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Eterofiction

di Elena Grammann

  • Ho letto la tua recensione[1].
  • E?
  • In ogni tua recensione c’è qualcosa della tua esperienza. Intendo della tua esperienza privata, personale. Sembra che tu scriva recensioni per parlare di te.
  • Difficile parlare con cognizione di causa di qualcosa che non sia il proprio sé. E i libri piacciono se si ritrova qualcosa che si conosce – o meglio: se aiutano a definire qualcosa che si conosceva senza riuscire a dargli un nome; o senza pensare che fosse il caso di dargliene uno. Troppo pigri o sbadati per pensarci.
  • Non ti facevo così platonica.
  • La teoria platonica della conoscenza è la più plausibile – indipendentemente da quel che si pensa del resto. (Pausa) Ma nel caso presente la recensione di Silvio D’Arzo ha veramente poco di me. Qualcosa, ma in fondo poco. Troppo statici i personaggi; troppo già composti per la tomba. Anche se può darsi che una certa necrofilia… Lo sai che quando ero piccola, diciamo verso i nove, dieci anni, e ero stufa di giocare con la bambola – anzi, credo che non mi sia mai piaciuto, ma non mi decidevo a mollarla lì, senza rito, perché me l’aveva regalata mia nonna e comunque per quanto bambola una sensibilità embrionale doveva pur averla… mi sentivo responsabile del suo benessere, già mi sentivo responsabile per tutto… insomma l’avevo deposta in pompa magna in una scatola con una bella copertina di raso e cuscino e materasso fatti di sacchetti di cellophane pieni d’erbe scelte e sistemata a dormire una specie di sonno eterno in solaio. Non molto diverso da una sepoltura nella torba se ci pensi. Poi ogni tanto andavo a controllare. C’ero rimasta malissimo quando avevo scoperto che l’erba era marcita e il cellophane era pieno di vermi bianchi… Un vistoso buco nelle tecniche di imbalsamazione. Nulla di eterno a questo mondo.
  • Dovevi far seccare l’erba.
  • Già. E da qualche parte lo sapevo. Ma ero toppo impaziente di spedire la bambola in un’orbita supralunare.
  • Supralunare?
  • Nel senso di incorruttibile. Sai, l’etere, la quintessenza…
  • Ah d’accordo. Ma D’Arzo?
  • No, voglio dire, eccesso di necrofilia in quei racconti, soprattutto il secondo. Madonna ’sti due vecchi! un piede nella fossa e l’altro su una saponetta! – cos’hai da ridere?
  • No perché noi invece…
  • Ma cosa c’entra, cosa c’entra… Non è una questione d’età. Questi ci sono nati con un piede nella tomba. O meglio, no, forse non ci sono nati ma era un destino. Un Destino con la maiuscola e ineluttabile. Ecco guarda: quei due racconti sono il funerale di un modo d’essere anteguerra.
  • Non mi dire che lo conosci, il modo d’essere anteguerra.
  • Certo che lo conosco. Anni e anni di racconti. Io appoggiata alla parete in cucinino mentre lei lavava i piatti. Mia madre era una grande narratrice, aveva un talento per la narrazione orale. Le veniva da suo padre. Mi teneva con l’affabulazione; io sono cresciuta in un mondo che non c’era più. E fra parentesi era abbastanza intelligente per rendersi conto che quando ha voluto metterle per iscritto, le affabulazioni, ne è uscita una schifezza. Sono due mondi completamente separati – io direi addirittura opposti, la narrazione orale e la narrazione scritta. Benché Thomas Mann a quanto pare …
  • Senti, ma tornando a D’Arzo?
  • No, aspetta un attimo, perché cambi argomento? Non ti rendi conto di quanto è importante? Tu fai presto, tu non sei mai stato cooptato per le serate “Narratori del territorio”, non ti hanno mai tirato per il coppino nelle associazioni culturali Al Filòss, non ti sei dovuto sorbire la signora che era brava a fare i temi e ora ha raccolto i ricordi del tempo che fu e esordisce dicendo: L’ho buttato giù così, come veniva eh, come veniva, e tu che pensi distintamente No signora non doveva farlo, e invece ti tocca assumere per un’ora e mezza un’espressione assorta leggermente sorridente, così che ti vengono i crampi a tutti i muscoli facciali più quelli della nuca con cervicale assicurata e alla fine, dopo gli applausi liberatori, da bere c’è soltanto dell’imbevibile malvasia e tu la bevi per la disperazione. Konna taiken wo shita koto ga naindeshou ne.
  • E che vuol dire?
  • Vuol dire che tu non hai mai fatto questa esperienza.
  • Certo che l’ho fatta, un sacco di volte, e la faccio decisamente meno tragica di te. Sono sicuro che fra i ricordi “buttati giù” dalla signora c’erano cose interessanti. Fondamentali forse. Proprio negli scriventi “non autorizzati” compare oggi quel plurale, di cui il plurale della letteratura “alta” deve tenere conto. Comunque preferirei non discuterne adesso. Propongo di chiudere la parentesi e tornare a D’Arzo. Cosa dicevi della tua recensione? (Silenzio) Be’? Non parli più? Che ti prende?
  • No niente, volevo raccontare una storia ma forse è meglio che te la fai raccontare da uno scrivente non autorizzato.
  • Per dio quanto sei permalosa! Non ti sembra di esagerare?
  • Gli spiriti nobili sono permalosi. Achille era permaloso. Orlando era permaloso. Crimilde e Ximena erano permalose.
  • A Ximena avevano ammazzato il padre.
  • Sempre meno grave di una serata al Filòss.
  • Dai, piantala e racconta.
  • Ma non è poi niente, una cosa che mi è venuta in mente mentre ti dicevo che nella recensione non c’è molto di me.
  • E allora?
  • E allora quella recensione era uscita qualche anno fa, in forma più ampia, in un volume a diffusione locale. L’aveva letta una signora, un’esperta di D’Arzo che ha scritto saggi, curato edizioni; e mi era stato riferito – me lo riferì un’anziana parente mia e sua – che era rimasta molto positivamente impressionata, direi quasi toccata… Io la signora la conoscevo di vista, diciamo che sapevo chi era. Ne fui lusingata. Ma soltanto adesso, quando hai detto che nelle mie recensioni c’è qualcosa di me, ho capito che cosa aveva apprezzato; cosa l’aveva toccata: ed è che io lì non parlavo di me; parlavo di lei.
  • Questo devi spiegarlo.
  • È una storia lunga… anche se immagino che si potrebbe riassumere in due parole. Ma bisogna invece raccontarla per bene, partire dall’inizio, e non so nemmeno se riesco a ricostruire tutte le parentele. Dovrei fare un sopraluogo al cimitero.
  • Al cimitero?
  • Be’ sì. La grande anagrafe diacronica.
  • Va be’, al cimitero ci andrai. Intanto comincia. (Silenzio) E adesso che c’è?
  • C’è un problema. Io questa storia non la posso raccontare. La signora è ancora al mondo.
  • E allora? Rimane fra me e te, no? È una conversazione privata.
  • Macché conversazione privata, io sto scrivendo un racconto.
  • Stai scrivendo un racconto? Ma allora, se è tutto finto…
  • No, è tutto vero, è ben quello il problema. Tutti personaggi veri. Di finto ci sei solo tu.
  • Ah, io sarei finto. Senti, non ti seguo. Ma non puoi comunque raccontare la storia? Cambia i nomi, cambia un po’ le circostanze…
  • Orrendo orrendo orrendo! Non dirlo neanche, mi fa male alle orecchie! È una storia vera ti dico, non si può cambiare nulla o non val più la pena – anzi, non vale più niente!
  • Ma nemmeno i nomi?
  • Soprattutto i nomi. I nomi veri hanno una risonanza, hanno corpo, fanno metà della storia. Mettici un nome inventato e tutto si assottiglia, scivola nell’inessenziale.
  • Allora dobbiamo rinunciare?
  • Potrei provare con le iniziali e i tre puntini, come si faceva una volta.
  • Ma sì, prova così.
  • Questa storia comincia prima della guerra. Prima della guerra l’ingegner F…, come tanti altri signori di Reggio, aveva una villa qui a San Venanzio. I F… venivano dalla montagna. Era un’antica famiglia della montagna, benestante, benpensante e cattolica. Etica personale rigorosa. Non so quale fosse l’atteggiamento nei confronti del fascismo, in ogni caso non si distinsero né per fascismo né per antifascismo e dopo il ’43, che io sappia, non subirono ritorsioni. Si potevano definire “quasi ricchi”, come la signora Nodier o i due vecchi prima del lento tracollo; la “quasi ricchezza” era tutta in case e terreni, ma di case e terreni ne possedevano, a quel che ho sentito, veramente parecchi.
  • Potresti specificare “a quel che ho sentito”?
  • Certo. La mia fonte principale non è il catasto ma mia madre. E a riguardo di mia madre devo dire che per quanto avesse lei stessa scarse attitudini a procurarsela, e senza esserne propriamente invidiosa, era però affascinata dalla ricchezza e tendeva a magnificarla e a esagerarla. E già che ci siamo diciamo anche, perché ha senz’altro un peso nel tono generale di questa storia, che per mia madre il peccato che non poteva essere perdonato era il peccato contro la proprietà.
  • Non andavi molto d’accordo con lei vero?
  • No. Ma tornando all’ingegner F…, sposò una Paterlini di San Venanzio, e anzi non so se la villa, in cui i F… venivano etimologicamente a villeggiare, appartenesse in origine alla famiglia dell’ingegnere o a quella della moglie. Durante la guerra ebbero due figli, un maschio e una femmina; la femmina, di qualche anno la maggiore, diventerà la nostra esperta di Silvio D’Arzo. Fu poi anche, a differenza del fratello, provvista dei titoli accademici necessari, ma non mi risulta che abbia mai lavorato. Probabilmente, almeno all’inizio, non ne aveva bisogno. Credo però che il motivo principale – comune, questo, a lei e al fratello – fosse una comprensibile e persino nobile inettitudine al lavoro retribuito. Ma questo viene dopo. La Paterlini dunque, sposa dell’ingegner F…, ebbe due figli, i cui nomi iniziano entrambi con A, il che ci crea qualche problema, a meno di chiamare Auno la maggiore e Adue il secondogenito, come fa peraltro Musil nel racconto Il merlo, dove per indicare i protagonisti usa le cifre Auno e Adue; e anzi si potrebbe tentare un collegamento col Merlo del Perù di Rita Simonitto[2], dal momento che in entrambi, Musil e Simonitto, il merlo diventa figura di una certa estaticità, sobria o sognante, e in entrambi è in qualche modo centrale la figura della madre…
  • Scusa, potremmo tornare ai figli dell’ingegner F…?
  • Ah va bene. Allora, nel ’52 o ’53, non più tardi perché era ancora ragazza, mia madre, che dava lezioni, si vide arrivare a casa una signora con un bimbetto di sei o sette anni. O forse otto, forse si era incagliato sul sistema metrico decimale. Erano la signora F… con il secondogenito Adue. Ma la cosa particolare era che il bambino, magrolino, era infilato in un saio da frate. Guardava per aria con gli occhi sgranati, curiosi, come se ci fossero in giro un sacco di cose che non capiva fino in fondo; e interessanti però. Io lui – molto più tardi naturalmente – l’avrò visto tre o quattro volte, e l’ultima nella foto sul necrologio. Ma anche da quella riuscivo a immaginare il bambino ficcato nel saio e l’espressione sgranata e curiosa che aveva visto mia madre.
  • Appunto – il saio?
  • Era un voto che aveva fatto la signora F… Può darsi che inizio anni Cinquanta la pratica, più che altro materna, di fare voti sopra la testa dei figli fosse ancora diffusa. In ogni caso la dice lunga sulla madre… Chissà cosa ne pensava l’ingegnere. Sempre che non fosse un’idea sua; perché questi ingegneri e medici e avvocati della montagna erano tipi strani, ossessivamente religiosi. Mia madre ne conosceva un altro, un medico, un terziario francescano che veniva giù da Marola, in pieno inverno e la neve per terra, coi sandali ai piedi e senza calze. A questi qui i figli generalmente gli morivano…
  • Lascia stare i terziari francescani e dimmi invece: cosa vuol dire “una pratica piuttosto diffusa”? Era approvata dalla chiesa?
  • Approvata non credo proprio. Tollerata, come molte altre follie. Cosa vuoi, quando l’arciprete li incontrava gli avrà fatto una carezza sulla testa e avrà detto: “Ma guarda che bel fraticello!” Come me: l’unica volta che ho partecipato agli esercizi spirituali le suore volevano convincermi che il mio futuro era con loro.
  • E?
  • E no. Scarsine come affabulatrici. La storia di Laura Vecuña, poveretta, che raccontavano, faceva solo puzza di incenso e candele. Una puzza che ho sempre trovato sospetta. Troppo parziale per qualcosa che vorrebbe essere universale. Troppo particolare.
  • D’accordo. Ma Adue infagottato nel saio?
  • Allora, per tornare al bambinello Adue, se mandi in giro un ragazzino vestito da frate, poi non puoi stupirti se…
  • Se cosa?
  • Ridotto al minimo, se non combina niente nella vita e finisce per dilapidare il patrimonio. Ma a ridurre al minimo non ti resta niente in mano e la riduzione al minimo è buona giusto per i titoli di cronaca.
  • Continua a raccontare allora.
  • Allora, intanto non è vero che non abbia combinato niente nella vita. Questo lo direbbero quelli per i quali ‘combinare qualcosa nella vita’ vuol dire accrescere: il patrimonio, o, se proprio non si può il patrimonio, almeno il prestigio. Perfettamente in linea con la Bibbia fra l’altro, Antico e Nuovo Testamento. Perché anche la parabola dei talenti…
  • Sì, va bene, ma Adue?
  • Adue dipingeva. Era pittore surrealista, fa conto Mirò un po’ più figurativo. Dei surrealisti storici gli mancava l’abilità di tenere, monetariamente parlando, un piede nella realtà. Se penso al bambino con gli occhi sgranati non faccio fatica a immaginare che, di stupore in stupore, la cosiddetta realtà finisse per sfuggirgli completamente. E non faccio fatica a immaginare l’angoscia del vecchio ingegnere. Il quale, sentendosi prossimo alla morte, ideò uno stratagemma non indegno di un notaio francese: dopo la scomparsa dei genitori, per alienare qualsiasi porzione dell’ingente patrimonio immobiliare sarebbe stata necessaria la firma della sorella, di Auno.
  • Avvilente per Adue – anzi più che avvilente. Equivale a non essere ammessi nell’età adulta. Giusto tollerati in un limbo artistico. D’altra parte, così si riverbera su Adue la gloria di Baudelaire e così l’ingegnere salvò il patrimonio. Due piccioni con una fava, in un certo senso.
  • Niente affatto. Perché Auno, quando Adue proponeva di vendere qualcosa, non riusciva a dire di no.
  • Così vendettero tutto e finirono in miseria?
  • Non proprio. Negli anni vendettero, credo, quasi tutto. Ma la vendita della villa di San Venanzio merita che se ne dica qualcosa. (Pausa) C’era a Reggio negli anni ’60 e ’70 un giovane gallerista intraprendente che aveva aperto una bottega d’arte in uno scantinato. Era in gamba e si affermò, tanto che lo scantinato, che faceva ancora bohème, non faceva più al caso. Nell’ambiente artistico cittadino il gallerista lanciato in cerca di congrua sede incrociò l’artista desideroso di lancio che possedeva, in solido con la sorella, la villa di San Venanzio. Le possibilità che l’incontro si concludesse diversamente che con un passaggio di proprietà erano estremamente scarse.
  • Capisco.
  • Pare che la villa sia stata acquistata a un prezzo decisamente inferiore al suo valore. Dico ‘pare’ perché la mia fonte era affetta da pregiudizio a favore del mattone. Soffriva di mal della pietra, con cui non si intende la calcolosi renale ma un interesse patologico per il laterizio. Per mia madre il mattone non era mai pagato abbastanza – soprattutto se era suo. Dico questo per correttezza, ma posso facilmente immaginare che la somma che Auno e Adue intascarono, probabilmente inadeguata, fosse integrata dal baluginio di una parte immateriale: la prospettiva del lancio che naturalmente non ci fu.

(Pausa)

  • Certo, è un po’ triste. Però non vedo, sai, quelle grosse analogie con i personaggi di D’Arzo. È vero che i due vecchi del racconto vendono la casa senza preoccuparsi di ottenerne il massimo, ma mi sembra che l’analogia si fermi lì.
  • Aspetta. La storia non è finita. I due F…, Auno e Adue, non erano né della mia generazione né della mia classe sociale. Quando venivano in villa, durante la mia adolescenza, conducevano la vita ritirata dei signori e frequentavano quelli del loro ceto, la vecchia borghesia terriera più o meno decaduta e in via di decadenza. Io non li conoscevo né, francamente, me ne occupavo. Poi me ne andai dal paese. Al mio ritorno, parecchi anni dopo, seppi che vivevano a San Venanzio. Li vidi qualche volta: erano dimessi, viaggiavano in corriera. Vivevano in una villetta che non gli apparteneva. Piuttosto modesta, niente a che vedere con l’imponenza, le dimensioni, il numero di stanze della vecchia; ma protetta da vecchi alberi e, benché si trovasse in una specie di triangolo fra due strade, signorilmente in disparte.
  • Quindi stavano in affitto?
  • La villetta non gli apparteneva ma non pagavano affitto. Per spiegare questa circostanza dobbiamo fare un passo indietro e tornare alla Paterlini di San Venanzio, moglie dell’ingegner F… Questa Paterlini aveva una sorella, Ines di nome, che aveva sposato un possidente locale. E costruirono la villetta. Il matrimonio rimase per diversi anni senza figli, tanto che si fecero prestare una figlia da una sorella del marito, che aveva sposato un cugino di mio nonno.
  • Mi sto perdendo.
  • Ok, lascia perdere che il marito della sorella del marito era cugino di mio nonno. Il succo è che questa coppia, senza figli, prese in casa come figlia una nipote. Mi dirai: ma perché la famiglia d’origine la cedette? Erano indigenti? Non riuscivano a mantenere la prole? Nient’affatto, erano robusti lavoratori, ma benestanti, e non avevano nessun problema a mantenere i loro molti figli. Tutti maschi. E quell’unica femmina. E allora perché cedere proprio la femmina? Che insomma in casa poteva far comodo. Perché al padre – il cugino di mio nonno – non piacevano le femmine. Cioè: non gli piacevano le figlie femmine, perché le femmine non figlie invece gli piacevano. Ma mai extra muros.
  • Sarebbe?
  • Sarebbe che si limitava a scopare le serve, pare di concerto con qualcuno dei figli.
  • Ma che libertini!
  • Libertini? Per nulla, erano tutti cattolicissimi.
  • E non ci vedevano contraddizione?
  • Mah, negli angoli morti fra la casa e la stalla non si dava tutta quell’importanza. I francesi la chiamano la bagatelle, no? E poi non si sperperava denaro. Quindi non c’era vero peccato. Comunque, per tornare alla coppia che “adottò” la nipote, qualche anno più tardi ebbero essi stessi un figlio, e la nipote scivolò, come dire, un po’ in subordine. Si trovò fra due famiglie come fra due sedie, tanto che più tardi finì per sposare un ingegnere lombardo; un tipo antipatico dice mia madre, veramente insopportabile, e la sua idea è che fosse un matrimonio di facciata e avessero fatto entrambi voto di castità. Erano infatti molto cattolici.
  • Mi sembra però che ci stiamo allontanando…
  • Certo. Abbiamo allora questa Paterlini Ines con marito – zii di Auno e Adue – che già un po’ avanti con gli anni hanno il figlio tanto atteso: Federico. Federico era… vorrei dirlo nel modo più neutro e accurato possibile. Era un semplice, ecco. Il padre morì abbastanza presto. Rimasero lui e la madre, nella villetta. A un certo punto – aveva già passato la quarantina credo – spuntò una brava ragazza ma la madre mise il veto: la brava ragazza non era socialmente all’altezza.
  • Questa Ines c’è ancora?
  • No no, è morta.
  • Allora starà arrostendo in fondo alla Geenna, sui roghi allestiti per i crimini materni.
  • Probabile. Io però non la conoscevo affatto. Mia madre la chiamava la Formigòna perché era sempre in giro alla ricerca di mobili antichi. Ne aveva messi insieme di gran pregio, fra cui un famoso scrittoio: un’opera d’arte. La Formigòna campò moltissimo; gli ultimi anni era allettata e il medico che la curava si accordò per l’acquisto dello scrittoio al prezzo stimato da un antiquario competente. Ma lo stuolo dei maschi cugini, i figli dello scopatore di serve, vegliava sul patrimonio e la vendita non si fece. Per dire: fra i molti criteri che si citano per dividere l’umanità in categorie può figurare anche questo: c’è chi vende, e chi non vende.
  • Sì ma – Auno e Adue?
  • Adesso ci arrivo. Tieni presente che questa storia comincia prima della guerra, ma nel frattempo siamo verso la fine degli anni ’80 e tutti sono invecchiati e continuano a invecchiare: la Formigòna, Federico, anche Auno e Adue.
  • E dunque?
  • E dunque Auno e Adue – non credo che non avessero propriamente dove andare – in ogni caso si trasferirono nella villetta della zia e penso che la soluzione andasse a vantaggio di tutti: Auno e Adue ebbero qualcosa che, complice la posizione protetta e nascosta della casa, era un rifugio adatto a loro; e gli altri due un aiuto nella quotidianità quando questa, invecchiando la Formigòna, diventava problematica. Fu insomma un caso felice di simbiosi mutualistica, e checché ne dicesse mia madre per quanto si può essere felici io credo che lo fossero. Il triangolo di terra fra le due strade, chiuso da alberi e siepi, mi è sempre sembrato un’isola misteriosa e disancorata dal resto in cui alcune persone hanno potuto vivere, fino alla fine, fedeli a se stesse.
  • La conclusione mi pare un po’ fiabesca; ma in un racconto, perché no. Piuttosto c’è qualcosa che non ho capito: che ruolo ha, nella storia, la nipote “adottata”, quella che poi sposò l’ingegnere antipatico?
  • Lei? Nessuno. A proposito: è la parente che mi disse che Auno aveva così apprezzato il mio saggio su D’Arzo.
  • Parentele complicate. Sei sicura di raccapezzarti bene?
  • Dove non ero sicura sono andata a controllare al cimitero.
  • Ma come? Se non ti sei mossa di qui…
  • E tu che nei sai? Se non esisti neanche…

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[1] Vedi qui su Poliscritture. Nel testo si fa inoltre riferimento a un altro racconto di Silvio D’Arzo, di argomento analogo: Due vecchi.

[2] Qui su Poliscritture.

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Il merlo del Perù

di Rita Simonitto

Giorni addietro, senza che facessi nulla per riattivare questa memoria (o forse un contesto particolare me ne aveva fornito gli stimoli) mi sorpresi a canticchiare una filastrocca dal testo un po’ bizzarro. Ricordo che la cantava mia madre. Forse si trovava in uno di quei momenti in cui una specie di bonaccia inframezzava tempeste virulente di ordine sia familiare che di disagio sociale. E, come in un film, accompagnate da questa ‘colonna sonora’, scorrevano immagini provenienti da un mio passato infantile sovraccarico di emozioni contrastanti: disperazioni rabbiose ed ebbrezze magiche.

Ed ecco un cestino di vimini color acqua marina che usavo per portare la merenda alle elementari e che, come un contenitore fatato, volevo sempre con me. E allora capitava che, in certe particolari occasioni me lo tenessi ancora più stretto. E così, sedute su un prato primaverile, mia madre ed io, mentre io lo riempivo di pratoline lei, rammendando qualche cosa, cantava: “C’era una volta un merlo, il merlo del Perù. Era senza saperlo un modello di virtù. Un giorno il merlo disse purtroppo sono solo, almen se prendo moglie, la notte mi consolo. Allodola mia bella tu sei una mia sembiante, allodola mia bella sarai la mia amante”. E senza dubbio le strofe continuavano, ma per quanto mi sia sforzata di recuperare quel seguito, il tentativo è andato a vuoto.

Piuttosto ricordo che anni dopo, ormai ben più grandicella, casualmente riconobbi l’aria su cui si poggiava quella filastrocca. Aveva a che fare con il Fra’ Diavolo: “Quell’uom dal fiero aspetto, guardate sul cammino/lo stocco ed il moschetto/ha sempre a lui vicin./ Guardate un fiocco rosso/ei porta sul cappello/e di velluto indosso/ricchissimo mantel.//Tremate!/Fin dal sentiero del tuono/dall’eco viene il suono/”Diavolo, Diavolo, Diavolo.” La musica era proprio quella!

Che avevano da condividere questi due mondi completamente diversi? Mah!

Se ripenso ad allora, quella canzoncina mi arrivava disinvestita di particolare attenzione, impegnata com’ero a raccogliere margheritine per farne braccialetti da portare alla maestra elementare (una suora, suor Enrica, che spesso intercalava i discorsi con il suo “vabbene vabbene ggià ggià”). Eppure credo che, inconsciamente, mi si infiltrassero domande su come immaginarmi questo merlo del Perù, così speciale da essere un “modello di virtù”, dato che i merli che capitavano sotto il mio sguardo, pur apprezzati per i loro gorgheggi, non mi sembravano niente di che. Certamente c’era il becco di un arancione singolare che spiccava come una lama sul lustro piumaggio nero. Oppure gli occhietti mobilissimi bistrati di giallo. Ma non finiva lì. Se mi sforzo di ricordare, quell’alone di mistero si confrontava con altre esperienze singolari legate alle rare passeggiate nei campi assieme a mio padre, il quale si reggeva a stento sulle gambe quando tornava emaciato dai permessi temporanei che gli venivano concessi da un qualche sanatorio. Poi lui sembrava rivitalizzarsi, eccitandosi quando incocciavamo in un nido di merlo nascosto in una rosta. E allora gli prendeva una specie di frenesia, dovevamo subito allontanarci per evitare che la mamma merla, insospettita dalla nostra presenza, abbandonasse la cova. E doveva strattonarmi via dal mio desiderio di prendere in mano uno di quegli ovetti screziati, misteriosi perché dentro c’era una vita. E mi sgomentava la sua collera quando mi opponevo: “Così li uccidi, così li farai morire tutti!”. Passare per assassina non era certo il massimo così mi mettevo a piangere. Ma oggi mi chiedo, in quei suoi scoppi d’ira a quali assassini faceva riferimento? Chi potevano essere stati per lui i veri turbatori di nidi?

Poi la calma tornava e mi raccontava dei diversi periodi di cova, quando la merla passa, proprio per proteggere le sue uova, dal collocare il nido tra gli anfratti del terreno, perché gli alberi sono ancora spogli, alle nidificazioni successive ad altezze sempre superiori per essere protette dalla vegetazione. E mi parlava del merlo, il suo compagno, che stava di vedetta e vigilava, quando mamma merla si allontanava per cercare cibo: e se c’era un pericolo mandava un richiamo particolare. Ero affascinata da queste storie al punto tale che avrei voluto provocarle: sentire com’era fatto lo zirlo del merlo in presenza del pericolo, ma mi bloccava il timore di produrre delle catastrofi a causa della mia irrispettosa curiosità.

Ciò nonostante, percorrendo le frammentarie strade dell’inconscio, il merlo del Perù continuava ad alimentare i misteri e io non osavo porre domande anche perché, in quella sua nenia, sembrava che mia madre fosse persa in qualche suo sogno, mentre io, dall’altra parte, pur presa dalla mia attività di confezionatrice di monili floreali, non riuscivo a distogliermi da quella presenza enigmatica che lei rappresentava… Forse che lei da qualche parte aveva visto il merlo del Perù? Era forse lei quell’allodola che cantava con voce così armoniosa e…

O invece quel canto, come per magia, aveva il potere di far sparire la miseria nera del dopoguerra, le tragedie familiari di mariti-soldati tornati feriti non solo nel corpo ma anche nello spirito… pensava a questo mia madre mentre con sua figlia piccola accanto a sé cantava e chissà sognava un mondo di armonia nella natura o, tutt’al più, il vendicatore degli oppressi, Fra’ Diavolo? E perché il merlo del Perù si sentiva solo: era incomprensibile, a maggior ragione essendo lui un modello di virtù. Perché, perché, perché… Ma la stagione dei perché era finita da un bel pezzo. Non ininfluente il fatto che mio padre mi diceva: “invece di domandare sempre in modo così precipitoso, osserva, ascolta!” Ovviamente attitudini che lui non metteva in pratica!

E avrei voluto chiedergli che cosa si potesse fare poi con le osservazioni e con gli ascolti, ma ormai era già partito per altri ricoveri ospedalieri!

Ma come mai oggi mi tormenta non soltanto questa filastrocca ma il fatto di non ricordarne il seguito? Che cosa rispose l’allodola?

Forse perché la giornata di oggi è uggiosa di fuori e anche di dentro. O forse l’aver letto la statistica drammatica dell’entità crescente dei suicidi tra ragazzi mi ha sconvolto fin ogni dire. Uno su sette, si legge. In aggiunta, il drammatico quadro di nascite ridotte… e poi di quei figli che pur sono arrivati e che però abbandonano la partita mi scava dentro una ferita. Che sta succedendo? O che cosa può succedere quando non c’è un’idea di futuro? E nessun accompagnamento verso il futuro?

Una certa vulgata punta il dito accusatore sulla pandemia, sul come è stata gestita, i lock down limitativi … ma non credo che si tratti solo di questo. Perché tutto questo ha rappresentato l’emergente, la punta dell’iceberg… sotto c’era la parte nascosta che, non vedendosi, permetteva a tutti di continuare a ballare spensierati, come avvenne sul Titanic, fino all’ultimo secondo. Quello che non si vede (o non si vuole vedere) è come se ‘non ci fosse’. E ci si accorgerà della sua presenza solo quando il tragico impatto sarà avvenuto!

Ecco il ronzio del cellulare, un mio collega, ciao, ciao Guido, come va?

I soliti ‘rompighiaccio’ di prammatica. E’ da un po’ che non lo sento. Da quando si è trasferito di Regione. Ha immaginato che tornando là dove era cresciuto e aveva vissuto per molti anni sarebbe stato più in contatto con il territorio, con le sue peculiarità, “sai, nel nostro lavoro, anche questo è importante! Come parlare con la nostra lingua madre”.

Ne convengo. Anche se pure la lingua dei padri ha il suo peso, non solo psicoanaliticamente parlando, ma anche sotto l’aspetto della trasmissione dei valori. Si tratta solo di salvare nidi? O non anche di riconoscere ciò che diceva J. W. Goethe: “Ciò che avete ereditato dai vostri padri, guadagnatevelo, in modo da poterlo possedere”? Ma non ho voglia di parlarne con Guido adesso. La ‘dissonanza cognitiva’ (L. Festinger) oggi imperante, mi inibisce anche il più sano desiderio di confronto. So già che lotterò ad armi impari.

“Sei un po’ moscia, ti è successo qualche cosa?”

“No, no. Non mi è successo niente”.

Eppure qualche cosa si è mossa dentro di me. Ma non so come articolarla, come mettere assieme frammenti di passato ed una realtà che, violenta, fa irruzione in un quotidiano che sembra sonnecchiare, o, tutt’al più, avere rigurgiti di operatività, “dobbiamo fare qualche cosa”, “faremo così e così”. Ma sempre a valle e mai a monte. Mai un pensiero a monte. E allora l’esperienza storica (sì, anche quella personale) a che cosa ci serve?

Nel mio piccolo privato, come faccio a far stare assieme (ammesso che ci stiano assieme) e poi a comunicarlo, il “merlo del Perù” – con tutto l’apparato fantastico/storico che l’accompagna – con la crudezza apparentemente insensata di un suicidio giovanile? Non lo so. Forse sto, come si suol dire, partendo per la tangente? Forse, si!

Così il dialogo con Guido prosegue senza scarti emotivo/cognitivi di rilievo al di là della sua interessante idea di propormi per un tavolo di lavoro che coinvolga, trasversalmente, sociologi, psicologi e amministratori sanitari per la gestione della situazione pandemica (e, si auspica, post pandemica).

Nel mentre parlo, camminando su e giù per la stanza con il cellulare in mano, mi sorprendo a fermarmi ad una finestra che di fronte contempla un gelso, ormai vetusto, il quale, in modo surreale, sembra protendere i suoi nodosi rami, ormai depauperati dalle foglie, contro i vetri, verso di me: è una scena lugubremente minacciosa, tant’è che mi ritraggo spaventata da quegli artigli …

“Ehi, Giovanna, che c’è? Giovanna, Giovanna!” grida Guido.

“No. No. Non è niente. Solo il passato che ritorna”, gli rispondo, criptica.

Chiudiamo la conversazione che cerchiamo di stemperare con qualche battuta di spirito sulle odierne vicende politiche (la pensiamo diversamente ma ciò non ci impedisce di confrontarci, prendendo ciò che possiamo prendere e senza ostilità. Forse fa da base un antico affetto che ci lega). Solo che mi sovrasta l’immagine di quei rami di gelso, quelle scheletriche braccia che prepotentemente vogliono entrare nella stanza e mi sento tremendamente sola.

“Ah, Guido… Ascolta! Ma no, no. Ciao!”

E che? Gli avrei cantato le strofe del merlo del Perù? Magari ci avrebbe fatto su una sghignazzata. Soprattutto al passaggio “Un giorno il merlo disse, purtroppo sono solo, almen se prendo moglie la notte mi consolo”.

La grassa risata del mio amico che dilaga e contagia i presenti! Nello stesso tempo avrei voluto uscire dalla filastrocca e chiedergli: “Si consolerebbe davvero con la sua ‘sembiante’? Con quella che lui desidera come suo ‘simile’? Ma quale similitudine? Nel canto, forse? Tutti d’amore e d’accordo? Ma se tutti sono d’accordo, non c’è conflitto, non c’è evoluzione! E poi le sue merle, o la ‘sua’ merla?”. Voleva una avventura diversa? Già. Quanti veloci pensieri si sbattono impazziti nella mente…

E poi mia madre, la mia dolce madre, così fragile e indifesa, ragionevolmente stufa dei disagi all’interno di una coppia segnata dalle disastrose conseguenze di una guerra, forse avrebbe voluto per sé un amante, con cui cantare le stesse canzoni, vivere all’unisono in tutto e per tutto? Due cuori e una capanna?

E io? Che posto avrei avuto io in quel sogno così avviluppante, che li avrebbe stretti, avvolgendoli, su e su, di gorgheggio in gorgheggio fino a divenire due puntini nella vastità del cielo?

E dunque, io? Frutto invece dell’incontro importante tra due diversità… allora non ci sarei stata? E bla, e bla e bla.

Ma non avrei potuto parlargli di queste cose: “ah, ah, ah, ih, ih, ih” – la sua multiforme ridariola (tradotto in un più colto fou-rire, sfrenato) – “dai, Giovanna. Non stare ad arzigogolare! Concentrati sui problemi! Quelli ‘veri’, ‘minchiolina mia!’ (perché mi chiami ‘minchiolina’ non l’ho mai capito, né lui me l’ha mai saputo spiegare).

No, certo. So che non gli parlerò di questo, abbiamo tante altre cose su cui confrontarci. Non me la prendo, sicuramente! Ma percepisco un limite nel confronto, limite verso il quale sono (un po’, ma solo un po’) attrezzata. Oltretutto posso attingere ad altre risorse, la fantasia non mi manca. Pensarla diversamente rispetto ad un pensiero ‘unificato’ ovviamente mi dispiace ma non mi sconquassa.

Ma un giovane di oggi? Che cosa può fare se deve confrontarsi con un massiccio modello uniformante? Che fa? Chi trova a sostenerlo? Si omologa? Entra in guerra? E con chi? Con se stesso perché si sente inadeguato? Diventerà lui il suo nemico da abbattere? E il suo corpo diventerà il suo campo di battaglia? Vincitori o vinti? No, non voglio continuare da sola con queste domande che ho già tentato di proporre ma con scarso o nullo successo.

Fuori è salito un vento turbinoso e freddo: mai vista una stagione così stranita, anche le tartarughe che dovrebbero apprestarsi al letargo sembrano disorientate da questi sbalzi di clima, dovremo tenerle d’occhio perché non possiamo metterle nel terrario per il loro sonno semestrale né troppo precocemente né troppo tardi.

Tutto sembra drammaticamente sovvertito! Sovvertito? Sì. Ma non perché c’è stata una legittima ‘rivoluzione copernicana’, in cui si condensano studi, sperimentazioni, ecc. ecc. No. E’ solo… no, non lo posso dire e quindi mi taccio!

I rami del gelso graffiano contro i vetri, spinti da quella forza rovinosa contro la quale non fanno resistenza. Sembra essere nella loro natura assecondarla.

Io, no.

Chiuderò gli scuri!

Conegliano 15.10.2021

La venditrice di pentole (e il venditore di storie)

di Rita Simonitto

“Signore e signori, ecco a voi il bello della diretta!”

Quando Isabella torna a casa dopo un estenuante giro alla ricerca di un lavoro, non l’accoglie il consueto ronzio della TV che lei lascia accesa, anche quando esce, per due motivi: il primo perché vuole dare l’impressione che nel mini appartamento dove lei abita di recente ci sia qualcuno – e ciò possa dissuadere eventuali ladri – e, il secondo, perché confrontarsi con il silenzio, la estraneità di quelle pareti senza alcuna storia che le appartenga, tutto ciò le riporta alla mente la solitudine legata alla separazione dal marito. Ma si possono azzerare così le storie? Sovrapponendole a rumori ‘altri’? Così come la voce debordante di quel presentatore televisivo?

Solo che questa sera, come spesse volte accade, il volume del televisore si è alzato da sé e l’accoglienza è davvero strong.

Strong, sì, ma che le dà comunque una carica adrenalinica che le impedisce, come sta accadendo ultimamente ad ogni rientro, di buttarsi sul divano e sprofondare nel torbido di domande ormai inutili: perché adesso quella è la situazione e bisogna procedere.

Dalla finestra del palazzo di fronte lo scrittore osserva quella donna, ancora giovane, gli sembra, e ancora avvenente nonostante l’abbigliamento dimesso. Beh, non si tratta proprio di un palazzo ‘di fronte’ ma ‘di lato’, costruito con angolazioni bizzarre, un artificio architettonico che vuole suggerire distanza nella contiguità. Rientranze e sporgenze che però fanno parte di un tutt’uno.

Ecco, la donna ora è al telefono, sembra concitata, gesticola ma, ovviamente, non si sente nulla. Lo scrittore è curioso, d’altronde fa parte della sua professione.

“Rosaria, hai qualche novità? Ci sono state chiamate? Se non trovo lavoro non so dove sbattere la testa!”

“Al momento no, mi dispiace. Non abbatterti, vedrai che qualche cosa salta fuori”, risponde Rosaria, la sua amica che le ha aperto gli occhi sui tradimenti del marito, del marito di lei, Isabella. Isabella non sa se essergliene grata oppure no, ma in questo momento di emergenza non può permettersi di perdersi dietro a queste sottigliezze. Rosaria lavora in un centro per gli avviamenti lavorativi e chissà che da là emerga qualche opportunità.

I suoi modesti risparmi si stanno assottigliando e, per quanto lei abbia un discreto curriculum (diplomata in lingue e con un Master in Relazioni Aziendali), non riesce a trovare un impiego. Il grosso problema è rappresentato dal fatto che le manca – e ormai ha 32 anni – una esperienza lavorativa in quanto il marito (oramai ex) non riteneva opportuno che lei lavorasse perché, perché, perché … per la sua forma mentis gli appariva disdicevole, agli occhi del suo gruppo sociale, non essere in grado di mantenere una moglie e quindi ‘mandarla a lavorare’! Che lei potesse invece desiderarlo era ininfluente.

Senza dubbio oggi le sarebbe più utile conseguire un Master in Informatica, ma dove li trova i soldi? I suoi genitori le hanno detto, senza peli sulla lingua: “ti sei voluta separare? E adesso…. cammina”. Forse loro, pur avendo intuito alcune caratteristiche del futuro genero, erano dell’idea che le convenzioni sociali vanno comunque rispettate, ecc. ecc.

E se il marito trovava disdicevole pagare alla moglie i cosiddetti alimenti -oltretutto era stata lei a volersene andare… per che cosa poi? Pettegolezzi di cortile… malelingue… – la colpevole dell’abbandono del tetto coniugale era soltanto lei, per una ribellione che lui trovava assurda, capricci da bambina viziata e pertanto non le spettava niente: fosse ritornata all’ovile lui l’avrebbe riaccolta. Perché lui era un generoso e non portava rancore di sorta!

Mentre si sta preparando qualcosa per cena, Isabella pensa a Laura, altra sua amica di quando era al liceo: adesso è Chief Promoter, chissà che non abbia qualche idea. La dote particolare di Laura era avere una grande determinazione: dove voleva arrivare, arrivava. Bene, la chiamerà domani.

Poi, prima di coricarsi va ad abbassare le tapparelle (in quel fabbricato non ci sono scuri, balconi da chiudere con il vecchio rito del chiavistello che dava una specie di tangibilità alla separazione ‘dentro-fuori’). Non prima, però, di aver osservato quel ‘fuori’ così popoloso ma così… non saprebbe come definirlo, uniforme, anonimo?

Trapela una luce dalle listarelle plasticate di quell’appartamento d’angolo che è quasi contiguo al suo: giorni addietro ha intravisto la presenza di un uomo. Chissà chi è, chissà che cosa fa. E perché ha ancora la luce accesa.

Le cellette di quell’alveare ormai silenzioso sembrano essersi tutte spente: solo lo scrittore vive uno stato di intolleranza che non gli permette né di accedere al ‘sonno del giusto’ e nemmeno di tradurla, quella intolleranza, in una qualche idea da mettere giù, nero su bianco: anche perché gli obblighi editoriali si stanno facendo sempre più pressanti.

Sa che non vuole impazzire avvolto nei fantasmi dell’impotenza, diventare come Jack Torrance (*) e riempire pagine e pagine di “All work and no play makes Jack a dull boy”, solo perché non sente scattare dentro di sé una qualche luminescenza che riattivi la sua creatività, la sua giocosità e invece deve rispondere soltanto alle esigenze del suo editore che l’altro giorno, in modo sfottente, lo ha chiamato il Signor ‘chissenefrega’.

Forse ha bisogno di ispirazione, di “quel mattino che ha l’oro in bocca”, ma che al momento non riesce a trovare.

Oggi Isabella avrà un’altra giornata davanti, di ricerca, di speranze che vanno a vuoto e di rientri a casa con un pugno di mosche in mano.

Così si decide e chiama Laura, ovviamente super indaffarata, che le dà l’appuntamento per l’indomani. Non sa nemmeno come presentare il suo bisogno di aiuto (memore della loro antica competizione), ma, nello stesso tempo, sa che deve giocarsi il tutto e per tutto.

I segni degli anni si mostrano più in Laura che in Isabella, può essere anche per la vita frenetica che fa, le abbronzature spinte legate alla frequentazione di luoghi esotici e che le hanno un po’ accartocciato la pelle.

“Al momento, cara Isabella, non posso che proporti un lavoro ‘dal basso’ ma sono certa che con le tue capacità, sarai in grado di emergere e piano piano salire i gradini”. Visto che sono in confidenza con il gestionale di questa Azienda che si è specializzata nella vendita di prodotti per la cucina (casseruole, tegami ecc.) posso garantire io per te in modo da evitarti di acquistare preventivamente tu i prodotti: eventualmente ci sarà un saldo con le provvigioni sugli ordini acquisiti.

Si tratta di illustrare queste pentole super moderne andando a domicilio, prenotando una dimostrazione a un piccolo gruppo di persone e raccogliere le prenotazioni. Certo, bisogna individuare delle signore (sì, dice proprio ‘Signore’ accentuandone il significato di status) che radunino a casa loro delle amiche in una specie di the pomeridiano (pasticcini compresi): ciò servirà a dare al tutto una coloritura più affettiva che commerciale. Inizia con qualcuno che conosci e poi le cose verranno da sé”.

Beh, si sa che, se opportunamente usati, gli affetti e le emozioni fanno passare qualsiasi cosa. Isabella è un po’ restia di fronte a quella manipolazione, anche se non è ingenua al punto tale da non capire che nel sistema odierno ciò sembra essere il modello dominante nelle comunicazioni. E d’altronde non lo ha sperimentato pure lei attraverso le vicissitudini della sua vita coniugale?

Solo che non vorrebbe essere lei a rivestire quel ruolo ‘attivo’, di inganno, del mascheramento della realtà per raggiungere altri fini.

“Devi essere ‘politica’, figlia mia” le diceva sua madre quando Isabella era dubbiosa sull’uomo che sarebbe andata a sposare: “devi sapere fare buon viso a cattivo gioco!”. E, anche se suo padre scuoteva la testa perplesso, continuava la tiritera dell’importanza dello ‘status symbol’ che la figlia avrebbe raggiunto con quella unione. E poi? Al momento della separazione i suoi genitori si trovarono d’amore e d’accordo nell’affermare che gli errori stavano in Isabella, era poco ‘elastica’, non capiva la complessità della vita e quindi… da lì in poi erano cavoli suoi…

Così Isabella studia il suo piano: in quel rione lei non conosce nessuno ma deve tentare. Individuerà quei campanelli il cui nome è preceduto da qualche titolo e così inizia. Le gambe le tremano un po’ come pure trema il dito che deve premere quel pulsante che potrà essere decisivo nella sua vita. I campanelli sembrano muoversi davanti ai suoi occhi come in una sarabanda tanto sono vicini da sembrare sovrapposti. Eccone uno: Dott.ssa Corinna Vallà. Preme. Le risponde una voce maschile, sarà il marito oppure il domestico.

“Buon giorno. Sono Isabella Sentieri e sono una funzionaria della Albatros (Laura le aveva detto: “quando ti presenti sii magniloquente e generica al contempo, i dettagli li spiegherai a tu per tu, importante è entrare”). Posso salire un attimo?”

La voce risponde affermativamente, ha un timbro caldo, sembra cordiale.

Difficilmente suonava il campanello in casa dello scrittore. Aveva voluto isolarsi in quel luogo anonimo senza dare il suo recapito a nessuno. Sentiva da un lato il bisogno di proteggersi da eventuali incursioni di quegli amici che, dietro la scusa del “passavo di qui per caso” vogliono di fatto venire a curiosare. Dall’altro, il bisogno di entrare in contatto con quella parte creativa di sé che, lo riconosceva, aveva sacrificato all’altare della fama gli faceva desiderare il silenzio.

Il campanello adesso suona insistentemente all’uscio e lo scrittore lo lascerebbe suonare, in fondo non è affar suo bensì di colui che strimpella alla sua porta.

Ma quel mattino non ha niente da fare, in realtà non ha niente ‘da essere’, i contorni della sua vita sono sfocati e allora tanto vale fare uno scatto di reni, alzarsi, spostarsi dalla opalescenza del computer e andare ad aprire.

Lo scrittore è ‘agguerrito’ contro l’intrusore dimenticando che la vera guerra non si sta svolgendo fuori ma dentro se stesso.

Davanti a lui c’è Isabella, un borsone nero ai piedi. Ma non è quello a colpirlo quanto lo sguardo di indeterminatezza, di spaesamento di quella giovane, come quello di chi non si trova al “suo” posto ma che è costretto, per svariati condizionamenti, a starci. Eccola lì, palesarsi di fronte a lui la misteriosa donna osservata nell’appartamento di fronte. E’ proprio graziosa. Che sarà venuta a fare?

“Prego, si accomodi”.

Dal rapido sguardo che Isabella si fa attorno realizza di trovarsi a tu per tu con quell’uomo che lei ha intravisto dalla finestra. Sembra un po’ più piccolo rispetto a ciò che le era parso (o se lo era immaginato?) ma ha un magnetismo che la sorprende. Nello stesso tempo, la consapevolezza di aver sbagliato campanello la blocca e vorrebbe sprofondare.

Ma adesso è lì e dovrà giocarsi la sua partita.

Sembra il trionfo del paradosso: nessuno dei due avrebbe voluto trovarsi in un contesto così inusuale, eppure eccoli lì a confrontarsi con la magia dell’imprevisto.

 

Conegliano 25.09.2021

(*) Il protagonista del film “Shining” di S. Kubrick, 1980.

“La bisaccia del diavolo“

di Rita Simonitto

C’è un momento nell’arco della nostra vita in cui si ha l’impressione che le cose ci siano chiare o, per lo meno, che acquisiscano una loro configurazione certa e che tutto ciò potrebbe portarci di buon diritto ad esclamare “Eureka!”. E invece poi sembra ribaltarsi tutto e si re-inizia partendo da un riassetto diverso. Semprechè la realtà lo permetta.

Come gli esiti degli incroci della rosa Floribunda trovano il massimo splendore degli effetti di massa nelle giornate estive e il consenso estetico è unanime, così poi, ai primi rovesci temporaleschi, si ‘impappinano’ contaminando nella palta l’una rosa con l’altra, con un effetto a catena devastante. Brillantezza e profumo vengono sovrastati da un laidore diffuso.

Affacciato alla gotica porta-finestra dell’antico palazzetto romano, forse Don Bartolo stava pensando proprio a questi paradossali effetti di laboratorio, in quanto li vedeva palesati davanti ai suoi occhi, nel suo terrazzino che ospitava varie tipologie di rosa fra cui anche la Floribunda. La sua riflessione non riguardava però solo il tema della caducità delle cose o della loro trasformazione, bensì il doversi confrontare con delle incongruenze, e ciò gli richiamava alla mente l’espressione di suo nonno: “Chi ha pane non ha denti, chi ha denti non ha pane”. Ovvero la discrasia esistente tra il sogno e la realtà.

Ad esempio, che se ne faceva oggidì, a settantasei anni suonati, di questo appartamento che godeva di un certo prestigio e che sua zia Amalia gli aveva lasciato in eredità, chissà perché proprio a lui. Forse perché le idee di lui le conosceva benissimo o fors’anche perché lo sentiva una specie di risarcimento per aver sopito le idee sue, di lei, quando sposò il colonnello Jorge Alvarez, argentino, in Italia per chissà quale missione. Un amore travolgente divampato proprio in quell’appartamento che il focoso amante donò a sua moglie come regalo di nozze. E che lei, ritornando vedova in Italia, dopo la caduta dei colonnelli, riabitò per un certo tempo.

Quando si è soli è facile abbandonarsi ai ricordi quale unica compagnia. “Sì, sì, è proprio così”. Gli è che in questo modo siamo senza contraddittorio! Mentre questa particolarità è l’essenza della partecipazione e del contatto/contratto sociale! Altro che ‘isolamento’! Altro che ‘riscoprirete la vostra interiorità’, come venne propagandato per sostenere le chiusure domiciliari antipandemia… “così dopo ne usciremo migliori”! Bah!

L’osservazione pertinente, ma ininfluente, fece tirare su col naso Don Bartolo il quale, distaccatosi dalla rutilante porta finestra mosaicata, che non aveva voluto aprire e varcare per non vedere il disastro che trasudava dal silenzio di quel quartiere che era stato ricco di movimento, di vita, di storia, “ah, la Garbatella, Ah!” nonché di personaggi importanti che lo avevano reso famoso, rientrò, sfiorò appena appena il pianoforte e si afflosciò sul divano come un soufflé. …  ma che senso aveva ricordare ora?

Recitare Pasolini “Io sono una forza del passato./ Solo nella tradizione è il mio amore./Vengo dai ruderi, dalle chiese, /dalle pale d’altare, dai borghi  abbandonati “, sarebbe stato quantomeno anacronistico in questo dannato maggio 2020, visto che la tradizione (il nostro essere sociali, le nostre ‘chiese’, da intendersi come ‘ecclesia’, luogo di incontro) era stata sacrificata sugli altari di una scienza trasformatasi in ‘scientismo’ e pertanto volatile, umbratile, schiava di una politica diventata essa stessa politicismo? Come di-spiegare ai suoi studenti liceali, in DAD, nelle sue lezioni di filosofia a Siracusa, il senso di quanto diceva il filosofo Emanuele Severino: “un apparente illuminismo scientista, che non riconosce i limiti costitutivi della scienza naturale, sfocia sempre nel peggiore degli oscurantismi”?

E poi che risultati ne derivavano dallo stare alla finestra dei ricordi?

Conosceva quell’appartamento. Lo aveva utilizzato più volte come base per mantenere i contatti con amici e/o compagni che dal Nord si erano trasferiti nella Capitale immaginata come la Mecca dei sogni. Ma soprattutto per stare vicino a sua zia Amalia, per lenire in qualche modo la sua devastante vedovanza. Il fratello di lei, padre di Bartolomeo, la disconobbe. Non solo perché si vergognava del fatto che la sua sorella maggiore, all’età di 17 anni avesse deciso di fare la soubrette al Teatro Jovinelli di Roma, ma soprattutto perché si era sposata con un militare, un ‘colonnello’, rompendo clamorosamente con le tradizioni familiari. Infatti suo padre, quando nel 1953 morì J. Stalin, ebbe il coraggio di esporre sul balcone di casa in quel piccolo paese della provincia vicentina (dominata dallo scudo crociato) la bandiera rossa del PCI listata a lutto. Il fatto che lei, dopo aver seguito il marito in Argentina, e, a seguito della morte di lui – eliminato dalle faide interne alla dittatura di J. R. Videla -, fosse riuscita perigliosamente a ri-approdare sulle rive del Tevere, ciò non modificasse, salvo che per Bartolomeo, l’isolamento familiare, per Amalia non rappresentò certo una buona accoglienza in famiglia. D’altronde questo è il destino della proscrizione ideologica.

Ragion per cui non solo lei ri-approdò a quelle sponde, ma alcuni anni dopo una vedovanza etichettata come infamante da un pensiero ‘politicamente corretto’, decise di abbandonarsi proprio a quelle bionde acque gettandosi dal ponte Sublicio poco distante da quel nido d’amore che, nel bene e nel male, aveva dato un senso alla sua vita. L’ostracismo della sua famiglia, l’evitamento da parte del gruppo sociale, senza sapere se il colonnello Jorge fosse stato o meno implicato negli assassinȋ della giunta militare argentina, non l’aiutarono certo a superare la perdita di quella persona che aveva veramente amato e dalla quale era stata amata.

Come spesso accade, da quello sprofondamento sul divano, un ricordo tirò l’altro. Ecco vivida la scena in cui la zia si trascina tristemente per i corridoi e lui che, mettendosi al piano, grida “Zia Ami, senti questa!”

Che cosa gli fosse passato per la testa per mettersi a strimpellare il brano “Everybody Needs Somebody to Love ” dei Blues Brothers, non se lo seppe spiegare. Forse il messaggio era che ognuno ha bisogno di qualcuno da amare, e se non di qualcuno, almeno di un’idea?

Zia Amalia, nonostante stesse raggiungendo la ottantina, era ancora una bella donna, flessuosa nel suo portamento e il colore fulvo della sua capigliatura aveva ingannato il passare del tempo assumendo quelle striature chiaro-dorate che turbano l’osservatore quando, in autunno, raccoglie una foglia di platano dai colori variegati che non preludono alla fine ma a una nuova rappresentazione sulla scena della vita.

Così, accompagnata dalla musica, la zia si lancia in un ballo scatenato, degno del suo passato di soubrette, piroettando fra i mobili, mimando amplessi con i cuscini colorati e i copridivani di arredo… solo che dopo quella meravigliosa esibizione crolla di botto a terra in un pianto dirotto, disperato. Poi, davanti allo sguardo atterrito di Bartolomeo, si alza e corre a chiudersi in camera.

Il ricordo poi si sfuma nella mente di Don Bartolo ma non si cancella una domanda: perché, nonostante la tragicità di quei vissuti, l’orrore dei momenti passati, pur tuttavia permaneva in lui una idea di futuro mentre invece oggi, per quanto ci si possa sforzare, e lui ci prova, tutto sembra nebuloso?

Comunque adesso è a Roma e qualcuno deve pur incontrare!

Compone un numero: “Cristina?”

“Bart, sei tu? Ma te possino..! Che ce fai a Roma? Sei sgusciato dalle maglie dell’ultimo DPCM? Guarda che questa libertà dura poco! In Sicilia ce devi tornà! Sennò te c’arimanno io!”, conclude ridendo.

Quanto odiava essere chiamato “Bart”. Ma Cristina era così, decideva lei, faceva le domande e poi si dava le risposte. Eppoi era la sua cara amica, docente come lui al Liceo A. Pigafetta di Vicenza. Ne era sortito un sodalizio interessante dove le frizioni fra terra (il pragmatismo di Cristina) e cielo (l’inconoscibile che tormentava Bartolomeo) trovavano alla fine delle linee di compromesso. Almeno nelle loro animate diatribe verbali.

Poi Cristina si sposò con un politico che, diventato parlamentare, la trascinò a Roma. Bartolomeo invece si unì con una amica di Cristina, Susanna, detta Susy. La quale Susy, nella convinzione che bisognava fare esperienza di tutto (però senza fare tesoro di niente) si infatuò della antroposofia, a dirla tutta di uno dei suoi docenti steineriani, e diede il ben servito al ‘compassato’ Bart. Così fu che Bartolomeo decise di abbandonare il Nord e accettare una docenza al Sud, a Siracusa.

“Cristina, sì, sono a Roma. Devo definire ancora alcune pratiche per l’appartamento di zia. Che cosa fai questa sera? Ti va di andare, visto che adesso si può, alla Pizzeria Garbatella? Ce l’ho qui sotto casa!”.

“Tesoro, non posso. Mio marito è ancora reclutato agli ‘scranni’ e la Caramella ha fatto la sterilizzazione questa mattina… gli altri gatti/e la sentono come ‘strana’ e le soffiano per via che porta il collare autoprotettivo per non leccarsi il taglio….  per cui devo stare a casa. Magari ci sentiamo domani”

“O.K. O.K. Sì, certo. Va bene per domani”.

“Ciao Bart. A domani”

Sì, essere chiamato Bart gli dava fastidio, ma era sempre preferibile a quella eco di “Meo… meo… meo” cantilenato a scuola come un miagolio…: presa in giro a causa dell’epiteto vicentino di “magna gati”. D’ altronde la filastrocca parlava chiaro: “Venexiani, gran signori; Padovani, gran dotori; Vissentini, magna gati; Veronesi… tuti mati; Udinesi, castelani co i cognòmj de Furlani; Trevisani, pan e tripe; Rovigòti, baco e pipe; i Cremaschi fa coioni; i Bresàn, tàia cantoni; ghe n’é ncora de pì tristi… Bergamaschi brusacristi! E Belun? Póre Belun, te se proprio de nisun!”.

Certo, non gli piaceva nemmeno essere chiamato ‘Don Bartolo’, ma quella usanza sicula gli aveva dato meno fastidio. Era una specie di onorificenza!

In quel momento di disagio che lo frastorna, sente pressante il bisogno di ritornare al Bistrot 36, alla Garbatella, dove andava ogni tanto o con la zia oppure anche da solo, seduto davanti all’antico orologio tondo, che troneggiava sopra un vecchio menù incorniciato, e a lato la lunga fila di bicchieri posti sul ripiano dietro la mescita…

Riprende in mano il telefono.

 “Ehi ciao, Giorgio. Ti ho disturbato? Sono Bartolomeo  eo… eo.. eo…ti ricordi? Sono risalito dal profondo Sud! Come va?”

Il silenzio dall’altra parte non depone favorevolmente e il click del telefono chiuso è raggelante. Giorgio non ha fiatato. Eppure si sentiva che era lì…

Una volta, le motivazioni legate a quei silenzi pesanti erano ‘essenzialmente’ due: o eri un STR tu, oppure lo era la persona che ti stava tenendo sulle spine. Oggi si è aggiunto un altro fattore: il terrore del contatto, quello dell’attacco pandemico, dell’essere un untore in senso stretto o in senso lato, anche soltanto portando qualche pensiero non accreditato!

Ecco uno squillo … un segnale quasi allarmante visto che non ha avvisato nessuno della sua presenza a Roma. Invece è Ernesto che è stato allertato da Cristina!

“Ehilà. Non ci si può proprio liberare di te! Hai finito di pontificare con i tuoi ‘bla…bla’’ filosofici? Cristina diceva che il progetto era la Pizzeria Garbatella. Mi lasci sentire la disponibilità e poi ti richiamo?”

Pur essendosi laureato in Lingue e Letterature Straniere, Ernesto ha scelto di fare il tipografo, come se avesse bisogno di rispondere ad una ricerca di combaciamento: la versatilità delle varie lingue con la versatilità delle varie immagini tipografiche. Infatti la sua produzione è molto ricercata.

Alle 21.15 i due amici si trovano davanti alla Pizzeria. Ovviamente, non ci si può abbracciare, le regole anticovid lo vietano, ma i loro sguardi sono come viticchi che non possono che sciogliersi attraverso dolcissime parole scurrili: il loro codice linguistico!

All’interno della Pizzeria, l’Orologio sta sempre lì… che gliene frega a lui… se le ore passano, i tempi cambiano… mica è affare suo! Questo pensiero lascia correre un brivido lungo la schiena di Bartolomeo.

Le loro ordinazioni sono di routine: d’altronde non è per quello che si sono trovati lì. Tutti e due sembrano sovrastati dai ricordi di un passato ormai ininfluente che però li richiama ma a cui non vogliono lasciarsi andare.

Fa ancora chiaro a Roma a quell’ora, e questa luce particolare sembra gettare un certo movimento sui bicchieri esposti in bella fila davanti al bancone: “Ernesto, guarda!”.

Ernesto si gira e rimane incantato dal gioco di rimandi luci/ombre che l’andare avanti e indietro di Cesira e suo marito creano sullo sfondo a specchio. Poi sembra re-immergersi nella sua esperienza professionale, come se la sua mente incominciasse a viaggiare in territori sconosciuti ai più. Una libertà che, di sponda, attiva reminiscenze anche in Bartolomeo.

E’ il moment del “post prandium”, quando, gambe distese sotto il tavolo, si riassumerebbero le varie esperienze sia culinarie che emotive.

Ma i tempi tecnici, dettati sempre dall’ottemperanza alle regole del Covid, sono invece stretti e pertanto devono lasciare il loro tavolo. E se Ernesto si avvia verso l’uscita, il suo amico sembra bloccato alla sedia, paralizzato da rigurgiti di intolleranza intrecciati ai vissuti personali. La collera, cattiva consigliera, suggerisce a Bart che, se si può soccombere alla durezza dei fatti (la realtà esterna, così come è avvenuto per zia Amalia), non si può, né si deve invece soccombere davanti alla sovversione dei principi e alla loro manipolazione. La suggestione Orwelliana è ben presente dentro di lui. Ed è questo che tenta di spiegare ad Ernesto quando lo raggiunge fuori: questa la ragione per cui è rimasto paralizzato al tavolo, proprio per non esplodere.

Il ‘gherbino’ (ponentino) romano che accompagna i loro passi fuori dalla Pizzeria, pur galvanizzandoli, li tiene distanti. Ognuno incapsulato nei propri pensieri e che il fantasma del contagio, connesso ad un eventuale e desiderabile abbraccio, inibisce ancor di più.

Ernesto sembra, paradossalmente, essere il più inquieto tant’è che inciampa e starebbe per rovinare a terra se non venisse provvidenzialmente sorretto dall’amico.

Gli ‘sconnessi sanpietrini romani!’.

“Ehi, Bart, ti ricordi di Valle Giulia? Dai! Sì che c’eravamo! E’ stato emozionante, no? Ma poi non avevi scritto un articolo in appoggio alla poesia di Pasolini sui poliziotti e ti avevano trattato come si tratta un cane in Chiesa? Sì, forse stava iniziando una trasformazione generazionale e culturale già da allora! Meno male che io non avevo nessuna tessera e così potei prendere liberamente le tue difese! Ma me ne dissero lo stesso…”

“E tu adesso…?” Ma, vista la faccia cupa dell’amico, Ernesto si trattiene dal proseguire: sarebbe stata una domanda rischiosa o quantomeno inutile.

I cieli romani sono sempre imprevedibili e di punto in bianco si ‘sturbano’. Ora pare che si stia preparando un temporale e bisogna correre subito verso un riparo. Per fortuna l’auto di Ernesto non è molto distante e mentre i goccioloni compiono la loro danza di fine maggio, dentro l’abitacolo i due amici sembrano crollare sopraffatti dai loro pensieri.

Il tipografo sa di aver toccato un nervo scoperto di Bartolomeo: a suo tempo quelle situazioni politiche avevano creato forti discussioni tra loro due ma senza incrinarne la amicizia.

Nel silenzio che ingravida quello spazio ristretto, il lampo accecante che investe la vettura ha una potenzialità disvelatrice che Ernesto coglie al volo: gli appare davanti l’acquaforte n. 43 di Francisco Goya (1797) dal titolo “Il sonno della ragione genera mostri”.

Ma poi c’è un altro lampo dentro di lui che, in modo copernicano, rovescia la vulgata di quel titolo. Ovvero, quando la ‘Ragione’ occupa un posto non suo, è “in sonno” – vale a dire che non rispetta la differenza tra i registri del sogno e quelli dominati dai vincoli della logica -, non solo inibisce ogni forma sognante e creativa ma costringe il reale nella tenaglia assolutista del pensiero unico. Allora sì che si scatenano i mostri, non più controllati da niente e da nessuno. Il ‘Sogno’ (ed effettivamente Goya lo chiamò così) della Ragione di poter controllare tutto fa sì che si produca una aberrazione, in quanto viene millantato come reale – solo perché risponde ai canoni della ‘ragionevolezza’- ciò che invece è molto distante dal reale.

“Non ti sembra, Bart, che sia questo ciò a cui stiamo assistendo oggi? La Ragione deificata, timorosa della libertà individuali, ha cercato di omologare i nostri sogni, li ha vincolati al giogo della maggioranza (è la quantità che fa testo, non la qualità), ed è da questa costrizione che poi si scatenano i deliri?” E, a fare da insano contrappunto, la visceralità ostile ad ogni limite, ad ogni regola…libertà, libertà, libertà”

Come non convenirne…

Un altro lampo illumina quell’angusto spazio. La parola “libertà” attiva in Bartolomeo non solo fascinazioni letterarie sopite, ma anche intuizioni filosofiche svelatesi in tempi non sospetti. Preso dalla felicità per queste reminiscenze vorrebbe uscire dall’auto anche se la pioggia continua a cadere a secchiate. Vorrebbe saltare nelle pozzanghere ma… forse è meglio parlare … anche se ciò è più difficile.

Personalmente provava una idiosincrasia verso i ‘luoghi comuni’, queste ‘ostie consacrate dal mainstream che ti danno la benedizione: ‘evvai’ sul sicuro, sei dei nostri! Quanto gli stava sulle scatole la tanto abusata espressione di Martin Luther King: “La mia libertà finisce dove comincia la vostra”. Non perché non avesse un qualche fondamento, ma solo per l’uso spregiudicato che ne veniva fatto!

In quei cortocircuiti mentali che a volte accadono, veniamo infatti travolti dalla fascinosità dell’effetto che si gioca a partire proprio da una banale ovvietà che va a coprire una sostanza, la quale andrebbe invece indagata più in profondità. Vedi, ad esempio, il concetto di libertà (= fautori della “liberté, fraternité, égalité”, ça va sans dire) che, al pari della ‘democrazia’, sembra essere un ‘pass’ per essere accreditati nel Palazzo dei ‘migliori’ dei “saggi”.

Fuori la pioggia continua a picchiare senza sosta e ciò crea uno scenario surreale di tensione tra i ‘rumori’ esterni e quelli che vengono dal travaglio interno dei due amici.

Bartolomeo si decide a parlare: “Ernesto, ti sembrerà assurdo ciò che sto per dirti, ma, ti prego, ascoltami. Durante le vacanze natalizie dell’anno scorso ero tornato su dai miei, a Vicenza. In quei pochi giorni avevo vissuto non solo l’esperienza di essere quell’“Ospite inquietante” (forse anche per le vicende di zia Amalia), come argomentava F. Nietzsche, ma anche di sperimentare “in vivo” quella domanda da lui formulata ne “La Gaia Scienza”: “Che mai facemmo, a sciogliere questa terra dalla catena del suo sole?” (F. Nietzsche, La Gaia scienza, Milano, Adelphi, 1988, par. 125). Già. Che cosa avevamo fatto? Da QUALE ‘sole’ dovevamo distoglierci?

Così, chissà per quali imprevedibili associazioni mentali, mi venne in mente il racconto di F. Kafka “Davanti alla Legge”, la passività che contrassegnava il ‘contadino’ il quale, testardamente, rimaneva lì nell’attesa che finalmente i portoni della Legge si aprissero per lui e senza che lui dovesse fare niente.

Incominciarono a frullarmi idee per la testa in merito ad una visione oggi abbastanza generalizzata e cioè quella di poter accampare dei diritti a fronte di Legge e Libertà. Buttai giù uno schema per le prossime lezioni a scuola in cui avrei messo a confronto le intuizioni del filosofo e del letterato. Poi le restrizioni pandemiche modificarono tutto”.

I finestrini dell’auto erano così appannati che fu necessario aprirli anche a costo di far entrare la pioggia.

E la pioggia cadde dentro, incurante del fatto di bagnare tutto. Ma cadde anche un silenzio inquietante, come se ognuno di loro due avesse toccato qualche cosa di significativo, di importante. Ma nello stesso tempo si fosse giocato anche le sue ultime cartucce: pur nella convinzione della giustezza della battaglia, la battaglia era persa.

Infatti a chi avrebbero potuto raccontare che l’eccessivo razionalismo, o un falso “illuminismo scientista” che ‘costruisce’ una realtà fittizia che risponde solo ai criteri della credibilità ma non ha una visione progettuale, genera alla fine mostri? E che la libertà non è un diritto caduto dal cielo ed è inalienabile, bensì è l’esito non solo di una dolorosa conquista ma anche di una scelta altrettanto impegnativa?

E, soprattutto, che la scelta è sempre individuale? Ed è questa individualità che ci spaventa perché dobbiamo rispondere solo a noi stessi? Non abbiamo ‘supporter’!

Nel Racconto di J. Kafka, il ‘contadino’ insiste nel suo volere stare lì, convinto della giustezza del suo presupposto, perché la sua linea guida è agognare alla conoscenza (e chi lo potrebbe contraddire?), e a quel fine sacrifica tutto, immagina che la Legge debba essere lì per lui e che prima o poi la raggiungerà e molto dipenderà dalla benevolenza del Guardiano al quale affida la sua sorte. Ma Albert Einstein diceva: “Follia è ripetere sempre la stessa cosa aspettandosi risultati diversi”. E invece il ‘contadino’ ripete…ripete… incurante dei cambiamenti che pur è costretto ad osservare.

 Come scuotere le menti appiattite da quella corrente dominante che omologa i cervelli portandoli a pensare che solo nella uniformità e disconoscendo i conflitti legati alle differenze il mondo sarà migliore?

Quanta pazienza, quanta fiducia (e speranza), quanto tempo sarà necessario per far vedere che le bisacce del diavolo non contenevano monete sonanti ma solo foglie secche?

20.08.2021

Per te ho raccolto il mirto, poca la menta

di Rita Simonitto

                                        A Giava

 
Per te ho raccolto il mirto, poca la menta
perché non ti piaceva, ma rosmarino
a mazzi dove con felina goduria smusavi,
a onde le scure strisce sull’oro
del mantello, micro felicità di tigrotta
addomesticata, distolto da me lo sguardo.
E anche adesso,
le pupille che mi tagliano fuori
dai tuoi lidi perduti toccano note
di linguaggi inaccessibili al contrabbando
di malcelate convenzioni.
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Rondini, Osterie e il Rinco. La realtà nei suoi teatri

di Rita Simonitto

Tra le piante del terrazzo rigoglia un Rincospermum, arbusto sempre verde detto anche ‘falso’ Gelsomino. In certe giornate, vedere la sua chioma esuberante che deborda dal vaso già abbastanza capiente mi infastidisce. Allora gli dico: “‘ahò, a Rinco, ma ‘ndo vai?”. Ma nello stesso tempo mi rendo conto che lui figura come un mio punching ball su cui riversare i fastidi che provo verso chi, zitto-zitto, quatto-quatto, si appropria di spazi altrui. Continua la lettura di Rondini, Osterie e il Rinco. La realtà nei suoi teatri

Su le mascherine. Ma giù la maschera dell’ipocrisia

Lettera aperta a Ennio Abate

 di Rita Simonitto

Le  denunce circostanziate e non ideologiche, le analisi puntuali e problematiche, i tentativi di interrogarsi sulle strategie politiche messe in atto per la gestione di una pandemia da Covid, che appare a molti  contraddittoria e a tratti insensata, sono numerose anche sul Web. (Solo alcuni esempi: qui, qui, qui, qui, qui). Questi scritti richiederebbero letture impegnative e gruppi di riflessione che oggi sono quasi inesistenti.  Vengono perciò presto dimenticati o  sono  facilmente sovrastati dal rumore di fondo dei mass media. Questi forniscono esclusivamente valanghe di notizie emotive tese ora a rassicurare ora a impaurire. E sono queste purtroppo che i social riecheggiano o entrano nei discorsi quotidiani. Poliscritture ha pubblicato  vari contributi sul tema della pandemia ma  si fatica – è bene dirlo – a ragionare e a comprendere in profondità  i mutamenti che stanno avvenendo a tutti i livelli esterni e interni alla vita organizzata delle popolazioni. La Lettera aperta di Rita Simonitto è un generoso tentativo di rilanciare una riflessione intermittente. Ricostruisce criticamente la cronaca degli ultimi mesi, denuncia le responsabilità politiche di governo e opposizione, testimonia vivacemente  un disagio che è di molti e la volontà di non rassegnarsi. Ripropone anche, senza farla esplicitamente, la domanda più difficile: cosa si può fare di più e meglio? [E. A.]  Continua la lettura di Su le mascherine. Ma giù la maschera dell’ipocrisia

Aspettare e non venire

di Rita Simonitto

                                    “Aspettare e non venire,  
                                     stare a letto e non dormire,
                                     ben servire e non gradire,
                                     son tre cose da morire.”
 
                     (da La serva padrona – Intermezzo di G.B. Pergolesi)              

La spiaggia, ovvero quel fazzoletto di spiaggia, era incassata tra due propaggini di costa alta che scivolavano giù al mare e la cui vegetazione era variegata,frammista di rocce aguzze, ginestre, lentischi e corbezzoli e, più in alto, a svettare disordinate, piante di orniello dalle tremule foglie.

Ci si arrivava attraverso un accidentato sentiero, ombroso al punto giusto per non far demordere il viaggiatore nel suo tragitto verso la caletta.

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“C’era una volta un Re….”

di Rita Simonitto

Dopo ” Jamaica Rum” (qui) e “Straocio” (qui) questo è il terzo racconto del trittico che Rita Simonitto ha dedicato ai “disagi socio/familiari che si riflettono sui giovani”. [E. A.]

C’era una volta un Re, seduto sul sofà, che disse alla sua serva: raccontami una storia.

La serva incominciò: “C’era una volta un Re, seduto sul sofà, che disse alla sua serva: raccontami una storia…”

“La serva incominciò: “C’era una volta un Re, seduto sul sofà, che disse alla sua serva: raccontami una storia…”.

Chi non ha mai sentito questa filastrocca da bambino! Pur sapendo che si sarebbe ripetuta all’infinito, pur tuttavia si continuava a stare lì, nell’attesa che forse qualche cosa sarebbe cambiato…

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“Straocio”

Franz Xaver Messerschmidt (Wiesensteig6 febbraio 1736 – Presburgo19 agosto 1783)

di Rita Simonitto

I suoi genitori gli avevano dato un nome impegnativo, Benedetto, forse perché lo avevano aspettato a lungo e finalmente questo maschietto era arrivato a riempire la loro vita che, ormai tutta presa da casa e soprattutto lavoro, sentiva il bisogno di un qualche cosa di ‘caldo’, che trasmettesse affetti e buoni sentimenti. E, non ultimo, anche il desiderio di passare in eredità a qualcuno il cospicuo patrimonio di famiglia che negli anni si era accumulato.

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