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Miracoli da pandemia

di Marcella Corsi

      Questa mattina uno zirlìo di uccelli piccoli mi ha quasi conciliato con la clausura. Finalmente non solo gracchiare di cornacchie, o gli stridori dei pappagalli verdi.

Questo virus costringe tutti al distanziamento sociale e alcuni a rischiare anche la vita per fare il loro lavoro.

       Quell’estate eravamo al mare a Cecina. Uno stabilimento balneare militare, come al solito. Papà aveva da poco terminato il suo periodo di comando di reggimento e mostrava una bonaria autorevolezza da generale in sandali e calzoncini corti.

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Fra pochi giorni…

di Gualtiero Via

Nel leggere questa ode di Gualtiero Via così cordialmente meditativa e speranzosa sulla scuola d’oggi, mi sono ricordato di quant’era invece dolente e incupito dalla sconfitta del ’68 “Prof Samizdat”, personaggio/maschera alle prese con la scuola anni ’70-’80 del Novecento. Il racconto della sua esperienza cominciava, infatti, così: “Dove lo troviamo Prof Samizdat? A bagnomaria nel quotidiano scolastico. Eccolo. Ha dettato i voti d’italiano e storia. Primo quadrimestre, eh. Restano da firmare i tabelloni e il registro azzurro. Ultimi avvertimenti di una voce – la coordinatrice di classe. Con la fregola addosso si accalcano per lo scarabocchio finale sui tabelloni e i registri. Battutine. Quali? Boh. Ultimi saluti distratti. Si scappa fuori. Il pomeriggio è di piombo. Dentro e fuori? Ci arriveremo, ci arriveremo. Lui pure scappa. Per i corridoi a quell’ora deserti e silenziosi. Ti scruto primo quadrimestre. Ti perquisisco io, pezzo di vita stronza. Io, prof Samizdat, che quasi non ti voglio notare, mutanda mia scolastica! Ché sui tabelloni metterei non la firma ma uno sputo. Che è firma + rancore. Per assenza d’amore? E chissà se un corridoio resta. Per l’amore o solo per andare a cesso?“. Non suoni provocatorio accostare due esperienze lontane nel tempo per capire da quanto tempo dura la sofferenza di una scuola che ora pare smettere di respirare e rischia di dissolversi in DAD. [E. A.]

 un’ode 
 (agli studenti a agl’insegnanti)
 
  
 
 Fra pochi giorni avremo lo scrutinio
 carissime colleghe, e voi, colleghi,
 condenseremo, in numeri,
 che cosa?
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Punizione dal limite

di Alessandro Franci

Quando il pallone comparve sopra le teste dei miei compagni ondeggianti in una fila asimmetrica, per un istante luccicò contro il cielo metallico; si giocava alle nove della domenica, in campi senza erba, gialli e secchi o melmosi per la pioggia. Feci appena in tempo a vederne il bagliore che divenne subito scuro, come una sfera sfrangiata marrone compatto che si abbassò all’improvviso verso di me. Non avevo neppure sentito il fischio dell’arbitro e quando il “sette” calciò, lo capii dal tonfo sordo del suo piede sinistro sul cuoio liso. Il sogno a occhi aperti, covato più di una volta quella domenica e in tante altre precedenti, di un tuffo spettacolare, svanì in un attimo. Quello aveva calciato con una tale forza che quando vidi arrivare quell’ammasso nero dritto in faccia, mi riparai il viso e chiusi gli occhi istintivamente. Il pallone strisciò sui pugni tesi e s’impennò in aria oltrepassando la traversa, fui colpito sul viso soltanto da rimasugli di terra come fossero schegge. La sabbia aderente alla superficie di cuoio, sulla pelle, fu come carta abrasiva, tanto che comparvero alcuni puntini rossi sulle nocche bianche per il gelo. Raramente ci davano i guanti che rappresentavano come una sorta di status symbol, un diritto dei più bravi, quei portieri ai quali erano riconosciute qualità speciali. Io invece ero stato chiamato solo all’ultimo momento perché il portiere degli juniores aveva avuto un incidente in motorino.

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Barunisse

Narratorio

 

di Ennio Abate

Ma a chi parlare di Barunisse oggi? E perché? Ai poeti, ai poeti morti. A uno come Mandel’štam, di cui sto leggendo “Quaderni di Voronez”, a Cesare Pavese, che ho amato in gioventù, a quelli di allora, di cui qui parlo e che sono nel frattempo morti. Continua la lettura di Barunisse

Viaggio negli anfratti di Morpheus

di Luciano De Feo

 

Non credevo che fosse già tanto tardi. Ero uscito per respirare aria salmastra, e lungo il sentiero pietroso avevo incrociato la signora Benneth.
– Giorno, – dissi. Non ebbi risposta.
Qualcosa del suo viso mi aveva particolarmente impressionato.
Era pallida come le altre volte, gli angoli della bocca, piegati verso il basso, le conferivano un aspetto quasi disperato.
I suoi occhi non mentivano: aveva pianto! Continua la lettura di Viaggio negli anfratti di Morpheus