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Contro l’invenzione

Prontuario tascabile di letteratura francese (3)

di Elena Grammann

LETTERA B

Breton, André

Recentemente, a proposito del romanzo di Maylis de Kerangal Riparare i viventi (qui), dicevo che in esso “l’ambito dell’emotività, con relativi personaggi, è ambito di invenzione”. Ora, l’attributo “di invenzione”, se si applica a romanzi scritti negli ultimi centoventi, centotrent’anni e, come questo, più o meno ingenuamente realistici, fatica a liberarsi da una connotazione negativa o quantomeno dubbia. Da una parte, all’invenzione – alla favola – aderisce da sempre qualcosa dell’infanzia, del gioco, del divertimento. Non è una cosa seria. Malvista dalla religione, è permessa solo quando sia edificante. La si direbbe una cosa per spiriti oziosi o per donne; al limite, per queste ultime, da consumare di nascosto[1]. Ma soprattutto inventare, la grande prerogativa dei poeti (poi nella categoria si comprenderà anche la prosa), diventa fra Otto e Novecento una faccenda delle più spinose. Il presunto “inventore” si trova nella necessità di rinunciare all’invenzione di un mondo esterno e di ritirarsi nell’unico ambito che gli offra qualche sicurezza, un minimo di cognizione di causa: l’osservazione del proprio sé e dell’esterno attraverso il sé. Se infatti l’arte, e dunque la letteratura, ha a che fare con la verità, con che coscienza lo scrittore “inventerà” dei personaggi distinti da sé, li provvederà di determinate qualità fisiche e psichiche, li farà muovere in questa o in quella direzione? Se lo facesse abbandonerebbe il dominio della verità e della necessità e finirebbe in quello del falso e dell’arbitrario.

André Breton (1896-1966), il caposcuola del surrealismo, è particolarmente sensibile all’indifferenza, alla falsità e all’arbitrio, che sono le caratteristiche generali della realtà apparente, cioè la realtà come siamo stati addestrati a percepirla dai nostri educatori: genitori, preti, insegnanti. Tutto deve essere invece ricolmo di senso e la realtà autentica – la surrealtà –, a saperla indagare, è precisamente dispensatrice di senso: a ciascuno il suo, speciale e particolare[2]. Tanto speciale e particolare da non poter essere legato a nulla di generico, di sovraindividuale, di astratto; a nulla che non abbia la sua scaturigine nel qui ed ora[3]; tanto speciale e particolare che il “senso”, così compreso, è tutt’uno con l’identità vera e unica di ciascuno.

Naturalmente, dispensatrice di senso la surrealtà può esserlo perché è l’ultimo avatar della “ténébreuse et profonde unité, / vaste comme la nuit et comme la clarté”, che ci guarda “avec des regards familiers” e si prende cura di noi; l’ultimo avatar dell’Uno mistico dei neoplatonici e dei romantici. Il merito di Breton è aver legato l’Uno non a una specie – la specie umana – , e nemmeno a una classe, ma a ogni singolo individuo in quanto singolo, con la sua speciale epifania e la sua speciale salvezza, qui ed ora. Il surrealismo di Breton infatti non si concepisce tanto come movimento letterario o artistico, quanto come una vera e propria rivoluzione che riguarda in primo luogo l’esistenza. Purtroppo, dal momento che questa rivoluzione deve incominciare dalle abitudini percettive e di pensiero del singolo, e solo in seguito – e non si sa bene come – riguardare le strutture della società, si capisce che, come rivoluzione, abbia le gambe corte. E tuttavia ha esercitato un’influenza duratura e profonda sulla letteratura e sull’arte di tutto il secolo e oltre. Ha contribuito in modo decisivo a togliere la terra sotto i piedi al realismo, a relegarlo in un ambito di dubbio – cosa stiamo facendo? facciamo sul serio o stiamo giocando a fare finta che? –, a spruzzare un po’ di sano scetticismo intorno a certe manovre percepite sempre più come vuote e arbitrarie: inventare una trama, uno scenario, delineare dei personaggi – il camper des personnages di zoliana memoria! –, insomma a mettere in crisi, soprattutto, la narrazione realista.

Il carattere circostanziale, inutilmente particolare, di ognuna delle loro [dei romanzieri realisti] notazioni, mi fa pensare che si divertano alle mie spalle. Non mi fanno grazia della minima esitazione del personaggio: sarà biondo, come si chiamerà, l’incontreremo per la prima volta d’estate? Tutte questioni risolte una volta per tutte, a casaccio.(Manifesto del surrealismo, 1924)

Dei romanzieri ottocenteschi, Breton salva Huysmans – non però lo Huysmans “a tesi” di À rebours, bensì quello, intimista, di En rade e Là-bas:

Quanto gli sono grato di informarmi, senza preoccuparsi di produrre un effetto, di tutto ciò che lo riguarda, di ciò che lo occupa, nelle sue ore di più nero sconforto, di esterno al suo sconforto, di non fare come troppi poeti, che “cantano” assurdamente la loro disperazione, ma di elencarmi pazientemente, nell’ombra, le minime ragioni del tutto involontarie che si trova ancora per essere, e  non sa nemmeno bene per chi, colui che parla! Anch’egli è investito da una di quelle continue sollecitazioni che sembrano venire dall’esterno, e ci immobilizzano qualche secondo davanti a una disposizione fortuita delle cose, di carattere più o meno nuovo, di cui ci sembra che, a esaminarci bene, troveremmo in noi il segreto. Come lo separo, nemmeno bisogno di dirlo, da tutti i praticoni del romanzo che hanno la pretesa di mettere in scena dei personaggi distinti da loro stessi e li delineano fisicamente, moralmente, a modo loro, per i bisogni di quale causa preferiamo non sapere. Di un personaggio reale, del quale credono di avere una qualche idea, fanno due personaggi della loro storia; di due, senza maggior imbarazzo, ne fanno uno. E stiamo qui a discutere! Qualcuno suggeriva a un autore di mia conoscenza, a proposito di una sua opera che stava per uscire e la cui protagonista poteva facilmente essere riconosciuta, di cambiarle almeno il colore dei capelli. L’avesse fatta bionda, sarebbe stato meno probabile, pareva, che smascherasse una donna bruna. Ebbene, io questo non lo trovo infantile, lo trovo scandaloso. (Nadja, 1928)

‘Scandaloso’ non fa riferimento all’ambito estetico bensì a quello morale. Scandalosa, quindi immorale, è per Breton l’invenzione romanzesca nella misura in cui ripete, elevandolo al quadrato, il gesto dispotico e arbitrario con cui la tradizione (genitori, preti, insegnanti – e relative istituzioni) istituisce, appunto, la realtà apparente: falsa e bugiarda[4]. E questo non nel senso che la narrazione realista necessariamente ne riproponga i valori, ma proprio come gesto di base che oggettivizza, scompone, soppesa, valuta, misura, falsifica; che dell’Uno mistico fa il molteplice asservito all’uso e all’utile – mercantile, commerciale; il gesto, dicevamo, che dispone, mentre l’atteggiamento corretto è l’essere disposti: l’apertura, la diponibilità a recuperare un modo percettivo originario – storpiato e forse annientato a cura dei dresseurs. E poiché è copia di un falso, la narrazione realista sarà doppiamente falsa.

Naturalmente, lo slancio con cui Breton butta a mare il romanzo realista dell’Ottocento è lo slancio radicale e eccessivo dell’avanguardia; tuttavia, se dopo aver letto qualcosa di suo, ad esempio il Manifesto del surrealismo o Nadja, si legge o soltanto si ripensa a uno di quei romanzi contemporanei come ce ne sono tanti, che partono da un’ovvietà anche solo fisica del mondo, un romanzo i cui personaggi si muovono e si comportano come siamo abituati a muoverci e a comportarci, e poi c’è una storia, magari rispettabilissima – se li si legge o ci si ripensa dopo aver letto Breton, li si vede diversamente.

Per tutto il Novecento – e non fu solo effetto del surrealismo, tutto concorreva a quel risultato – la narrazione prese strade opposte al realismo: in direzione del fantastico, che mette fra parentesi la realtà e le sue condizioni di producibilità; ma anche di una ridefinizione dei processi percettivi, delle narrazioni di narrazioni, dei trascendentali della narrabilità o, unico racconto “in presa diretta”, del racconto di se stessi: l’autofiction. Anche al livello minimo, c’era comunque un effetto di rifrazione che indicava l’incertezza, la problematicità dell’operazione che si stava effettuando. Erano opere spesso bellissime ma anche difficili, insolite, richiedevano concentrazione. Verso la fine del secolo il pubblico si stancò. Chiese di nuovo delle storie “semplici”: storie di primo grado; i lettori volevano essere implicati in una finzione, volevano di nuovo la favola – preferibilmente impegnata, termine che sostituì il vecchio ‘edificante’ – così da mettersi a posto la coscienza. Della solidità del palcoscenico non gliene fregava niente; non ci badavano neanche, guardavano le figure. Di conseguenza gli editor delle case editrici sollecitarono i giovani scrittori e le giovani scrittrici a produrre storie impegnate che raccontassero “questo nostro tempo”[5] e contribuissero a migliorarlo secondo valori prestabiliti e condivisi. E i giovani scrittori e le giovani scrittrici si misero d’impegno a inventarle.

Ma non vorrei passare per una nostalgica, non sono certo qua a chiedere un’eternizzazione del Novecento. Né vorrei dare l’impressione di criticare. Se il pubblico vuole questo, il pubblico vuole questo. Se la moda è questa, la moda è questa. Da un certo punto di vista, il pubblico e la moda sono come il cliente: hanno sempre ragione. Può ben darsi che il romanzo come ricerca e rappresentazione disinteressata[6] di una verità non abbia più ragione di esistere: non sarà certo una tragedia. Come dice qualcuno, le storie ci saranno sempre. E fra un po’ nessuno si accorgerà più di niente.

 

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[1] La Prefazione di Rousseau alla Nuova Eloisa (1761) contiene sia l’idea che il romanzo è adatto alle donne, che l’avvertimento circa il pericolo di corruzione: “Questa raccolta [scil. di lettere: la Nuova Eloisa è un romanzo epistolare], col suo tono gotico, è più adatta alle donne dei libri di filosofia. Può perfino essere utile a quelle che, in una vita sregolata, hanno conservato un po’ d’amore per l’onestà. Quanto alle fanciulle, è un altro paio di maniche. Mai fanciulla casta lesse romanzi; e ho messo a questo un titolo abbastanza chiaro perché, aprendolo, si sapesse cosa aspettarsi. Colei che, malgrado il titolo, oserà leggerne una sola pagina è una fanciulla perduta: ma che non imputi la sua rovina a questo libro; il male era già fatto prima. Dal momento che ha cominciato, finisca pure di leggere: non ha più niente da perdere.” (Con l’ultima osservazione si intende che, poiché l’ipotetica fanciulla era già così corrotta da cominciare a leggere malgrado il titolo, il prosieguo della lettura non aggiungerà nulla alla corruzione preesistente). Gli fa eco, nel 1777, Pietro Verri, che nei Ricordi a mia figlia Teresa approva per la figlia la lettura di “tutte le Commedie e tutte le Tragedie possibili”, ma sui romanzi fa un distinguo: “Anche i Romanzi scritti con decenza e con grazia gli approvo, escludo soltanto i troppo libertini i quali se avete l’anima delicata vi stomacano e se disgraziatamente l’aveste poco ferma vi prostituiscono alla dissolutezza.” Fra i quali romanzi “troppo libertini” il fratello Alessandro annovera precisamente La Nuova Eloisa. (Cfr. Salvatore Silvano Nigro, La tabacchiera di don Lisander, Einaudi 1996, p.13s, da cui è presa anche la citazione). Ancora un secolo più tardi, sia Balzac (Le Curé de village, 1841) che Flaubert in Madame Bovary legano, più o meno esplicitamente, il destino tragico delle eroine a certe letture romanzesche fatte durante l’adolescenza. (E, si parva licet, nel 1972 o ’73, un prete a cui avevo esposto alcune perplessità subodorò la deriva estetica e mi disse che leggevo troppi romanzi).

[2] Si pensi, per brevità, al sogno.

[3] Ė l’illuminazione dell’istante: l’istante epifanico che caratterizza la prima metà del secolo e si ritrova in autori e movimenti apparentemente lontani fra loro come il surrealismo, Proust, Joyce, Woolf, Musil.

[4] La mia esperienza scolastica dell’obbligo è stata un po’ diversa da quella di Donato Salzarulo. Tuttavia, scrivendo queste cose di Breton, non posso fare a meno di pensare al suo racconto, e anche, comunque, ai miei anni di scuola.

[5] Che è precisamente quello che deve fare la letteratura. Ma non come pensano loro.

[6] “disinteressata” andrebbe precisato. Non possiamo farlo qui.

La liquidazione del timor di Dio

Prontuario tascabile di letteratura francese (2)

di Elena Grammann

LETTERA R

Rousseau, Jean-Jacques

Le Confessioni di Rousseau sono un’opera di cui si può soltanto consigliare la lettura. Difficile immaginare qualcosa di più onesto nelle intenzioni, di più disonesto nella realizzazione e, come risultato di questi due vettori, di più “giusto” e affascinante[1]. Idealmente Le Confessioni, più ancora della Nuova Eloisa, spalancano le porte al romanticismo e all’età contemporanea; ma poiché sono scritte in francese da un autore di lingua francese, mantengono con l’empiria e con l’esposizione circonstanziata dei fatti un legame che l’autentico romanticismo certificato tedesco[2] non ha, non può e non vuole avere. Da un punto di vista didattico, inoltre, sono estremamente pratiche, perché in nemmeno venti righe dell’incipit condensano e esemplificano il passaggio d’epoca. Vediamo queste righe:

  1. Ho concepito un'impresa senza precedenti e la cui esecuzione non troverà imitatori. Intendo mostrare ai miei simili un uomo in tutta la verità della natura; e quest'uomo sarò io. 
  2.  Io solo. Sento il mio cuore e conosco gli uomini. Non sono fatto come nessuno di quelli che ho visto; oso credere di non essere fatto come nessuno di quanti esistono. Se pure non valgo di più, quanto meno sono diverso. Se la natura abbia fatto bene o male a spezzare lo stampo nel quale mi ha formato, si potrà giudicare soltanto dopo avermi letto. 
  3.  Che la tromba del giudizio finale suoni quando vorrà: Mi presenterò al giudice supremo con questo libro fra le mani. Dirò fermamente: «Qui è ciò che ho fatto, ciò che ho pensato, ciò che sono stato. Ho detto il bene e il male con identica franchezza. Nulla ho taciuto di cattivo e nulla ho aggiunto di buono, e se mi è occorso di usare, qua e là, qualche trascurabile ornamento, l'ho fatto esclusivamente per colmare i vuoti della mia debole memoria; ho potuto supporre vero quanto sapevo che avrebbe potuto esserlo, mai ciò che sapevo falso. Mi sono mostrato così come fui, spregevole e vile, quando lo sono stato, buono, generoso, sublime quando lo sono stato: ho disvelato il mio intimo così come tu stesso l'hai visto. Essere eterno, raduna intorno a me la folla innumerevole dei miei simili; ascoltino le mie confessioni, piangano sulle mie indegnità, arrossiscano delle mie miserie. Scopra ciascuno di essi a sua volta, con la stessa sincerità, il suo cuore ai piedi del tuo trono; e poi che uno solo osi dirti: «Io fui migliore di quell'uomo.»

Esaminiamo la testa e la coda: dapprima viene stabilita l’unicità di Jean-Jacques. Ma poiché l’intenzione di Rousseau non può essere di affermare che Jean-Jacques è un alieno, l’unicità deve essere, in linea di principio, prerogativa di tutti gli individui. Si dirà: che nessun individuo è uguale a un altro è cosa che si sapeva. Certo, ma prima di Rousseau (e del romanticismo) non si sottolineava l’unicità individuale, bensì l’appartenenza a un gruppo: dal più vasto – l’intera umanità contrapposta al suo Creatore – ad altri più ristretti, ad esempio una classe sociale con determinati obblighi, prerogative e funzioni. E parimenti dopo Rousseau, mentre il romanticismo diventa sempre più marginale e malvisto, anche l’individuo in quanto portatore di unicità scivola al margine: un originale appena tollerato, un artista, magari uno scrittore – mentre l’individuo provvisto di senso e significato è di nuovo quello inserito in un gruppo che si profila ormai come una classe in conflitto insanabile con un’altra – conflitto necessario e talmente insanabile che l’identità del singolo non è nemmeno pensabile come indipendente dalle o non totalmente compresa nelle coordinate della classe di appartenenza. La quale classe di appartenenza, qualora sia la classe dominante, fa in modo – viene detto – di plasmare lo Stato a propria immagine; sicché, dall’altra parte, l’unicità dell’individuo assume la forma obbligata, stereotipa e tutta uguale della resistenza allo Stato.

Già nella prima parte del testo Rousseau aveva chiarito che per Jean-Jacques essere unico non significa essere migliore degli altri, e in effetti si accenna poi al male eventualmente fatto, a miserie e indegnità[3]. Ma in chiusura assistiamo a un ribaltamento: l’ammissione (generica) di colpa, il riconoscimento di non essere migliore di un altro si capovolge nella sfida – rivolta a chiunque – ad affermare di essere migliore di lui. Se accostiamo il testo alla parabola del fariseo e del pubblicano (Lc 18, 9-14) noteremo che, benché non affermi apertamente una sua qualità “migliore”, nell’atteggiamento e nella postura Jean-Jacques assomiglia molto di più al fariseo che al pubblicano.

Ma il vero centro dell’argomentazione è il libro. Il libro che Rousseau si accinge a scrivere; e suoni quando vuole la tromba del Giudizio, egli non la teme poiché potrà presentarsi al sommo giudice munito di quel libro. Non come memoria difensiva, si badi, ma proprio in sostituzione dello sguardo giudicante (“ho disvelato il mio intimo così come tu stesso l’hai visto”). Come titolo per questo articolo avevo pensato, infatti, a “Liber scriptus”; poi ho preferito l’altro perché va subito al punto. Ma è chiaro che, da tuba mirum spargens sonum a liber scriptus proferetur, la scena di giudizio evocata da Rousseau ne richiama un’altra, classica, e ne capovolge le prospettive.

Dicevo prima della fruibilità didattica del brano. Arrivata a questo punto, di solito andavo alla lavagna e scrivevo la strofetta seguente:

Liber scriptus proferetur,
In quo totum continetur,
Unde mundus iudicetur

(sollievo di scrivere qualcosa in latino, un terreno solido sotto i piedi) e facevo notare come, ormai, il libro fosse passato di mano: mentre nella visione classica chi “apre il libro” è Dio, nella scena prospettata da Rousseau, paradossalmente, è lo iudicandus stesso che presenta il libro, redatto da lui medesimo, in base al quale chiede/propone/impone di essere giudicato. Coerentemente scompare ogni futuro tremor relativamente al tempo quando judex est venturus, / cuncta stricte discussurus; cancellato ogni terrore e tremore, evaporato il timor di Dio. Come si dice: non c’è più religione. Io cancellavo la strofetta e ne scrivevo un’altra:

Quod sum miser tum dicturus,
Quem patronum rogaturus,
Cum vix iustus sit securus ?

e invitavo la classe, che una perplessa curiosità, o al più tardi il Dies irae di Verdi, aveva destato dallo stato comatoso, a paragonare il “miser” con Jean-Jacques: forse che quest’ultimo è in imbarazzo su cosa dire? per caso gli mancano le parole? ha bisogno di un difensore? No. Ma andiamo più in là: si confronta, idealmente, con un “iustus”? Nemmeno, poiché, per quanto egli non definisca se stesso “giusto”, nessuno è comunque più giusto di lui.

I ragazzi fissano la lavagna, copiano i versi sul quaderno degli appunti, chiedono delucidazioni sul gerundivo o sulla perifrastica attiva. Qualcosa intravedono. Ma dalla loro propria prassi autogiustificatoria scolastica sono troppo abituati alle balle spaziali che venti secondi dopo essere state proferite diventano verità incrollabili, per apprezzare appieno la portata del cambiamento. Rousseau ha lavorato bene.

 

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[1] Le radici (ben visibili nell’opera) del dissidio fra onestà dell’intenzione e inevitabile disonestà nella realizzazione non devono nemmeno essere cercate molto lontano. Si tratta del conflitto fra una radicale fedeltà a se stessi, e la pretesa che questa radicale fedeltà coincida naturalmente e senza sforzo alcuno (che sarebbe di per sé già un’infedeltà) con il tutto sommato tradizionale bonum. Da questo punto di vista Sade è più onesto; meno didattico però – e assai monotono.

[2] Peraltro il mio preferito.

[3] Ma termini come ‘miserie’ e ‘indegnità’ sembrano fare riferimento più all’aspetto della valutazione sociale che all’ambito propriamente morale.

Contro lo snobismo di massa


NEI DINTORNI DI FRANCO FORTINI 1989

Nel 1989 esisteva a Cologno Monzese l’associazione culturale ipsilon e invitammo Franco Fortini, uno scrittore che per tutta la vita si è occupato di cultura. Tenne una conferenza in Villa Casati che registrammo e pubblicammo in LABORATORIO SAMIZDAT, IV, n. 7, novembre 1989, col titolo da lui scelto: “Contro lo snobismo di massa”. Il testo è stato antologizzato anche in “Franco Fortini, Un dialogo ininterrotto. Interviste 1952-1994” a cura di Velio Abati, Bollati Boringhieri, Torino 2003. [E. A.]

Si parla molto di cultura di massa, quella che si presenta attra­verso i cosiddetti mass-media. Non stiamo a discutere stasera sul significato delculturla parola «cultura». Sarebbe però interessante notare che cosa è accaduto nell’uso, nell’accezione comune di questo ter­mine. Per esempio, una volta – mi riferisco a molti anni fa – la parola «cultura» aveva un significato che conserva ancora ma solo per certe ricerche di tipo sociologico o antropologico. Esso indi­cava il complesso delle forme con le quali gli uomini producono.

Questa nozione di cultura aveva a che fare certamente con la tra­dizione marxista, anche se non coincideva necessariamente e del tutto con essa. È una nozione che abbiamo usato normalmente, così come si parlava della cultura di determinati popoli o della cul­tura della filosofia tedesca o dell’Illuminismo. O si parlava della cultura del metalmeccanico, intendendo alcuni specifici sistemi, modi, forme, entro i quali costui lavorava e, in definitiva, viveva. Oggi noi vediamo che, mentre questo significato continua ad essere usato a livello della ricerca e delle specialità, nell’ accezione corrente – quella che ci viene trasmessa dalla stampa, dai giornali e dalla televisione – cultura sta ad indicare soltanto un certo settore della comunicazione e delle forme, che ha a che fare soprattutto con le ar­ti e con la letteratura. Nel gergo delle emittenti televisive un pro­gramma «culturale» è un programma dove, invece di avere i balletti oppure un concorso a premi, si parla di letteratura o si discorre sul­l’ultima grande esposizione di pittura fiamminga a Parigi o a Roma.

D’altra parte non è che possiamo inventare in questo momento per nostro uso una definizione migliore. Non è questo il punto. E semplicemente necessario tener presente questa forma di impove­rimento della nostra cultura e capire che non è innocente. Non per caso è avvenuto così. È avvenuto perché rientrava in un disegno, che si propone due cose apparentemente contraddittorie, ma che non lo sono affatto: per un verso omogeneizzare i linguaggi, il sa­pere, le ideologie della gente; dall’altro, il processo, simultaneo e solo apparentemente opposto, è quello della valorizzazione o estre­mizzazione dell’individuo.

La tendenza di quello che conviene chiamare «tardo capitali­smo» è oggi rivolta a queste due mete solo apparentemente con­traddittorie. Per un verso, dunque, ci vogliono tutti simili o uguali: consumiamo gli stessi prodotti, tendiamo a leggere gli stessi libri (o a non leggerli) consumiamo gli stessi elaborati. È quella che chia­miamo «cultura di massa», al suo livello inferiore. Ma, per un altro verso – e basta guardare la pubblicità dei prodotti che riempiono i settimanali e le trasmissioni televisive – si tende a proporre un mo­dello di individuazione estrema: non essere come gli altri, sii di­verso, più bello, più forte ecc.; mettiti nella condizione di gestire il tuo tempo libero in modo originale, fatti una «cultura» …

Questo doppio movimento rientra perfettamente negli interessi del modo di produrre, di vendere, di consumare del mercato capi­talistico. I risultati li vediamo. Sono – come è stato ricordato -1′ al­largamento di un’ area di deprivazione, di neoalfabetismo o di anal­fabetismo di ritorno; e non solo qui in Italia, ma anche negli stessi Stati Uniti. È un fenomeno che riguarda, quindi, un allontana­mento dalla stessa cultura di massa; esso interessa una frangia della popolazione, i cosiddetti esclusi, i marginali. Abbiamo invece una estesissima parte del corpo sociale, alla quale sono destinati saperi, forme artistiche o di intrattenimento, forme di realizzazione di se stessi.

E qui viene un punto molto importante.

Se ci riportiamo al passato – diciamo a venti anni fa o anche solo a dieci – il mio discorso potrebbe finire qui. Avevamo i grandi mec­canismi che formavano prodotti di seconda qualità; e quella era la «cultura di massa», qualcosa che stava tra la divulgazione e i fascicoli della storia della letteratura universale, della religione o della geografia venduti nelle edicole. Il discorso allora sembrava abba­stanza facile, tant’è vero che, se uno come me tendeva a dire: stiamo attenti, dobbiamo lottare contro la falsa ricchezza dell’informa­zione o della cultura e dell’arte «per tutti», veniva immediata­mente bloccato da quelli che replicavano: ma tu sei un aristocratico della cultura e vuoi che determinate opere siano precluse a coloro che ne hanno fame e sete. Nel corso di un convegno, tenutosi a Ve­nezia non troppi anni fa sul tema del rapporto tra letteratura e masse, rammento che nel corso della discussione mi accadde di but­tare lì una battuta, che scandalizzò orrendamente i progressisti se­duti accanto a me. Dissi: «non esiste il “Petrarca per tutti” ». Vale a dire: il tentativo di rendere accessibili alcune opere, che sono state create in un certo contesto storico e che hanno una definibile funzione non può valere per tutti. Concludevo cosi una discussione che andava avanti da venti anni. Venni immediatamente aggredito. Qualcuno mi chiese: «E allora, tu al popolo che cosa faresti leg­gere?». lo evitai di polemizzare sull’uso della parola «popolo» (che mi faceva venire i brividi, considerando che l’interlocutore aveva in tasca la tessera di un partito dalle origini marxiste) e risposi, in modo ancora più scandaloso: «lI Vangelo». Poi spiegai (anche se sono certo di non essere stato capito) che cosa volessi dire riferen­domi al Vangelo. Indicavo, cioè, un libro che – indipendentemente dall’essere credenti o meno – ha le caratteristiche di non essere (o almeno di non essere facilmente) riconducibile all’ordine di un genere letterario. Non è di storia, non è cronaca, non è poesia. È molto difficile dire che cosa sia tutto quell’insieme che noi chia­miamo Vangelo e il tipo di rapporto che richiede al lettore è molto diverso da quello richiesto dalla lettura di Guerra e pace oppure da un’opera filosofica. È un rapporto completamente diverso, perché tende a chiedere in modo prepotente un certo tipo di adesione o di risposta alle domande che pone e che hanno molto a che fare con quelle domande e quei problemi di fondo, di cui abbiamo sentito giustamente lamentare la scomparsa nel corso dei nostri anni. Ma tutto ciò che vi ho detto fino ad adesso e tutto ciò che si riferisce a questo aneddoto ha a che fare con una situazione che non è più quella reale che abbiamo di fronte.

Oggi, cioè, non si tratta più di polemizzare contro una cosid­detta «cultura di massa», contro una volgarizzazione, una riduzio­ne dell’alta cultura per i poveri. Stiamo attenti. La situazione non è più questa, ma è assai peggiorata.

In che senso?

Non posso qui dimostrarvelo. Posso soltanto enunciare quella che è una mia opinione. Sebbene non solo mia. Nella società avan­zata, che è la nostra (ma potrei riferirmi soprattutto a certi paesi dell’Europa e agli Stati Uniti), abbiamo – per utilizzare una parola molto approssimativa – la «zona» delle istituzioni accademiche e degli istituti di ricerca al più alto livello (culturale o letteraria, arti­stica e scientifica … ).

Ora mentre una volta da parte di coloro che producevano a que­sti livelli c’era un atteggiamento di mediazione e distribuzione ver­so gli altri (così è stato certamente il secolo scorso e così è stato per una parte del nostro secolo), quando si è avuto il precipitoso allar­garsi di una cultura di massa, che è diventata essa stessa nel suo complesso un argomento di tale potenza e articolazione da non aver più bisogno, per sopravvivere, del contatto diretto con la cul­tura che potremmo chiamare creativa – la cosiddetta alta cultura universitaria – si è imposto il divorzio, la separazione.

Nella pratica, per un verso cresce il numero dei ricercatori ad al­tissimo livello, che sempre meno forniti di cravatta e di boria acca­demica si dispongono quotidianamente a farsi intervistare, sull’ul­timo avvenimento del giorno (e li vediamo alla TV questi scienziati, padri della fisica, della medicina, della chimica contemporanea, rispondere – in modo estremamente democratico – con delle bana­lità alle banalissime domande che vengono loro poste); mentre, per un altro verso, sappiamo benissimo che la distanza tra la vera ricer­ca ed il resto degli umani non solo è diventata, ma è mantenuta, enor­me, astronomica.

Al di fuori di questa «zona» c’è l’immensa massa, l’immensa pro­duzione, che veniva chiamata «cultura di massa» e che oggi si arti­cola e si gestisce in modo separato, ricreando naturalmente al pro­prio interno delle gerarchie. Facciamo un esempio banale. Stiamo per avere le trasmissioni via satellite. Se si guarda il primo elenco che è già proposto al consumatore, ci accorgiamo che, pagando ovviamente una certa tassa (ma non è questo il punto importante), noi possiamo fruire del programma A, invece che B o C, e che tra questi programmi ci sono delle differenze fortissime di livello e di orientamento culturale. La discriminazione, quindi, avviene ed è fortissima all’interno della stessa cultura di massa.

Questa è, dunque, la premessa del mio discorso: non esiste la cul­tura di massa, esistono delle forme molto differenziate all’interno di strumenti che sono, quelli sì, veramente di massa. E tali strumenti sono quelli che vanno, a rigore, dalla scuola, che è uno strumento di acculturazione – diciamo così – di massa, fino all’ editoria (libraria, giornalistica, periodica ecc.), alla pubblicità, che è un grande feno­meno di cultura di massa, e naturalmente a tutte le forme degli au­diovisivi.

Diventa inevitabile a questo punto dire che viviamo un partico­lare momento, destinato a durare, di concentrazione economico­finanziaria di tale complesso di mezzi; e diventa, quindi, sempre più difficile una fuoriuscita dal sistema attuale, che si fondi su quelle forme ascetiche, che io stesso una decina d’anni fa sono venuto proponendo. Quando parlavo di una riduzione della molteplicità, chiamando questo «ecologia della cultura» (o della letteratura), conservavo, non voglio dire delle illusioni, ma avevo ancora molto viva per delle ragioni biografiche la memoria di una possibile ridu­zione della varietà inutile, appunto.

Alcuni degli autori qui nominati, quelli della Scuola di Fran­coforte (ma potrei aggiungere autori come Brecht oppure Simone Weil. .. ) avevano proposto un simile ascetismo nei confronti della cultura, persuasi (giustamente) che vi fosse più cultura nella capa­cità di fabbricare una sedia che non nella lettura della Critica della ragion pura. Avevano assolutamente ragione; ma i fatti, cioè l’evo­luzione del capitale mondiale nel tardocapitalismo, hanno dato loro radicalmente torto. E, nel frattempo, non si legge più (se non per un esame universitario) La critica della ragion pura e nessuno sa più fabbricare una sedia, fatta eccezione per pochissimi artigiani.

La via della rinuncia ascetica continua a sembrarmi valida sol­tanto come itinerario individuale, per così dire, al bene. Come ci sono delle persone, che la mattina fanno un certo tipo di ginnastica piuttosto che un altro o che consumano solo certi prodotti diete­tici, perché pensano che faccia bene alla salute, così certamente fa molto bene rinunciare alla molteplicità inutile, non passare troppe ore davanti alla TV oppure non rincorrere tutte le novità librarie o non mettersi in coda con migliaia di persone per vedere sette qua­dri di impressionisti, cosa che avviene in questo momento un po’ dovunque in Europa.

Questo possiamo farlo, ma in questi termini, la cosa non va al di là della pia pratica individuale. Appena uno osasse spostarsi al di là e proporla come linea di gruppo, immediatamente saremmo assa­liti da dieci filosofi accademici arruolati dai principali quotidiani, che ci accuserebbero – non sto inventando, sono cose reali che si possono vedere ogni giorno – di essere persone che – attraverso la linea dell’ascetismo, la drammatizzazione della storia, l’ostacolare il godimento dei consumi – vogliono in realtà l’oppressione, la tirannia, il gulag.

Forse non hanno tutti i torti. Non perché chi vuole queste cose desideri il gulag, l’oppressione o la tirannia, ma perché volere quei processi ecologici (che non riguardano soltanto l’industria inqui­nante, il buco di ozono o la foresta amazzonica, ma la testa della gente) significa – per me certamente – scatenare un certo tipo di conflitti, che possono avere, oltre a quelle positive, anche delle conseguenze estremamente negative, cioè quelle che noi chiamia­mo le tirannie o le tragedie storiche.

Non siamo affatto garantiti (come vogliono farci credere i nostri governanti e i loro portaspada o portavoce o portacroce) dalla democrazia. No, non siamo protetti. La democrazia è un complesso di tecniche per l’accertamento delle volontà, per la guida politica di un gruppo, di un popolo, di una nazione, ma non si applica ai va­lori. Per dirla molto sinteticamente, come diceva un mio amico, il poeta Giacomo Noventa, «l’esistenza di Dio non si vota a mag­gioranza». Ma neanche si votano a maggioranza infinite altre cose, che hanno a che fare, appunto, con i valori, cioè con le ragioni che – come si diceva una volta – ha l’uomo di vivere e di morire. La democrazia in queste cose non funziona: i più non hanno ragione sui meno. In tutte le questioni veramente essenziali della nostra esistenza appunto: la vita, la morte, la malattia, l’amore – non vale la regola della maggioranza. Ed ecco perché, allora, sono assoluta­mente persuaso che una lotta per una «ecologia» della cultura, del sapere, ossia per una riduzione del superfluo, qualora fosse portata avanti (cominciando innanzitutto dalla lotta per stabilire cosa è superfluo e cosa non lo è … ) porterebbe a tali conseguenze e così dirompenti che l’ipotesi di una possibile susseguente oppressione (tirannia o violenza) va presa in considerazione. Non per appro­varla, ma per sapere che ad ogni sforzo verso una verità e una vita superiore o migliore corrisponde la possibilità del suo contrario. Detto altrimenti: chi vuole evitare la tragedia, come condizione della vita umana, può farlo. Ma, a questo punto, apra il televisore e se lo guar­di fino al momento della morte.

Chi sono – mi chiedo ora, avviando mi alla conclusione – i padri della lotta contro la massificazione? Si può andare molto in là nel tempo, risalire al Romanticismo; ma quelli che hanno visto questi fenomeni nella loro ampiezza e complessità drammatica sono cer­tamente i filosofi della Scuola di Francoforte. I fenomeni, che Ador­no, Marcuse ed altri avevano già intravisto nella Germania degli anni di Weimar, essi li verificarono in modo drammatico negli Stati Uniti, durante il periodo della loro emigrazione. I libri che ci hanno formato sono stati scritti negli anni quaranta. Hanno ormai mezzo secolo di vita. Rimangono fondamentali – mi guarderei bene dal negarlo – ma le situazioni sono cambiate. Allora il «mostro» della massificazione si presentava come volgarizzazione e come vol­garità. Adesso non è più contro i programmi Tv particolarmente volgari o la letteratura da edicola che dobbiamo lottare. Dobbiamo lottare, invece, contro quella che si presenta come la Cultura con la maiuscola. È quella che veramente, in modo profondo, ci distrug­ge, perché uno dei suoi dogmi è lo sviluppo della «corsa dei topi» culturale, cioè la creazione di uno snobismo di massa. Vogliono fare di noi, di tutti, degli snob, ossia delle persone che tendono conti­nuamente a fingersi quelle che non sono. Da qui la necessità di creare continuamente mode e modelli dietro i quali farci correre. Oggi la «cultura di massa» – usiamo le virgolette – somiglia straor­dinariamente a quella vera, quasi come certi prodotti surgelati somigliano a quelli non surgelati.

Ma, allora, quali armi abbiamo? C’è almeno l’ombra di una pro­posta in quanto ho detto?

Mi pare che le conseguenze siano queste: fintanto che pensiamo di contrapporre un sapere ad un altro, un libro ad un altro, un film ad un altro – starei per dire: un’emittente Tv ad un’altra – pos­siamo arrivare nella migliore delle ipotesi a quella che è la situa­zione in cui già viviamo, visto che siamo in un paese democratico, dove già abbiamo un’opinione non maggioritaria e una certa tradi­zione di «sinistra».

Che cos’è, invece, che ci pone al di fuori?

E l’azione politica, intesa come scelta di comportamenti non in­dividuali, i cui motivi non vanno cercati e neanche verificati esclu­sivamente sul sapere o sulla cultura, ma si fondano – almeno ini­zialmente – sul già saputo, su quello che sta dentro di noi – come si dice – o anche fuori (per me è lo stesso). E questo «qualche cosa», che già sappiamo, ci viene dalla nostra esperienza vitale. E un «qualche cosa» nel quale la sofferenza per 1’ingiustizia e 1’oppres­sione subita il giorno prima si mescola al ricordo di ciò che abbiamo imparato e saputo da quando avevamo cinque anni. Questo «in­sieme» è il nostro sapere, non quello che sta «dopo e fuori», che si aggiunge in seguito e può essere consumato o appreso, può diventa­re «carne e sangue» a condizione che vi sia quel momento iniziale.

E che cos’è l’operazione politica per eccellenza? Trovare i propri compagni, riconoscersi, unirsi, decidere di fare alcunché, fosse anche una conversazione come quella di stasera o una iniziativa come quella che qui è stata proposta.

Ed è veramente il caso di dire in questa occasione che da cosa nasce cosa e che qui siamo, per il momento, ancora fuori dai pro­blemi della cultura, di massa o non di massa.

Infatti i problemi dei libri, del sapere, si pongono immediata­mente dopo quelli che Mao chiama dell’inchiesta, cioè della ricerca per capire com’ è fatto il mondo nel quale vogliamo muoverci e che vogliamo in qualche modo modificare.

Ripeto la mia conclusione: mentre nel decennio in cui, in Italia con notevole ritardo, si sono sviluppate le forme della cultura di massa si è pensato soprattutto a controbattere la degradazione culturale, oggi credo che si tratti di lottare prevalentemente più a monte, in ter­mini di accumulazione di forza politica. Basta pensare alla corpora­zione giornalistica, e soprattutto ai giornalisti della TV, a quelle migliaia di persone che la RAI paga molto spesso per non far nulla (e si parla di dieci-ventimila persone … ). Sarebbe interessante che si stu­diasse il contratto nazionale dei giornalisti e si vedesse la condizione di privilegio incredibile che essi hanno nei confronti di altre catego­rie. Si scoprirebbe, forse, che nel nostro paese vi sono settori, nei quali esistono fasce di privilegio cultural-politico non molto diverse da quelle del mandarinato cinese o della nomenklatura sovietica.

È mia convinzione profonda che proprio nell’ambito di quella che Gramsci chiamava, con parole dimenticate, «l’organizzazione della cultura» la lotta politica oggi può dare risultati, che non poteva dare trenta o quarant’anni fa.

Fino a quando esisteva una classe operaia nel senso marxiano e leniniano della parola, depositaria (o ritenuta tale) di valori uni­versali, sì che, se essa non li affermava, l’intera società deperiva, si poteva avere dell’organizzazione della cultura l’idea che ne ebbero Lenin e Gramsci, e cioè l’idea di un qualche cosa di sostan­zialmente subordinato al potere economico-politico. Ma oggi, non possiamo più usare i termini con i quali Lenin e Gramsci descris­sero gli intellettuali. Oggi gli intellettuali non sono più quelli del tempo di Lenin e Gramsci. Sono invece quegli intellettuali «di massa» o intellettuali-massa, di cui il ’68, con eccessivo anticipo, dichiarò l’esistenza, quando non c’erano ancora; mentre oggi ci sono e nessuno più ne dichiara l’esistenza. Intendo riferirmi a tutti i docenti, i tecnici, gli addetti alla riproduzione del sapere, al gior­nalismo, alla TV, alla pubblicità. È una fascia straordinariamente importante del «nuovo terziario», senza la quale non si fa nulla.

Nella guerra civile – se vogliamo chiamarla così – o lotta di classe la «linea del fuoco» passa oggi attraverso le scuole, le redazioni, gli uffici dove si elabora un sapere che – ripeto – è «di massa», ma non ha più le caratteristiche di trenta-quaranta anni fa.

Ho pensato anni fa che i primi «caduti» di questa lotta si sareb­bero avuti nelle redazioni al momento in cui – così come gli operai di centocinquanta anni fa, affrontando lo sciopero, affrontarono non solo i fucili dei carabinieri ma il licenziamento e, quindi, la fame loro e delle loro famiglie – uno di quei mezzi busti della TV prenderà la parola alle ore tredici e dirà una verità non prevista dal copione. Sarà immediatamente cacciato. Quel giorno si potrà dire non che ci sarà stato un singolo eroe, ma che sarà avvenuto qual­cosa capace di rompere la profondissima omertà nel campo del­l’informazione di massa. E la stessa cosa vale per molti altri settori della comunicazione e del sapere. Il mio è quindi un messaggio di speranza abbastanza ironica e – come potrei dire – autosorvegliata. Perché conosco l’estrema difficoltà di questa strada e, tuttavia, cre­do che essa esista.

La boccetta di Baudelaire

di Donato Salzarulo

Questo testo nasce da un’intensa corrispondenza intrattenuta con l’amico Adelelmo Ruggieri nella primavera del 2005. Da qui alcuni passaggi colloquiali e allusioni a precedenti comunicazioni. La comprensione, però, è assolutamente possibile e non compromessa. Vista la lunghezza devo soltanto fare appello alla pazienza di chi legge. Del resto, i temi in discussione hanno a che vedere col senso della morte, della vita, della poesia, dell’arte, ecc. Insomma, questioni tutt’altro che secondarie.

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Quadro in ricordo del padre

Vincent Van Gogh, Natura morta con Bibbia e candelabro, 1885. Museo Van Gogh di Amsterdam

 

di Rosanna Galbiati

È un quadro strano, forte. Vorrei dire ambizioso. Vi campeggiano solo simboli che hanno una tale pregnanza da racchiudere entrambe le esistenze nella loro individualità e nella loro contrapposizione. È un giudizio lucido, distaccato, sull’esistenza conclusa del padre e insieme uno sguardo preveggente sul futuro del figlio. Continua la lettura di Quadro in ricordo del padre