Tabea Nineo, Giovane giardiniere 1987
di Ennio Abate
Esperimento 1. Vocazione liceale (1961/82)
Le vacche del sabato sera/ han ruminato la filosofia/ dell’erba settimanale.// Professore/ e se fossi/ un buon poeta? [Variante: Professore/ non ho la ragazza!]/ Piscia nell’angolo assieme agli altri.// Che saggezza alla fine della settimana/ nella merda di vacca!
Esperimento 1.1.
Integrazione e rielaborazione dialettale in “Salernitudine”, Ripostes 2003
A reggine Elisabbette
E venette
pure a regine Elisabbette!
E cavalle
facettere: ih!ih!
E ciuccie
o scutuliarene
ppe salutà
a reggine madinglan!
Ma sabbete assera
e vacche s’erene magnate
a filosofie ra settemane.
Prufessò, prufessò
forse nu picch poete sò?
Figlie mie, si a ffilosofie
cresce mmiezze a merde e vacche
e a poesie e l’allegrie
se trovane mmocca ae ciuccie o e cavalle
je nunn’o saccje.
Cheste è na nuvità.
Addimmannalle
a rreggine Elisabbette!
Curre, primme ca parte!
La regina Elisabetta
E arrivò [in città]| anche la regina Elisabetta!/ I cavalli| nitrirono.| Gli asini lo agitarono| per salutare| la regina made in England!/ Ma al sabato sera le mucche | avevano già ruminato| la filosofia dell’intera settimana. / Professore, professore| forse sono un po’ poeta? / Figliolo, se la filosofia | cresce in mezzo al concime di mucca | e la poesia e l’allegria si trovano in bocca ad asini o cavalli | io non lo so.| Questa è una novità. | Chiedilo | alla regina Elisabetta! / Corri, prima che parta!
[Nota 1975: Amara presa in giro della mia condizione di studente con desideri repressi]
[Nota dicembre 1983: Animalità contro poesia? No, contro ottusità e violenza del comando sociale. Fragilità del desiderio [che, per avere una conferma, si affida ancora ad autorità pur sapendola ostile]. ‘Piscia’ ha una connotazione offensiva [di repressione del desiderio]. L’equivalenza saggezza=merda di vacca vorrebbe essere gentilmente irriverente.
Esperimento 2. Liceo Torquato Tasso (1977)
Sala operatoria/ dove la mia adolescenza/ dubbiosa come lumaca/ se spuntare fuori o no/ in quel solleone idealista/ ossequiò le foglie di fico sulle pudende dei suoi amputatori.// E improvvidamente / trascinò con sé in sala professori/ un padre già sconfitto.// Chiedeva conto delle loro trimestrali decapitazioni / che ancor oggi raccatta/ nel tormento di una ribellione rinviata.
Esperimento 2. 1.
Incauto padre mio/ sconfitto contadino/ che ti trascinasti nell’atrio delle loro sale operatorie/ chiedendo conto delle trimestrali amputazioni/ sulla mia intelligenza adolescente!// Come lumaca in un guscio di timidezza/ esitavo a scoprire le foglie di fico/ che ponevano sulle pudende dei loro stessi eroi.//Spuntare fuori nel solleone della loro filosofia dello spirito?// Giammai!/ Ossequiarli/ e filar via.
Esperimento 2. 3.
Da “Unio” (2014) Torniamo a scuola. Anzi è Unio che torna al liceo frequentato da giovane. Accompagna suo padre nella sala dove, da studente, i professori ricevevano i genitori. E’ più solenne di allora. Quasi un teatro greco. E ci sono capannelli di persone attorno a qualche professore. Unio saluta con familiarità uno che conosce. Lui e suo padre sono però in ritardo. E il padre continua a camminare piano piano. Unio ogni poco si giraindietro e l’aspettao. Quello però avanza sempre più impacciato. E, quando raggiunge faticosamente Unio, mostra il volto di un paesano intimidito da un mondo che teme e non conosce. Ora è Unio che si impone di essere padre di suo padre. E quasi lo rimprovera. Come fosse un ragazzino. Avanzano insieme ancora per una decina di passi. Ma in un punto, dove Unio sa che ci vuole cautela nel muoversi, suo padre mette un piede dove non doveva. Sconsolato lo vede che tenta di ripulirsi alla meglio la scarpa sporca di merda. Ma cosa ci fa una merda nei corridoi di un liceo?
Esperimento 3. In dialogo tra vari tempi di E[nnio]
E 58 – Avevo scritto questi versi: «dentro la tana delle lucertole/ nei rigagnoli/ nei gusci di noci/ sotto le foglie/ in mezzo ai nidi abbandonati / un silenzio c’era / e luce e calore/ che neppure supponevo».
E 2017 – Era un ricordo delle tue esplorazioni in campagna?
E 58 – Sì, durante le vacanze, io, mio fratello Egidio e i due cugini coetanei – Guglielmo e Vincenzo – andavamo spesso in giro per la terra della loro nonna Francesca. In pieno pomeriggio. Non temevamo il caldo di luglio. Qui ho messo assieme le tracce di alcune sensazioni di allora. Mi colpiva il silenzio della campagna. Ne ero meravigliato.
E 2017 – Hai immaginato di seguire una lucertola in uno dei suoi nascondigli? Di scorrere come l’acqua, quando si toglieva il tappo dalla base della cisterna per farla andare lungo la traccia già scavata nel terreno?
E 58 – Non ti so più dire se immaginavo o se e cosa pensavo allora. Ricordo che una volta – ero solo – feci una gara per capire se ero più veloce io o l’acqua che usciva dalla cisterna. Che arrivò impetuosa e velocissima perché il terreno era in pendio.
E 2017 – Chiudersi in un guscio di noce come in una cassapanca. Stendersi sotto le foglie come fossero lenzuola. Accoccolarsi dentro un nido senza più le uova. Tuo cugino Guglielmo – il più piccolo – sapeva dove trovarle. E, avvistato il nido, s’arrampicava poi a piedi nudi sui rami dell’albero per prenderle. Nelle fiabe sono state esplorate certe metamorfosi: passaggi dall’umano al mondo animale o dalle dimensioni a noi abituali a quelle rimpicciolite. Mi viene in mente Alice o Gulliver.
E 58 – So che sono libri famosi, ma non sono mai stato veramente attratto da questo tipo d’immaginazione.
E 2017 – Eri troppo terrestre e realistico? Dimmi, però, perché più tardi hai tradotto quei tuoi versi in dialetto: Ma dint’e lacertele/ miezz’e nire abbandonate/ addo` a luce e o cavere /manch’e penzavem’e…
E 58 – Non posso rispondere io. Dovresti chiedere a E 90 o a E 92. Sono stati loro che, leggendomi nel loro tempo, hanno aggiunto quegli inserti in dialetto. Io allora scrivevo solo in italiano. Il dialetto lo usavo oralmente. E con chi mi parlava in dialetto.
Esperimento 4. Riordinadiario.
Riflessioni sulla composizione del «Reliquario di gioventù»
20 gennaio 2018 Avevo raccolto questi frammenti poetici giovanili (o “poeterie”, termine usato attorno al ’92, quando partecipai al premio Laura Nobile dell’Università di Siena) sotto il titolo di «Reliquario di gioventù». (Vedi in Samizdat Colognom n. 5). Poi ho avuto dei dubbi. ‘Reliquario’ rimanda al campo religioso. Non è che «Reliquario di gioventù» verrebbe a dire che sacralizzo la mia gioventù o queste tracce di quel periodo, quei ricordi? Insistendo a rielaborarli (a svilupparli, datarli, a rintracciare i luoghi o le occasioni a cui si riferiscono), mi sono accorto di entrare in un’esperienza tutta al presente: quella della scrittura, che di certo per me non ha regole sacre.
Ma perché ritorni spesso su questi scritti di tanti decenni fa? Che nodo irrisolto c’è? E pubblicarli oggi che senso ha (per te o per altri)? Cosa rivela questo desiderio di dire ancora di un passato a cui quasi nessuno più pensa? O li vuoi narrare a te stesso, che è l’unica cosa gratuita e possibile a un vecchio?
Da giovane, senza capirci nulla, qualcosa avevi letto di Montale. (E allora di Fortini manco conoscevi il nome…). Ora, se non avessi letto quei libri e subìto suggestioni da quei poeti letti nell’antologia di scuola o in quelle (escluse allora dal programma) del primo Novecento che ti avevano prestato all’ultimo anno di liceo, avresti mai scritto quei ricordi di Barunisse? Chi attorno a te ti suggeriva di scrivere? E perché scrivere proprio sui pochi ricordi dei primi cinque- dieci anni trascorsi in quel pezzo di campagna? C’entrava davvero quella prima lettura di Montale o di Govoni o di Palazzeschi? O di più la lettura di Pavese fatta attorno al 1958? Nel suo discorso che riguardava il mondo contadino ci stavi, anche se non capivi bene i suoi scritti sul mito. (E assaggiasti anche Lorca. Leggesti dei suoi gitani una sera. Eri solo nella stanza da pranzo con la luce accesa e poco prima di andartene da SA). E perché non scrivevi allora (fine anni Cinquanta, inizi dei Sessanta) della tua “vocazzione” tutta legata al vissuto, salernitano e parrocchiale, di città provinciale? E perché di Pavese in quell’anno leggesti quasi tutto? Non solo perché i suoi libri uscivano allora e ti era facile farteli prestare da un amico commesso di libreria. (Lui te li prestava di straforo, tu li leggevi e glieli riportavi intatti). No, Pavese toccava temi che in qualche modo erano un po’ nella tua esperienza fatta daragazo, sia pur brevemente, in campagna.
La poesia allora la cercavi lì. In quei suoi libri e in quel vissuto che ti aveva dato piacere o oscuro turbamento. Da lì la spinta a scrivere, a fissare in parole, in versi o quasi versi un’esperienza che era libresca, di sensazioni e di sentimento.
E poi eri attaccatissimo a quei luoghi. Pochi mesi prima di abbandonare SA, facevi ancora lunghe e stordite passeggiate a piedi. Fino a Fratte (al cimitero dov’era sepolto il tuo amico suicida M. B.). O, ogni tanto, in filovia dai tuoi parenti rimasti a Casalbarone o ad Antessano. E perché il Reliquario l’hai fatto leggere tardi, molto tardi, proprio a Michele Ranchetti? A farlo leggere prima a Fortini mai ci pensasti. O avresti esitato. Perché era più saldamente nella dimensione industriale e marxista. Più tardi hai scoperto che c’era persino qualche sintonia tra il tuo sentire e quello di Pasolini de «L’usignolo della Chiesa Cattolica».
Esperimento 4. 1. Nota dell’autore da vecchio
(inviata ad un editore per un’eventuale pubblicazione
in cartaceo del «Reliquario di gioventù»)
Delle poeterie, scritte tra il 1958 e il 1963 (dai 17 ai 22 anni) tra Salerno e Milano, ho scelto quelle che sembrano avere un valore non puramente privato. Le ho suddivise in 8 sezioni tematiche (Campagna, Religio, Madre, Esplorazioni, Ragazze, Morte, Spleen, Visioni) e aggiunto in Appendice tre poesie (Vicoleggio, La ragazza dei preti, Mio padre) già pubblicate in Salernitudine, perché hanno una stretta parentela con queste.
Ho riletto dubbioso tante volte nel corso degli ultimi decenni questi frammenti. Il loro senso e tessuto linguistico è convulso, allusivo, scarno e a volte monco. Vi ritrovo echi – datati – delle letture d’allora: i lirici greci, Pavese, Baudelaire e, nella sezione Visioni, Lorca. Tuttavia sempre ho resistito all’impulso di cestinarli. Non solo perché documentano – bello e brutto – il mio apprendistato poetico solitario e da autodidatta; e, come punte d’iceberg, mi hanno poi aiutato ad esplorare il sommerso, la vicenda complessiva da cui provengono – esito a dire: la storia – in un narratorio inedito a cui continuo a lavorare. Ma perché vi colgo tracce di una vicenda più collettiva: – un morente paganesimo contadino, percepito nella condizione afasica, sognante, stupefatta e fiduciosa dei primissimi anni d’infanzia; – il marchio ambiguo, retrivo e protettivo, di popolari e castigatissime gioie dell’educazione cattolica, come le ho chiamate poi con sarcasmo e distacco da adulto; – l’oscillazione, nella scoperta della metropoli (Milano), tra l’atteggiamento di un flaneur giovanilmente vorace e impacciato e quello dello straniero o del migrante predone.
Devo alla generosa attenzione di Michele Ranchetti, tardivamente incontrato e che nel 2003 lesse versi per decenni tenuti nel cassetto, un giudizio ben centrato: « ho letto le tue poesie più volte: l’immagine che mi è venuta in mente è quella di un grappolo d’uva nera su un tralcio abbandonato. Gli acini sono dolci, amari, secchi, verdi, maturi, rossi: il vino che ne risulterebbe sarebbe rosso scuro, forte, mezzo buono e mezzo no, amaro, e che va subito alla testa».
Sì, il tralcio abbandonato è il Sud. E il vino (le poeterie o le prime prove o le vanterie poetiche) ha i pregi e i limiti di una coltivazione bruscamente interrotta. Il titolo, Reliquario di gioventù, dice il legame che ho mantenuto con quelle prime emozioni e scoperte e vuole essere un riconoscimento al lavoro compiuto dal fragile apprendista che ero: della poesia e di quel «mestiere di vivere», di cui – primo tra le mie letture per passione – mi parlò in quei lontani anni Cesare Pavese.