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Riordinadiario 28 giugno 2002

Prima del Laboratorio Moltinpoesia di Milano.
Lettera a Maurizio Cucchi su moltitudine e poesia

Caro Maurizio,
ti ringrazio per le osservazioni al mio scritto. Vorrei rassicurati circa i timori che mi pare di cogliere in alcuni passaggi  della tua lettera. Gli incontri in preparazione sulla poesia fra i redattori milanesi di INOLTRE  e alcuni poeti (Majorino, tu, Neri, ecc.), proprio perché seminariali e d’approfondimento, dovrebbero evitare le battaglie da pollaio. Lascio da parte la questione del successo letterario, estranea alle mie ambizioni(su questo punto credo di essere, con tutte le conseguenze anche negative, un asceta, un eremita). Invitando voi, che comunque avete pubblicato e conoscete dal di dentro (o più da vicino) i meccanismi di selezione e riconoscimento di editoria e accademia, non ho inteso tendervi una “trappola” per dar sfogo ai latenti (e pur presenti, lo sai bene) mugugni di poeti o scrittori “non ufficiali” contro altri “ufficiali”. Sono convinto, quanto te, della ingenuità di una manichea divisione tra ufficialità e non ufficialità e in quel che scrivo e faccio credo di contrastarla decisamente. Meno convinto, invece, resto sulla inutilità  di una fortiniana verifica dei poteri delle  corporazioni (o, se la parola infastidisce, degli aspetti istituzionali ed organizzativi sui quali la poesia pur poggia; a meno di non vederla come colomba spirituale che volteggia sulle umane miserie e si posa imprevedibile sugli eletti ora in un casolare di montagna ora in un vicolo napoletano ora in un ufficio metropolitano). Riconsiderare gli aspetti “materiali” e “socio-istituzionali” del fare poesia può sembrare oggi superato. Tu giustamente sottolinei alcuni dati che scoraggerebbero un impegno in tal senso: le corporazioni ci sono sempre state, e semmai peggiori [di quelle d’oggi]; chi è dentro ha più o meno lo stesso ascolto di chi è fuori. Vale a dire sostanzialmente nullo; mai la ricerca letteraria che conta ha avuto un vero pubblico; e comunque, malgrado le corporazioni, i poeti veri (Fortini, Penna, Sereni, ecc.) non sono mai stati trascurati. Di mio aggiungerei addirittura altri inconvenienti. Ad esempio, che questo tipo di ricerche potrebbero dar la stura a chiacchiere sui poeti, sulle biografie, sulla dimensione sociologica della poesia a scapito delle questioni più interne (formali, psicologiche, linguistiche, stilistiche, interdisciplinari, tecniche, metriche, di rapporto con il “mondo”, la “realtà”, ecc.). Eppure, malgrado queste nubi incombenti sulla serietà dei miei intenti, credo che serva oggi una riconsiderazione della poesia in grado (se ne fossimo capaci!) di criticare con ponderazione sia la routine  accademico-editoriale, che si è ritagliata prevalentemente [il compito del]la trattazione specialistica – spesso raffinata e ammirevole – degli “interni” della poesia, trascurando boriosamente o stoicamente o cinicamente  le crepe  della sua facciata, il crollo dei cornicioni, ecc.,  sia l’ossessiva e tumultuante ripetizione di arrembaggi inconcludenti da parte di esclusi o rampanti: dotati o meno, scrittori in ombra o scriventi,  bisognosi di  terapie più che di poesia o termometri di un disagio vero non solo esistenziale ma anche del sapere poetico (e, in generale, letterario o artistico o umanistico). 
E proprio per incrociare e far valere alcune delle esigenze che tu pure – mi pare con una certa disperazione – hai presente (quando parli di un qualunquismo e una confusione generale organizzata; o quando sottolinei che chi pur sta dentro se la vede brutta). Perciò, malgrado le obiezioni, la tua lettera mi incoraggia. Sei scettico sull’ esodare e mi poni la questione: come si fa a uscire quando non si è davvero dentro? Quando nessuno ti vuole davvero dentro? Qui censuro la mia molla “utopese” che  si troverebbe forse in attrito (e a mal partito) col  tuo lombardo realismo. Intendendo il termine dentro da te usato non semplicemente  riferito  – che so – ad un’istituzione, ad un  ambito pubblico visibile, mi limito  per il momento a constatare che siamo tutti dentro un affanno  esistenziale e storico che ci impone, appunto, mercato o lamentazione. L’esodo forse deve essere da questi due ghetti: uno oggettivo (terribile!) e l’altro soggettivo (logorante fino alla follia).
Un caro saluto 
Ennio

Riordinadiario 5 maggio 2002

Dopo la lettura di «Nuovi poeti italiani contemporanei» di R. Galaverni, Guaraldi 1996

di Ennio Abate

Il noi usato nel testo si spiega con le speranze di potermi interrogare in quel periodo sulla “questione poesia” non più da solo ma con i collaboratori che si erano raccolti attorno alla redazione milanese della rivista «Inoltre» (1996-2003). [E. A.]

Anche quest’antologia di Galaverni ritaglia una fetta di poeti italiani contemporanei “di qualità” (come fanno, del resto, le altre antologie recentemente uscite). È una scelta forse obbligata dovuta alla frammentazione esasperata della attuale ricerca sia in poesia che nella critica. (E Il problema di confrontare e valutare i criteri di giudizi  sui quali si basano le varie antologie mi pare soltanto accennato ma non affrontato. Così mi pare di capire leggendo Cortellessa  a proposito dell’antologia di Niva Lorenzini, Poesia del Novecento italiano, Carocci editore. Cfr. Alias n. 18,  4 maggio 2002).
In questa di Galaverni prevale  il criterio della vicinanza generazionale fra il critico, che è nato nel 1964, e i poeti da lui selezionati, in prevalenza nati negli anni ’50. Dai suoi richiami alle personalità più affermate delle generazioni poetiche precedenti  – ricorrono soprattutto i nomi di Montale, Luzi, Sereni, Caproni e talvolta Fortini – colgo (indirettamente) le sue preferenze. Nell’introduzione Galaverni si dichiara per una poesia «alta» e «nobile». Che, dopo l’esaurimento dell’azione (per lui) chiassosa e superficialmente dirompente dello «sperimentalismo espressivo», cioè della neoavanguardia, sarebbe cominciata «sullo scorcio degli anni Settanta – penso con l’antologia de La parola innamorata di Pontiggia e di Mauro – per affermarsi negli anni Ottanta  soprattutto con Giuseppe Conte e l’esperienza della rivista Niebo (1977-1980), che avrebbero riaffermato con forza il principio della «verticalità» della poesia contestato dagli sperimentatori. Non a caso, perciò, Galaverni sceglie il 1980 «come più opportuno anno d’inizio per una possibile antologizzazione». Perché in quell’anno vennero pubblicati «tre libri di particolare significato» (di Benzoni, D’Elia e Magrelli, ai quali aggiunge Mussapi, Ceni e Pagnanelli) per la loro «novità tonale ed emotiva» ed il «carattere propriamente augurale, di auspicio».
Le preferenze di Galaverni si orientano su tre filoni:
–  verso la poesia dove c’è «alleggerimento del controllo razionale» e «fiducia totale nella verità delle insorgenze sentimentali»; cioè verso una poesia che, sulla spinta di un’inquietudine religiosa, esprime un «sentimento sacrale della parola poetica» (Mussapi,  Ceni, Rondoni, Scarabicchi);
– verso la poesia descrittiva e classicista (Magrelli, Albinati, Pusterla (in parte), Fiori, Gibellini, Riccardi);
–  verso la poesia «altamente letteraria» e manieristica (D’Elia in quartine; Valduga petrarchista e barocca e dantesca; Anedda, che  rende le parole «diamantine»).
Le sue scelte sono coerenti e omogenee. (Dubito solo per la collocazione di Pusterla, proprio per quel «radicamento in uno spazio storico» della sua poesia che Galaverni gli riconosce).

La lettura di quest’antologia mi fa capire come le cose erano o sono vissute da un critico che considero sull’altra sponda. Sia in senso generazionale (cioè dei più giovani di me) sia in senso culturale. Galaverni, infatti, è guidato da un’idea di poesia autonoma, separata dal resto; e cioè proprio la storia, la politica, il sociale, i linguaggi non letterari e massmediali, che io non riesco affatto a considerare resto. Non vedo la novità di questi «poeti nuovi…in cui ancora si rinnova il volto più antico della poesia». Li sento, anzi, dei restauratori: gente che s’è adattata alla rimozione del lavoro (non solo poetico, ma storico, politico e sociale) della generazione precedente che aveva voluto collegare poesia e realtà, poesia e storia, poesia e vita sociale. Certo, questi poeti hanno dovuto ricominciare da capo, hanno dovuto fronteggiare la «disillusione storica e politica» del post ‘68 (pag. 15), ma tutti abbiamo dovuto farlo. Non mi attira, dunque, il loro «rifiuto di ogni sperimentalismo espressivo» (pag. 16); l’atteggiamento «postumo» (riferito a Benzoni, a D’Elia, a Pusterla, ma anche ad altri); la loro «ipotesi di una nuova etica comunicativa del discorso poetico, da definirsi proprio a cominciare da un sentimento di rottura nei confronti dei presupposti e delle componenti di una tradizione non soltanto letteraria ma culturale» (pag. 18); la loro «fiducia assoluta nel linguaggio della poesia» (pag. 47) o – addirittura –  nel «senso assoluto e sacrale della parola poetica» (pag. 127); la ricerca, che mi sembra retorica, di padri spirituali (pag. 58); la volontà di «controllo definitivo sul mondo esterno e le proprie emozioni» (pag. 64); l’accettazione quasi soddisfatta (o rassegnata) che «si parla solamente del parlare» (pag. 65) o del parlare per «enigmi continui» (pag, 73), parole riferite a Giampiero Neri, come se i suoi «enigmi» non potessero essere interrogati alla luce della storia; l’adesione all’idea della «poesia come rituale» desunta dal modello petrarchesco (pag.158); la facilità con cui essi convalidano – dopo Freud! – il candore da fanciullino pascoliano  e sabiano tutto raccolto dentro un «suo piccolo mondo poetico» (pag. 243), eccetera.

[E se confrontassimo il discorso  di Galaverni sulla poesia con quelli di carattere storico-politico sui medesimi anni che lui ripercorre? Forse si coglierebbe meglio qual è il “contenuto” di queste “novità”. Ma Galaverni non tocca questi problemi; e –  spesso in modo abbastanza piatto, specie nel caso di Villalta ma anche di Magrelli, ad es.) – si accontenta di seguire fedelmente l’ideologia poetica dei poeti che ha selezionato]

Non dobbiamo, comunque, vergognarci dei contenuti imbevuti di politica (o di filosofia politica) della nostra poesia; e neppure di quelli esistenziali  legati ad una nostra condizione periferica e, di certo, meno “piccolo borghese” di quella dei poeti italiani.

  • L’immagine di copertina è tratta da: https://neutopiablog.org/2017/02/07/una-situazione-della-poesia-contemporanea-italiana/