Corsi di Richiamo e Aggiornamento Culturale d’Istruzione Secondaria
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Storia al biennio
dal diario 1982 di prof Samizdat a cura di Ennio Abate
24 settembre 1982
Cresce il mio interesse per la storia. È alimentato dal mio lavoro d’insegnante e dalla lettura dei manuali in uso, ma è disturbato e a volte bloccato dalla disattenzione e dall’indifferenza degli studenti. Finisco per leggermi e studiare il manuale per conto mio. Non ho altra scelta. ma che frustrazione trovarmi di fronte a un manuale (autori Di Tondo e Guadagni) carico di nozioni e senza un filo di racconto ben individuabile.
Ho fatto un confronto con il manuale di Vegetti: l’argomento della preistoria è svolto da Vegetti in 15 pagine, che comprendono anche 4 letture di approfondimento e sette pagine illustrate. La linea del manuale è precisa: no alla storia «archivio del potere» o «favola del progresso», no al mito dell’«obbiettività»; necessità di una «teoria» della storia antica che ne evidenzi la diversità dall’oggi; rifiuto del mito della classicità, intesa come momento di perfezione; lettura delle società antiche alla luce dei «modi di produzione e dei rapporti sociali» (Marx). Il materiale storico proposto è ridotto e spiegato con chiarezza; e la narrazione dei fatti è preceduta (e quindi subordinata) alla «descrizione dei quadri sociali» che permangono per vari secoli.
Quello di Di Tondo e Guadagni dedica allo stesso argomento ben 46 pagine, con 26 letture (distinte in documenti e problemi) e ha 24 pagine di illustrazioni. Dà molto spazio al racconto e dichiara una volontà di aggiornamento scientifico. Ha un’esposizione per problemi e pretende d’introdurre lo studente al lavoro storiografico. A me pare inutilizzabile dallo studente e poco adatto anche alle esigenze di aggiornamento dell’insegnante.
Non me la sento di trascurare le reazioni negative dei ragazzi né di predicare loro l’«oggettiva importanza» di studiare la storia. Mi sento solo di incoraggiarli a una lettura attenta di alcuni capitoli e fargli approfondire qualche argomento con un’interrogazione maieutica. E posso anche usare qualche loro domanda per coltivare e aumentare la loro curiosità. Nulla di più.
26 settembre 1982
[Ancora sul mio insegnamento della storia] Ho molte incertezze. Non so decidermi a far studiare la storia antica a ragazzi che non ne vogliono sapere né a scegliere tra un’impostazione e l’altra. Dietro la mia difficoltà di risolvere un problema didattico c’è anche la mia crisi di intellettuale che finora si era interessato soprattutto a un periodo limitato della storia: quella “contemporanea” e soprattutto della nascita e crescita del movimento operaio. Avevo fatto la tesi sui «Quaderni rossi», un tema collegato all’impegno politico degli anni Settanta. E nei primi anni d’insegnamento a ridosso del ’68-’69 avevo continuato a privilegiare la storia contemporanea anche quando insegnavo alle medie. Approfittando della “sperimentazione” partivo dalla rivoluzione industriale e arrivavo alla cosiddetta attualità.
La crisi della militanza politica mi ha portato ad accettare e rispettare il «programma» e a fare storia antica e medievale da sempre trascurate. Mi sono accorto però dei limiti sia dei miei studi liceali sia di quelli universitari completati facendo il lavoratore-studente. All’università gli esami di latino e storia antica li ho fatti male. Quello di Storia medievale dovetti ripeterlo. Qundi ho due problemi: la resistenza dei ragazzi che rifiutano di studiare storia e la presenza di vuoti nella mia preparazione.
27 settembre 1982
[Appunti guida per lo studio della storia antica] 1) Non si può dare quasi per scontata e indiscutibile la “necessità” di studiare la storia (e la storia antica poi, nel caso del biennio) e i motivi che hanno spinto le generazioni passate a studiarla non valgono per quelle di oggi. 2) Perché oggi “noi” (studenti, insegnanti) dovremmo studiare la storia antica? Per vari motivi, ma uno fondamentale sta nella crisi dello sviluppo dell’umanità. Il futuro è oscuro. L’idea di Progresso – una certezza per gli uomini dell’Ottocento – è smentita dai fatti. Anche la fiducia nella scienza si è incrinata. Insoddisfazione del presente e oscurità del futuro spingono a ripensare il passato, a rivolgersi ad altre culture (quelle orientali ad esempio) o a indirizzarsi a saperi finora trascurati o disprezzati (astrologia, occultismo, medicina popolare). 3) Lo stesso studio della storia risente di questo clima di crisi. E l’attenzione al passato storico preindustriale è cresciuta. Questo passato sta diventando persino di moda: film di fantarcheologia o come «Excalibur» o «Il romanzo della rosa» di Eco. 4) Accostarsi al passato è davvero difficile. Si possono commettere vari errori. Ad esempio, quello di renderlo simile al nostro presente, cancellando le sue diversità dai tempi antichi. Il consumo di passato organizzato per le folle (es. le visite ai bronzi di Riace) annulla queste diversità, non arriva neppure per un attimo a rompere le nostre abitudini quotidiane e l’unicità dei bronzi e annullata o neutralizzata dalla loro riproduzione in oggetti ornamentali ubito commercializzati. Come facciamo a rendere gli antichi nostri contemporanei? Cancellando la loro diversità. Ad esempio, le strips dei fumetti presentano uomini preistorici nell’abbigliamento, che però sono assillati dai problemi della nostra vita quotidiana. Forse la storia è il campo della lotta tra quanti vogliono scoprire la diversità del passato e quanti vogliono sterilizzarla.
Memorie di un commissario d’italiano agli esami di maturità
Prof Samizdat (prova 4)
di Ennio Abate
Gli studenti (e i suoi due figli? perché era un prof Samizdat con figli, lui) stavano già tutti altrove. Anche se erano nell’altra stanza accanto alla sua a leggersi fumetti. O in classe, lì, visibili, davanti ai suoi occhi. Altrove, ma dove?
Prof Samizdat gli faceva domande. (Gli poneva questioni, diceva lui, serio, credendo alla sua serietà).
Ogni tanto capitava, sì, che una parola, una frase, che aveva viaggiato per conto suo assieme ai rumori, ai borbottii, nel flusso del discorso – somma della sua voce e delle loro – che nelle due ore di fila si costruiva nell’aula, avesse un inatteso effetto. O, più terra terra, uno di loro, interrompendo fantasie inafferrabili o ispirato da chissà cosa, gli faceva una domanda. All’improvviso. Imprevista. Fuori luogo. Continua la lettura di Prof Samizdat (prova 4)
Prof Samizdat (prova 3)
Narratorio. Versione 2020
di Ennio Abate
In quel Pacco Nord, in quell’anno. Ah, sì, c’erano ancora epigoni non più in eskimo del Grande – ancora si diceva così? – Movimento. Ne erano rimasti in quasi tutte le fabbriche, le scuole e i quartieri d’Italia. E al Pacco Nord chi erano? Un po’ di prof e ITP moderatamente democratici che, affezionati alla Picci-neria, amministravano la Sezione Sindac. E, in gelosa dissidenza con la Picci-neria, il Comit (o meglio, la cosiddetta “Compagnia delle schegge”) raccoglieva i dispersi degli ex gruppazzi rivoluzionari: prof Samizdat, Massim, Sciag, più altri tre o quattro. Continua la lettura di Prof Samizdat (prova 3)
Temporale
di Ennio Abate
Solo una striscia di luce pallida e gialla illuminava ora il blocco dei palazzoni rossicci stagliati contro il cielo. Il resto era d’un azzurro sporco. Il temporale era imminente. Un’ombra, calata all’improvviso, incupiva anche il verde di un vasto campo che fiancheggiava i binari del tram. Attimo dopo attimo, in mezzo a folate sempre più forti di vento, quell’ombra, per effetto del sole che tramontava, si sollevava. Ora rodeva lentamente la facciata rossiccia dei palazzi.
Cosa faceva in quei momenti la gente nelle stanze ancora per un attimo soleggiate? Qualcuno di quelli che abitava ai piani più bassi, già investiti dall’ombra, s’era affacciato per vedere il dramma che il paesaggio della città mostrava? Prof Samizdat lo seguiva con un’ansia tenera.
Il terrorismo. In quegli anni lui era rimasto fissato all’immagine pubblica, spettacolare che i giornali ne davano. in un corpo a corpo emozionale. Era diventato un osservatore meticoloso anche dei battiti più periferici di quelle azioni violente e sanguinose. A volte cercava di riscuotersi. Come si fa quando il sonno assale, ma non vuoi cedere. E scuoti la testa. Da mesi era in un volontario esilio dalle manifestazioni politiche. Non ci andava più. Le sue attività giornaliere non erano mutate quasi in nulla, rispetto al passato. Ma la stanza dove studiava era il laboratorio dove quella sua attenzione spasmodica si esercitava ripetutamente sui quotidiani, che accumulava in pile ordinate per mesi. Aveva alcuni libri in evidenza sul tavolo. Ascoltava i giornali radio. Sulla spinta che seguiva agli avvenimenti, progettava letture e approfondimenti. Ritagliava gli articoli con le opinioni che considerava più degne di riflessione. E aveva mantenuto i legami con alcuni che si occupavano dei detenuti politici finiti in carcere. Con uno di loro, PDG, si scriveva. Supponeva che molti altri, che come lui avevano partecipato alle lotte dell’ultimo decennio, facessero qualcosa di simile. Ma non ne era certo. E non voleva accertarsene. Non desiderava più occuparsi assieme ad altri di una politica andata in frantumi . Meglio ripensarla da eremita.
La maniera equivoca e festaiola del far politica in quegli anni che ora si disfacevano furiosamente. I discorsi infuocati sulla rivoluzione non pranzo di gala. Fino alle bombe di Piazza Fontana, vogliamo tutto. Poi del tempo successivo di sconfitta nuovi goliardi e nuovi giacobini si spartivano la gestione pubblica. All’inizio i potenti – un blocco per lui informe, mai studiato, un concetto – erano stati sorpresi, ma subito avevano usato la loro potenza bruta. E quasi subito la fluida rete collettiva che dal ’68- ‘69 si era messa in moto quasi per incanto e sembrava estendersi gioiosa, giovanile, in piena autonomia, s’era irrigidita e slabbrata in più punti. Dalla calca euforica e dei simili (in apparenza) s’isolarono gruppi che insegnarono in fretta a fare scelte drastiche. E imposero discipline e riti partitici. Inevitabili? Non se n’era mai convinto, ma neppure che ci fosse una via diversa da quella che permise di intascare per un po’ il bottino d’intelligenza e passione di quei due anni esplosivi. Lo sistemarono in magazzini dalle dimensioni più squadrate. Le solite. I più vecchi le conoscevano. Montaldi ne diffidava. Non si capì più quali spiragli erano riusciti ad aprire e quali erano rimasti del tutto chiusi. Non si capirono neppure più le involontarie deformazioni subite dalle parole collettive. Rotolavano immediate, grossolane, fra le folle che ancora si radunavano numerose, ma già stordite, dietro bandiere. E non si capiva più in cosa esse fossero abbastanza simili e dove inconciliabili.
Al mattino si svegliava al primo passaggio del metrò, verso le sei. Disinnescava il comando della radiosveglia. Accendeva la piccola pila arancione, aprendo lievemente le porte per non interrompere il sonno della moglie e dei figli, andava in cucina. Si preparava il caffè e poi si chiudeva in gabinetto. Milioni di movimenti simili ai suoi venivano fatti nelle altre abitazioni, nelle carceri, negli ospedali. E prof Samizdat pensava, ma dolorosamente, che anche in questi gesti semplici era stata impressa e si manteneva da secoli una sottile violenza ormai quasi inavvertita. E che i corpi vi convivevano faticosamente, come con una protesi… […]
Ma quella morte, no! I democristiani se ne erano lavati le mani. Altri ragionarono fino in fondo. Qualcuno notò che Moro non era poi così innocente da essere avvicinato a Cristo. Altri non giuravano più neppure sull’innocenza di quest’ultimo. Quanto si parlò di vittima sacrificale, di necessità storica! Ragion di stato e provvidenza divina tornarono a confondersi. E dopotutto – pensarono sempre altri – si è trattato soltanto di un omicidio politico…[…]
Chiuso nella griglia strettissima di quei giorni, prof Samizdat fece l’unica cosa che gli era possibile: rovistare fra gli echi che gli arrivavano. A distanza. Dov’era precipitata nel frattempo la sua anima interrogante? E il suo corpo era ancora giovanilmente smagrito? Echi ed echi di echi. Nella griglia strettissima anche dei giorni successivi. Fare i conti, fare i conti! Ma non era un ragioniere. Era solo. Non contava nulla. “Sono per le trattative” disse impetuosamente e ad alta voce, sbracciandosi nel buio pur essendo solo nella stanza. E si alzò dalla sedia, spense la radio. Asfalti bagnati. Per la pioggia il traffico delle auto arrivava fino alla sua finestra. Come se friggesse. Intermittente. L’ascoltò come un’argomentazione imprevista ai suoi pensieri. Quel rumore di pneumatici sull’asfalto bagnato gli muoveva delle obiezioni. Ma chi imponeva quella dichiarazione, se non contava nulla? Era sempre solo nella stanza. La nube delle voci radiofoniche, dei titoli di giornali, delle immagini televisive s’era ormai azzittita. Le mille faccende della vita quotidiana continuavano. Avvolgevano anche i più schivi, i distratti, i disperati per conto proprio, i camminatori a testa bassa. Come prima. Le grandi tragedie non interrompono quasi mai gli impegni banali o semplicemente avviati. Il rubinetto che cola una goccia dopo l’altra. Sogni e letture svagate, amoreggiamenti e invidie, affari e porcherie continuavano . In una cappa che li rendeva anzi più anonimi e riparati. Ma il deposito corrosivo dei comunicati e degli scioperi in corso continuava nella sua mente. “Sono spaventato, sono inquietato” – disse ancora, accendendosi una sigaretta. E, ad alta voce, quasi per dar più consistenza alle sue parole, quasi a convincersi di più: “Sono inorridito per questa esibizione di durezza e di ferocia”. urlò accostandosi alla finestra. “E non voglio rientrare. Non accetterò mai le ragioni di chi vincerà questo scontro”, aggiunse facendo un gesto netto con la mano. Ma gli oggetti non rispondevano. Il ticchettio della sveglia era percepibile solo se ci pensava. I segnali abbisognano di decifrazione. La stanza era ancora terribilmente silenziosa. Un segno della fine, di morte. Era teso. Come stesse rispondendo alle implacabili domande di un tribunale invisibile. Che annullava tutto il balletto umanistico in espansione solo sui giornali. Poi andò in metropolitana a Milano. In strada, all’uscita di Piazza Duomo, una ventenne intatta e sardonica – si scorgeva bene il rossetto sulle labbra – mimava fughe e approcci e poi colpiva, ma con un cuscino, un pachiderma che ballonzolava sui trampoli.
Prof Samizdat (prova 2)
di Ennio Abate
Ah, se al Pacco Nord ci fosse stato anche l’Autonomo! Lui, sì, che non si lasciava intimorire da leggi e circolari. Sulle cose sindacali si destreggiava da dio. Ne sapeva le asperità i trucchi i trabocchetti. E dove non arrivava da solo, si consigliava con magistrati e avvocati amici suoi. Le prime volte prof Samizdat e l’Autnomo s’erano incontrati alle porte della Marelli di Sestosangiò. Volantinavano. Ciascuno per la propria Compagnia: Aò l’uno, Ellecì l’altro, che prima ancora era stato uno dei fondatori della Cigieellescuola. Lo si era saputo dopo il suo arresto. E veniva da ridere. Perché nei collegi rissosi di quei tempi il Flautista, che era il segretario picci-no della Cigiellescuola d’Istituto, ogni volta che l’Autonomo parlava, interveniva – palloso e pignolo – per denigrarlo e presentarlo come “il distruttore del sindacato”.
Prof Samizdat e lui avevano fatto un po’ amicizia. Anche allora non era facile capirsi. Ci provavano tutti di più però. E – carne e ossa, saluti e battute – spesso scendevano a patti e collaboravano. Di solito, però, stavano sempre a discutere e a litigare. Tra loro e con altri: “sinistri” e “destri”, sia studenti che insegnanti o ittippì. E sia nei corridoi che sui marciapiedi all’uscita della scuola. Continuando poi, instancabili e monotoni, all’ingresso di questa o quella fabbrichetta dell’hinterland. Dove facevano ‘sto famoso “lavoro operaio”. Distribuivano, cioè, sotto varie sigle i verbosi e male inchiostrati volantini dei loro minipartiti. Tutti con giri di parole pesate e ripesate e complicate per distinguersi tra loro ma soprattutto dalla nazionalpopolare Picci-neria. Che non li sopportava, li ostacolava in modi puliti e sporchi, li seppelliva sotto valanghe di altri volantini, manifesti, editoriali di giornalisti famosi. Tanto che, se all’inizio qualcosa spostarono almeno nelle grandi fabbriche con quel loro “lavoro operaio”, presto i loro volantinaggi si ridussero a un complicato modo di mandare a se stessi segnali d’incoraggiamento e di sfida. Per durare, insomma. Eh, sì, tranne qualche decina di operai – le ricamatissime “avanguardie di fabbrica” – che si fermavano a parlare con loro, il flusso della folla ignota sospettosa e sfuggente – oh, sfinge impenetrabile della Classe Operaia! – come prima li scansava, entrando o uscendo dai cancelli di fabbrica in fretta. Anche se prendeva tutti i volantini: di Ellecì-Aò-Pidup-Potop e della Picci-neria.
Ora però l’Autonomo era un fantasma di memoria. L’avevano di botto rinchiuso nel carcere speciale di Cun. E loro, per fortuna ancora fuori, sempre a scrivere volantini e documenti. Tra l’altro non più sugli aumenti salariali uguali per tutti, la selezione di classe che spezzava le gambe ai figli degli operai, ma sul pezzo della loro storia subito deperita e in via di incarceramento o di dispersione al vento. Scrivevano: voi dovete immaginarvi cosa sono queste carceri speciali! E pensavano: non volete saperlo, eh? No, quasi nessuno, neppure i loro simpatizzanti o quelli che non rifiutavano i loro volantini, volevano saperlo. Le carceri, speciali o meno, servivano. L’avevano detto sui giornali e alla TV. C’era un’emergenza. C’era la notte della Repubblica. E bisognava spegnere per bene i cervelli. E le bocche pure.
Tuttavia, dal carcere pur speciale l’Autonomo era riuscito subito a far avere a prof Samizdat e ai «colleghi dell’ITIS» una sua lettera. Aspra, spigolosa, urtante. Come la sua mente. La premessa era la classica analisi desiderante di una decina d’anni prima. Alla francese. (Senti che mi scrive questo! Che la scuola è un guscio svuotato dalla polpa viva del Movimento. Che la società è una prigione dalle sbarre invisibili controllata da sorveglianti punitori). Poi, a metà lettera, s’addolciva e mandava un saluto affettuoso a un collega del serale molto malato. Ma a tanta delicatezza d’animo in uno, che per quasi tutti ormai era un terrorista – lo martellavano i giornali e la TV – chi ci credeva più? Prof Samizdat, pignolo ma stralunato, insisteva: vedete che è presunto! Presunto non terrorista accertato? Ma figuriamoci! Badate a queste sottigliezze giuridiche? In tempi così rabbuiati? Suvvia, non possiamo permetterci il lusso di intelligenze alla Beccaria.
La lettera, perciò, era girata con flemmatica circospezione tra i docenti democratici per un po’ di giorni. E letta, era stata letta. E pure riletta. E sottoposta al vaglio della vigilanza della stessa Picci-neria d’Istituto. Non andava – chiarissimo – la sua conclusione: un’artigliata dell’Autonomo contro i suoi ex-studenti di quinta. Troppo vogliosi di diploma e di carriera, secondo lui. E mancava un nobile für ewig alla Gramsci. Ma che si crede? Questo solo di nude cose sapeva parlare. E esprimeva una corporalità scomposta. Un linguaggio-corpo? Eh, sì. Che male, ahi! Non toccatemi! State male anche voi, perdio! Pro/muovetevi!
Donchisciottino, angioletto di periferia con lo sguardo volto al passato sessantottino (il quadro di Klee, Benjamin, sapete, no?), ai colleghi democratici prof Samizdat ripropose, come un fesso, lo stampo etico in lui ormai indelebile: prepariamo una risposta collettiva. Ma i colleghi della Picci-neria, che un po’ lo sopportavano, perché un po’ teneva a bada anche lui quel diavolo di Autonomo – ora che nei conciliaboli della Docenza Seria era circolato il titolo dell’infamia: «Terrorista è!» , «Di sicuro?», «Certo, lo capivi dai discorsi che faceva in collegio» – non ne vollero sapere. Eh, sì, gli interventi dell’Autonomo avevano quel taglio tanto aggressivamente futurista. E non contro il chiaro di luna, ma contro la Picci-neria e il Compromesso Storto. Dunque? Ora te la sogni una risposta “garantista”, mio caro prof Samizdat. Te la sogni la lettera firmata da quindici o venti docenti democratici e garantisti. Noi restiamo coi piedi a terra e svegli, ché siamo già dopo il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro, eh!
«Meglio che uno s’incarichi di scrivere poche cose, ufficiali, normali e poi chi vorrà firmerà» – aveva concluso in gloria il Flautista. E l’incontro, riservato a un ristrettissimo e silenzioso drappello democratico di pii e pie docenti in via di accartocciamento, che era stato convocato su uno spelacchiato giardinetto lontano da occhi indiscreti, per discutere su cosa non volevano fare, ebbe il risultato prevedibile e previsto. Nessuno fiatò più. La faccenda dell’Autonomo per loro moriva lì. Voleva distruggerci? Tiè, lo distruggiamo noi e lo Stato che siamo Noi!
Prof Samizdat rimase col cerino acceso della lettera in mano. Lo spense e pensò a come rispondere lui, da solo. Che gli dico adesso a questo pezzo di me/noi, compagno o mezz’amico, finito in prigione, al fantasma che mi scrive, chiede, interpella, incalza? E più di prima, di quando, cioè, eravamo un po’ amici e un po’ avversari politici, un po’ in competizione e un po’ alleati nelle faccende di scuola o nei capannelli davanti alle fabbriche. Prima che cominciassero gli spari e il sangue scorresse, non era detto che dovesse rispondere per forza all’Autonomo e alle sue provocazioni. Ma adesso si sentiva in dovere di rispondere. Toh, adesso? Come! Proprio tu, che finora non hai avuto niente a che fare né coi lottarmatisti né coi fiancheggiatori né coi picci-ni e la loro fregola di farsi Stato? Ma indossala anche tu ‘sta casacca del sincero democratico, avanza nella carriera, fatti accogliere nella Docenza Seria, curati la famiglia, i figli, le cene con gli amici, procurarti un’amante. Perché ritrovarti solo come quando arrivasti a Mi dal Sud? Potrai contare sì e no sull’appoggio di Nuccia e Gigilà. Il resto – tutti, compagni e colleghi – è stato lesto a distrarsi in mille cosucce ariose e per loro l’Autonomo è fantasma assoluto, scomparso dalla vista e dai pensieri, fine!
L’Autonomo l’avevano arrestato per «reati associativi». Da un giorno all’altro. Dopo la prima lettera a prof Samizdat, dove chiedeva di indirizzare la risposta ad uno fuori dal carcere, che gliel’avrebbe poi fatta avere, gliene scrisse altre. Era stato sequestrato dieci giorni in una caserma di T. Poi aveva passato 15 giorni d’isolamento nelle celle “giù” del carcere di S. E quindi “in comune”. E si doveva dare coraggio da solo. Tenace lo era. Il suo mondo non se lo faceva cancellare. Anche se sconfitto? Questo lo pensavano gli altri, non lui. Lui contro i giudici che l’interrogavano aveva continuato a portare con foga non le sue piccole ragioni ma quelle del Gran Movimento, che continuava e che, secondo lui, i giudici – a tentoni ma con metodo – tentavano di incasellare nei loro ordinati schemi secolari.
Il carcere, scriveva l’Autonomo, non è la fine del mondo. Anche se tra i “politici” aveva trovato una situazione avvelenata. Delazioni e pentimenti. Qualcuno fidato però ancora c’era. Diceva. Ma lui, che era abituato a girare per Milano, a conoscere da vicino le fabbriche dove, nell’ultimo decennio, erano fermentate lotte o quasi lotte o presunte lotte, ora, come quasi tutti, aveva solo le informazioni che passavano giornali, radio e TV. Aveva perso ogni aggancio con quelli che prima frequentava. Di colpo, zac! Prof Samizdat – diceva – era il primo a cui scriveva.
Prof Samizdat ripose la lettera nella busta, la poggiò sul suo tavolo e andò a cercare altre notizie sull’Autonomo in carcere. Andò dalla ex-moglie, l’unica che aveva avuto dai giudici il permesso di vederlo. Le fece domande banali: come sta? come e cosa scrivergli? Lei gli raccontò qualcosa delle due sue prime visite. A prof Samizdat pareva impaurita reticente circospetta sospettosa. Ed era lenta nel parlare. Forse per altri pensieri che doveva nascondere dietro le prime parole pronunciate a voce bassa. Come se riferisse fatti delicati di malati gravi o di pazzi o di moribondi. Eppure erano soli in casa. Una bella casa. Vicino a un grande parco. Borghese per prof Samizdat. Sì, di quelle che lui mai aveva abitato o mai avrebbe potuto abitare. Prof Samidat niente sapeva della relazione troncata e ora ripresa tra l’Autonomo e lei. Di come s’erano conosciuti, sposati e poi separati. Di mezzo era nato un figlio. E ‘sto figlio ora era uno dei tanti adolescenti allo sbando. Quella donna aveva ricevuto colpi e delusioni. E non solo dall’Autonomo. Si capiva. E però, ora che lui era finito in carcere, se ne occupava. Di malavoglia. Anche questo si capiva.
Alla fine, uscendo dal palazzone, prof Samizdat si ritrovò pensieri più ingarbugliati di quando c’era entrato. Quella donna metteva, sì, da parte il brutto della sua storia mal digerita con l’Autonomo, si costringeva ad aiutare l’ex marito, ma non si fidava di lui. Temeva di essere strumentalizzata? E forse covava pure pensieri di vendetta. Una generosità contorta e combattuta. Neppure di prof Samizdat si fidava. Anche se ebbe l’impressione che se lo studiava per capire se poteva servirsene. E per un attimo prof Samizdat ebbe il pensiero che lui pure non si fidava né dell’Autonomo né, ora che l’aveva vista, della sua ex moglie. E che pure lui forse temeva di essere strumentalizzato da entrambi. Che casino la vita. Queste mezze e amare conclusioni che prof Samizdat ricavò dalla visita le mise com’erano – fredde – accanto a quelle gelide e sotto sotto disperate della lettera di lui. Non era bella la situazione.
E vabbè, assistilo tu il tuo Autonomo in carcere. Immaginati quel che ti riesce, ma a noi la vita ci chiama e, per favore, lasciaci vivere. Ti freghi da solo. Resti impigliato nel sogno di una generazione che non era neppure la tua e da quel’incubo non uscirai più. L’Autonomo dal carcere delirerà – è pezzo di mondo diverso dal fuori il carcere! – e tu a stargli dietro delirerai con lui. Inseguirai i suoi pensieri. Che ora saranno ancora più spigolosi e urtanti. E starete in due a a confrontarvi i vostri pezzi di storia che manco combaciano. Che c’entra uno con l’impronta di Aò con lui che ha l’impronta di Ellecì? E la vostra pagina di storia Picci-neria e Dicci-neria e Mondo Sovrastante non l’hanno mai neppure guardata. No, non hanno voltato pagina, l’hanno strappata! T’intestardisci a rileggerla, a rimuginarla? Ma non c’è più.
Scrutare meglio gli indizi che la sua mente carcerata m’invia. Guaderò correnti impetuose. Muovermi nella fanghiglia politica di questi anni. Pensare a saltellare sui sassi più matematici, più solidi e incensurabili. Spero che non cedano all’impatto del mio piede. Non lasciarsi fregare dal giudice che leggerà la nostra corrispondenza. Non sono poche le insidie e le temo. Certo che rileggerò.
Prof Samizdat (prova 1)
Tabea Nineo, Caduta, bassorilievo in creta, 1980
Narratorio. Versione 2020.
di Ennio Abate
Non erano inferme le albe del 1978. Somigliavano a quelle di sempre. Ma giovani sentinelle appostate su piramidi rilucenti freddarono un sogno. Vento, molto vento. Poi cervici divelte da corpi ancora frementi, sì. Muschi d’organi squarciati, sì. Torcigli di visceri raccolti in stracci sporchi. E però in Occidente altri vissero miti e tranquilli. Sull’oscuro pavimento degli anni restò, color carbone, soltanto uno sgorbio. Per assenza di grida, tutti finsero che il sogno non era stato di umani percossi da altri umanissimi. Che si fosse trattato soltanto di bestie macellate in quell’autunno, dicevano. Mente che indaghi, quel tempo grumoso è lo stesso che i freezer televisivi ogni giorno surgelano.
Da “Prof Samizdat”
di Ennio Abate
1.
Dove lo troviamo prof Samizdat? A bagnomaria nel quotidiano scolastico. Eccolo. Ha dettato i voti d’italiano e storia. Primo quadrimestre, eh. Restano da firmare i tabelloni e il registro azzurro. Ultimi avvertimenti di una voce – la coordinatrice di classe. Con la fregola addosso si accalcano per lo scarabocchio finale sui tabelloni e i registri. Battutine. Quali? Boh. Ultimi saluti distratti. Si scappa fuori. Perché il pomeriggio è di piombo. Dentro e fuori? Ci arriveremo, ci arriveremo. Lui pure scappa. Per i corridoi a quell’ora deserti e silenziosi.
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NARRATORIO/PROF SAMIZDAT (AGOSTO 1982)
di Ennio Abate
Sto lavorando al mio “narratorio” in prosa. Ho chiare in mente le sue suddivisioni principali, che in qualche occasione ho già indicato (Salernitudine, Immigratorio, Samizdat, ecc.). Mi è difficile, però, riordinare e sintetizzare i troppo numerosi e spesso ripetitivi appunti che – non so se obbedendo a qualche strategia da “narratore interruptus” o in preda a certe nevrosi da scrittori clandestini e isolati – ho seminato, spesso dimenticandomene, qua e là in molti anni (almeno dagli Ottanta). In quaderni, taccuini e foglietti volanti scritti a mano. In dattiloscritti di decenni fa (fino a metà dei Novanta) mai più riletti. E più di recente in file sul PC più facilmente consultabili. Ogni tanto trovo e rielaboro qualche testo come questo. Che appare a me stesso di non facile interpretazione e collocazione nello schema-progetto che mi sono fatto. [E. A.]
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