Questa mattina uno zirlìo di uccelli piccoli mi ha quasi conciliato con la clausura. Finalmente non solo gracchiare di cornacchie, o gli stridori dei pappagalli verdi.
Questo virus costringe tutti al distanziamento sociale e alcuni a rischiare anche la vita per fare il loro lavoro.
Quell’estate eravamo al mare a Cecina. Uno stabilimento balneare militare, come al solito. Papà aveva da poco terminato il suo periodo di comando di reggimento e mostrava una bonaria autorevolezza da generale in sandali e calzoncini corti.
Nel leggere questa ode di Gualtiero Via così cordialmente meditativa e speranzosa sulla scuola d’oggi, mi sono ricordato di quant’era invece dolente e incupito dalla sconfitta del ’68 “Prof Samizdat”, personaggio/maschera alle prese con la scuola anni ’70-’80 del Novecento. Il racconto della sua esperienza cominciava, infatti, così: “Dove lo troviamo Prof Samizdat? A bagnomaria nel quotidiano scolastico. Eccolo. Ha dettato i voti d’italiano e storia. Primo quadrimestre, eh. Restano da firmare i tabelloni e il registro azzurro. Ultimi avvertimenti di una voce – la coordinatrice di classe. Con la fregola addosso si accalcano per lo scarabocchio finale sui tabelloni e i registri. Battutine. Quali? Boh. Ultimi saluti distratti. Si scappa fuori. Il pomeriggio è di piombo. Dentro e fuori? Ci arriveremo, ci arriveremo. Lui pure scappa. Per i corridoi a quell’ora deserti e silenziosi. Ti scruto primo quadrimestre. Ti perquisisco io, pezzo di vita stronza. Io, prof Samizdat, che quasi non ti voglio notare, mutanda mia scolastica! Ché sui tabelloni metterei non la firma ma uno sputo. Che è firma + rancore. Per assenza d’amore? E chissà se un corridoio resta. Per l’amore o solo per andare a cesso?“. Non suoni provocatorio accostare due esperienze lontane nel tempo per capire da quanto tempo dura la sofferenza di una scuola che ora pare smettere di respirare e rischia di dissolversi in DAD. [E. A.]
un’ode
(agli studenti a agl’insegnanti)
Fra pochi giorni avremo lo scrutinio
carissime colleghe, e voi, colleghi,
condenseremo, in numeri,
che cosa?
Quando
il pallone comparve sopra le teste dei miei compagni ondeggianti in
una fila asimmetrica, per un istante luccicò contro il cielo
metallico; si giocava alle nove della domenica, in campi senza erba,
gialli e secchi o melmosi per la pioggia. Feci appena in tempo a
vederne il bagliore che divenne subito scuro, come una sfera
sfrangiata marrone compatto che si abbassò all’improvviso verso di
me. Non avevo neppure sentito il fischio dell’arbitro e quando il
“sette” calciò, lo capii dal tonfo sordo del suo piede sinistro
sul cuoio liso. Il sogno a occhi aperti, covato più di una volta
quella domenica e in tante altre precedenti, di un tuffo
spettacolare, svanì in un attimo. Quello aveva calciato con una tale
forza che quando vidi arrivare quell’ammasso nero dritto in faccia,
mi riparai il viso e chiusi gli occhi istintivamente. Il pallone
strisciò sui pugni tesi e s’impennò in aria oltrepassando la
traversa, fui colpito sul viso soltanto da rimasugli di terra come
fossero schegge. La sabbia aderente alla superficie di cuoio, sulla
pelle, fu come carta abrasiva, tanto che comparvero alcuni puntini
rossi sulle nocche bianche per il gelo. Raramente ci davano i guanti
che rappresentavano come una sorta di status symbol, un diritto dei
più bravi, quei portieri ai quali erano riconosciute qualità
speciali. Io invece ero stato chiamato solo all’ultimo momento perché
il portiere degli juniores aveva avuto un incidente in motorino.
Ma a chi parlare di Barunisse oggi? E perché? Ai poeti, ai poeti morti. A uno come Mandel’štam, di cui sto leggendo “Quaderni di Voronez”, a Cesare Pavese, che ho amato in gioventù, a quelli di allora, di cui qui parlo e che sono nel frattempo morti. Continua la lettura di Barunisse→
Non credevo che fosse già tanto tardi. Ero uscito per respirare aria salmastra, e lungo il sentiero pietroso avevo incrociato la signora Benneth.
– Giorno, – dissi. Non ebbi risposta.
Qualcosa del suo viso mi aveva particolarmente impressionato.
Era pallida come le altre volte, gli angoli della bocca, piegati verso il basso, le conferivano un aspetto quasi disperato.
I suoi occhi non mentivano: aveva pianto! Continua la lettura di Viaggio negli anfratti di Morpheus→