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Riordinadiario 5 maggio 2002

Dopo la lettura di «Nuovi poeti italiani contemporanei» di R. Galaverni, Guaraldi 1996

di Ennio Abate

Il noi usato nel testo si spiega con le speranze di potermi interrogare in quel periodo sulla “questione poesia” non più da solo ma con i collaboratori che si erano raccolti attorno alla redazione milanese della rivista «Inoltre» (1996-2003). [E. A.]

Anche quest’antologia di Galaverni ritaglia una fetta di poeti italiani contemporanei “di qualità” (come fanno, del resto, le altre antologie recentemente uscite). È una scelta forse obbligata dovuta alla frammentazione esasperata della attuale ricerca sia in poesia che nella critica. (E Il problema di confrontare e valutare i criteri di giudizi  sui quali si basano le varie antologie mi pare soltanto accennato ma non affrontato. Così mi pare di capire leggendo Cortellessa  a proposito dell’antologia di Niva Lorenzini, Poesia del Novecento italiano, Carocci editore. Cfr. Alias n. 18,  4 maggio 2002).
In questa di Galaverni prevale  il criterio della vicinanza generazionale fra il critico, che è nato nel 1964, e i poeti da lui selezionati, in prevalenza nati negli anni ’50. Dai suoi richiami alle personalità più affermate delle generazioni poetiche precedenti  – ricorrono soprattutto i nomi di Montale, Luzi, Sereni, Caproni e talvolta Fortini – colgo (indirettamente) le sue preferenze. Nell’introduzione Galaverni si dichiara per una poesia «alta» e «nobile». Che, dopo l’esaurimento dell’azione (per lui) chiassosa e superficialmente dirompente dello «sperimentalismo espressivo», cioè della neoavanguardia, sarebbe cominciata «sullo scorcio degli anni Settanta – penso con l’antologia de La parola innamorata di Pontiggia e di Mauro – per affermarsi negli anni Ottanta  soprattutto con Giuseppe Conte e l’esperienza della rivista Niebo (1977-1980), che avrebbero riaffermato con forza il principio della «verticalità» della poesia contestato dagli sperimentatori. Non a caso, perciò, Galaverni sceglie il 1980 «come più opportuno anno d’inizio per una possibile antologizzazione». Perché in quell’anno vennero pubblicati «tre libri di particolare significato» (di Benzoni, D’Elia e Magrelli, ai quali aggiunge Mussapi, Ceni e Pagnanelli) per la loro «novità tonale ed emotiva» ed il «carattere propriamente augurale, di auspicio».
Le preferenze di Galaverni si orientano su tre filoni:
–  verso la poesia dove c’è «alleggerimento del controllo razionale» e «fiducia totale nella verità delle insorgenze sentimentali»; cioè verso una poesia che, sulla spinta di un’inquietudine religiosa, esprime un «sentimento sacrale della parola poetica» (Mussapi,  Ceni, Rondoni, Scarabicchi);
– verso la poesia descrittiva e classicista (Magrelli, Albinati, Pusterla (in parte), Fiori, Gibellini, Riccardi);
–  verso la poesia «altamente letteraria» e manieristica (D’Elia in quartine; Valduga petrarchista e barocca e dantesca; Anedda, che  rende le parole «diamantine»).
Le sue scelte sono coerenti e omogenee. (Dubito solo per la collocazione di Pusterla, proprio per quel «radicamento in uno spazio storico» della sua poesia che Galaverni gli riconosce).

La lettura di quest’antologia mi fa capire come le cose erano o sono vissute da un critico che considero sull’altra sponda. Sia in senso generazionale (cioè dei più giovani di me) sia in senso culturale. Galaverni, infatti, è guidato da un’idea di poesia autonoma, separata dal resto; e cioè proprio la storia, la politica, il sociale, i linguaggi non letterari e massmediali, che io non riesco affatto a considerare resto. Non vedo la novità di questi «poeti nuovi…in cui ancora si rinnova il volto più antico della poesia». Li sento, anzi, dei restauratori: gente che s’è adattata alla rimozione del lavoro (non solo poetico, ma storico, politico e sociale) della generazione precedente che aveva voluto collegare poesia e realtà, poesia e storia, poesia e vita sociale. Certo, questi poeti hanno dovuto ricominciare da capo, hanno dovuto fronteggiare la «disillusione storica e politica» del post ‘68 (pag. 15), ma tutti abbiamo dovuto farlo. Non mi attira, dunque, il loro «rifiuto di ogni sperimentalismo espressivo» (pag. 16); l’atteggiamento «postumo» (riferito a Benzoni, a D’Elia, a Pusterla, ma anche ad altri); la loro «ipotesi di una nuova etica comunicativa del discorso poetico, da definirsi proprio a cominciare da un sentimento di rottura nei confronti dei presupposti e delle componenti di una tradizione non soltanto letteraria ma culturale» (pag. 18); la loro «fiducia assoluta nel linguaggio della poesia» (pag. 47) o – addirittura –  nel «senso assoluto e sacrale della parola poetica» (pag. 127); la ricerca, che mi sembra retorica, di padri spirituali (pag. 58); la volontà di «controllo definitivo sul mondo esterno e le proprie emozioni» (pag. 64); l’accettazione quasi soddisfatta (o rassegnata) che «si parla solamente del parlare» (pag. 65) o del parlare per «enigmi continui» (pag, 73), parole riferite a Giampiero Neri, come se i suoi «enigmi» non potessero essere interrogati alla luce della storia; l’adesione all’idea della «poesia come rituale» desunta dal modello petrarchesco (pag.158); la facilità con cui essi convalidano – dopo Freud! – il candore da fanciullino pascoliano  e sabiano tutto raccolto dentro un «suo piccolo mondo poetico» (pag. 243), eccetera.

[E se confrontassimo il discorso  di Galaverni sulla poesia con quelli di carattere storico-politico sui medesimi anni che lui ripercorre? Forse si coglierebbe meglio qual è il “contenuto” di queste “novità”. Ma Galaverni non tocca questi problemi; e –  spesso in modo abbastanza piatto, specie nel caso di Villalta ma anche di Magrelli, ad es.) – si accontenta di seguire fedelmente l’ideologia poetica dei poeti che ha selezionato]

Non dobbiamo, comunque, vergognarci dei contenuti imbevuti di politica (o di filosofia politica) della nostra poesia; e neppure di quelli esistenziali  legati ad una nostra condizione periferica e, di certo, meno “piccolo borghese” di quella dei poeti italiani.

  • L’immagine di copertina è tratta da: https://neutopiablog.org/2017/02/07/una-situazione-della-poesia-contemporanea-italiana/

Nove senza Novecento

 MORO PER ALDO NOVE

Note su «Addio mio Novecento»[1] di Ennio Abate

Per i possibili collegamenti tra la mia critica del libro di poesia di Aldo Nove e gli spunti di discussioni offerti da “L’uomo in ansia” (qui) anticipo la pubblicazione di queste note che usciranno sul prossimo numero di giugno della rivista IL SEGNALE [E.A.]

1. Importante è esaminare con attenzione l’indice dei titoli. Il sintagma ‘Addio mio Novecento’,  oltre ad essere titolo della raccolta e della sua prima sezione, torna otto volte nel libretto. Ma anche alcuni titoli delle poesie sono ripetuti: ‘Il tempo’ sei volte; ‘Mito’ tre volte; ‘Lo spazio’ quattro (cinque se conteggiamo anche ‘ Lo spazio spiegato’); ‘Poesia’ tre volte. Sul piano formale la ripetizione pare la figura dominante della raccolta, che presenta in genere versi di varia lunghezza, suddivisi in strofe anch’esse variate con una certa libertà. (C’è un sonetto isolato: «Ferita eterna aperta» a pag. 66. Continua la lettura di Nove senza Novecento