di Rosella Bertola
IL LAGHETTO DI MONTAGNA
Il laghetto di montagna, dove d’estate vado a pescare le trote e ad osservare le salamandre che guazzano tra i sassi, ora è tutto ghiacciato. La sue superficie sembra una pista di pattinaggio e l occhio si perde in una distesa di bianco abbagliante. Tutt’intorno a me non c’è alcun rumore: il cinguettio degli uccelli, che nella buona stagione allieta il cuore e quasi stordisce, ora ha lasciato il posto ad un silenzio magico, interrotto soltanto dal fruscio della neve che cade all’improvviso dagli alberi, sciolta dal sole. Il paesaggio, intorno, è come incantato: la boscaglia ammantata di neve gelata sembra un ricamo prezioso. Questa è la stagione più bella per il piccolo lago: tutto quel bianco accanto al turchino del cielo lo fanno assomigliare ad un luogo di sogno.
STORIA DI UN TRENINO
Nella stanza dei giochi di un bambino, c era una volta un grande plastico appoggiato a terra, su cui viaggiava un trenino elettrico. Era un giocattolo bellissimo ed affascinava il bimbo che lo possedeva; egli trascorreva con lui molto del suo tempo. Tutto era bello: il paesaggio rappresentato, la sua varietà di aspetti. C’erano laghetti, montagne, villaggi, una stazione con la fontanina e l orologio; c’erano anche le immancabili sbarre, che si abbassavano automaticamente al passaggio del treno, quasi per tributargli un inchino. Il piccolo convoglio di latta spadroneggiava sul suo mondo di cartapesta; andava, tornava, appariva e spariva attraverso gallerie, gole di montagne, oppure prendeva una grande rincorsa e sferragliava veloce attraverso la pianura, che lo conduceva alla stazione, da dove, dopo una fermata di un momento, avrebbe ripreso il viaggio di sempre. Quel viaggio divertiva molto il bambino, egli non si stancava mai di manovrare i comandi: ora avanti, ora indietro, le possibilità del trenino erano molte, bastava premere un bottone od abbassare una leva ed egli eseguiva, immancabilmente. Il trenino, di certo, la strada la conosceva a memoria: per lui, sul plastico, non c’erano più sorprese. Le curve non gli nascondevano ormai nulla di nuovo e l’entrare nell’oscurità della galleria non gli appariva più spaventoso come una volta. Così un giorno il trenino, stanco della monotonia dei suoi movimenti, decise che non avrebbe più percorso la tortuosa strada ferrata che ormai lo ossessionava. Attese la notte, per poter agire con tranquillità e quando fu certo che nulla l avrebbe disturbato, si dispose a mettere in atto il suo piano. Raccolse tutte le forze che possedeva (ed anche tutto il coraggio) e con un improvviso balzo uscì dalle rotaie, infilò la porta della stanzetta e finalmente ebbe la sensazione di essere libero. Si trovò subito nella vasta anticamera della casa, che conosceva solo di sfuggita, per averla sbirciata spesso, pieno di curiosità quando nel suo giro di un tempo allungava i fanali al di là della porta, per vedere com’era fatto il mondo. Fu aiutato, nel suo piano di fuga, dal gatto di casa, un soriano innamorato che aveva appuntamento con la gattina. Esso, uscendo quatto quatto, aveva lasciato aperto l’uscio di casa. Per il trenino fu un attimo: oltre quella porta incominciava il mondo, quello vero, con le montagne vere, i laghi con l acqua, il cielo con le stelle, non col lampadario. Durante il viaggio ebbe un momento solo di malinconia; ripensò al suo amico aquilone, che era rimasto imprigionato nella cameretta dei giochi. Era ancora là, sullo scaffale impolverato, ad attendere sempre la bella stagione, le giornate di sole che in quella città erano rare nel corso dell’anno. Chissà, forse un giorno anche per lui sarebbe arrivata la libertà: ne parlavano spesso assieme, quando erano compagni di sventura. Quel correre libero nella città buia non spaventava affatto il trenino; si sentiva sicuro con i suoi fari luccicanti, ogni tanto, con allegria, azionava il fischietto per annunciare a tutti la sua contentezza. Aveva una grande curiosità da soddisfare: desiderava vedere una stazione vera. Quando riuscì a raggiungerla ebbe come un brivido; gli sembrava quasi di essere tornato ai vecchi tempi; non sapeva se piangere o ridere e gli riuscì di sorridere al pensiero delle sue dimensioni, lui così piccolo al confronto dei treni che vedeva. Quell’aria che respirava, comunque, non riusciva affatto a sembragli simpatica: troppe cose lo riportavano alla sua condizione primitiva ed egli non desiderava proprio risentirsi nei panni di prima. Scelse perciò un altra soluzione: sarebbe stato un treno indipendente. Aveva già dimostrato a se stesso di sapersela cavare da solo, anche senza binari, capi stazione, palette e semafori. Avrebbe continuato così, esplorando tutto ciò che lo avrebbe incuriosito. Lo si vede spesso correre tra le aiuole del parco: ora ha anche dei viaggiatori, i passerotti del giardino, ed è tanto contento di essere utile a qualcuno. A volte il trenino compie dei giri speciali; al mattino di buon’ora, quando le strade sono ancora deserte gli piace andare ad osservare la città addormentata: i passerotti, qualche grillo pigro, una cincia curiosa a bordo e via ciuff ciuff si parte per una nuova scoperta.
Nota (2006 di E. A.)
Le due fiabe che qui pubblichiamo andrebbero definite “di lavoro”. Sono state scritte da una maestra, Rosa Bertola, che nel comporle ha sicuramente avuto in mente le bambine e i bambini del Secondo Circolo didattico (scuola elementare) di Cologno Monzese. Volti, voci e corpi di bimbi d’oggi hanno riacceso memorie della propria infanzia, rimodellato l’idea d’infanzia della maestra e di se stessa in rapporto affettivo e didattico con loro, riempito di emozioni impreviste quel tempo detto ‘anno scolastico’, che scorre separato dal tempo di fuori: delle strade, della città, della televisione.
Le due fiabe – altre restano nel cassetto e si spera presto di raccoglierle in libro – nate senza pretese di farsi letteratura, come scritture d’occasione motivate da esigenze pratiche (insegnare la lingua italiana, calamitare attorno a parole semplici la fantasia del gruppo-classe, afferrare il fantasma sfuggente del ”mondo” mediante i nomi, trasmettere “qualcosa” – un senso – quello che, in tempi di certezze, si diceva “una morale”) – hanno un primo pregio in questo legame stretto con la realtà viva, fissa e mutevole al contempo, del fare scuola.
Sia la prima, quasi un haiku per brevità e tema, che la seconda, più articolata e mossa, richiamano con immediatezza la potenza dell’infanzia: di stupirsi di fronte al “silenzio magico” di un paesaggio innevato; di maturare, grazie alla ripetizione del gioco – una ginnastica che i bimbi s’impongono con piacere e a cui gli adulti sfuggono – scatti di libertà e di fuga dai mondi di cartapesta (tutti, non solo quelli dei bambini, lo sono un po’ o possono diventarlo).
Se le estraiamo, come minerali, dal magma vivo della situazione in cui sono nate e le esponiamo in una rivista “per intellettuali” come Poliscritture, non è per un semplice atto d’omaggio ad un’amica da poco morta o per paternalismo. Lo facciamo perché sono un esempio di quel plurale, che oggi si svela in tanti scriventi “non autorizzati”; e che programmaticamente come rivista puntiamo a indagare e a mettere in fecondo – crediamo – cortocircuito con un altro plurale, quello delle scritture “alte” argomentative, riflessive, analitiche, espressive. Ma nel caso delle fiabe, c’è un altro problema da affrontare: è possibile oggi tenere problematicamente aperto e fluido il legame tra l’immaginario infantil-materno che ci pare esprimersi nelle due di Rosella Bertola, e lo strabordante immaginario “adulto” ipercommercializzato che ci travolge attraverso la TV?
In nome delle “cose serie” (il Mercato, la Politica, la Scienza, il Progresso) l’infanzia e il maternage vengono a un certo punto cancellate. Oppure i loro effetti costruttivi e dinamici sono confinati: nella scuola elementare, appunto; nella famiglia che dovrebbe tornare “sacra”; o in un quotidiano detto “normale”.
Altri ne fanno oggetto di studio specialistico (pedagogia, psicologia) o di rituale e episodico omaggio (la giornata mondiale del bambino, la festa della mamma).
Resta da presentare la maestra-bambina che ha scritto queste fiabe. Rosa Bertola è stata maestra elementare a Cologno Monzese dal 1971 fino alla sua morte avvenuta nell’ottobre del 2005. Cresciuta come tanti sotto il segno della tradizione più autoritaria esistente in Italia: quella della Chiesa cattolica (iniziò la sua carriera di maestra insegnando religione; ed è noto il controllo che la Chiesa cattolica impone a queste figure d’insegnanti), seppe stare ad occhi aperti nei tumulti che negli anni Sessanta e Settanta coinvolsero una scuola elementare per figli d’immigrati (allora “comunitari” ma trattati come gli attuali “extracomunitari”) paurosamente carente nelle strutture e nella didattica. Si confrontò con quei fermenti di ribellione e affiancò inquietamente al suo venerato Manzoni il quasi eretico don Milani di Lettera a una professoressa, impegnandosi nell’innovazione didattica e nel movimento che tra 1979 e 1983 portò alla scuola a tempo pieno.
Nel suo lavoro Rosella, secondo una tradizione che si va perdendo, desiderava che i suoi scolari imparassero a memoria delle poesie; li educava ai dettagli, fossero parole e numeri o i fiori del giardino della scuola da seminare, veder crescere, nominare, disegnare. E fu una donna capace di coltivare passioni: per la poesia, la geografia, il disegno, la musica, la scrittura. Nutrì così sia il suo lavoro di maestra che la sua presenza attiva nelle istituzioni: nel Consiglio di Circolo, ad esempio, e dovunque in una città di periferia si potesse discutere fuori dai conformismi. Nell’agosto 2001 le fu scoperta la malattia che poi la condusse a morte: insegnando finché ebbe la forza, resistette alla implacabile cancellazione del suo mondo.
* L’articolo fu pubblicato nel n.1 cartaceo di POLISCRITTURE (MAGGIO 2006)