di Angelo Australi
Appena uscito dalla stazione Carlo si era incamminato in direzione della sua casa, dove la moglie e i due figli lo aspettavano per la cena. Era molto in ritardo, visto che un imprevisto lo aveva trattenuto più di un’ora sul posto di lavoro. Nonostante avesse fissato il sole mentre scompariva dietro le colline che scorrevano dal finestrino del treno, ancora il bollore dell’estate lo assaliva in ogni punto del corpo. Il parcheggio al servizio delle auto dei pendolari nei giorni festivi era sempre vuoto, così costruì mentalmente delle similitudini con quella desolata piazza d’armi nella quale aveva marciato durante la naia, agli ordini di un tenente pieno di manie, con l’animo ancora di un fascista. Erano trascorsi ormai vent’anni da quando aveva fatto il servizio di leva, ma quando vedeva una piazza priva di vita e di movimento, gli nasceva spontaneo fare dei collegamenti con l’esperienza traumatica vissuta in caserma. Per illudersi di trovare un refrigerio, uscito dal parcheggio si era messo a camminare a ridosso dei palazzi, cercando di sfruttare le zone d’ombra che il pomeriggio si formavano su di un lato della strada. Tentativo vano, perché il calore saliva dal basso, era come se l’asfalto stesse ribollendo alimentato da una piastra elettrica. Il sudore gli calava sulla fronte, mentre una puntigliosa brezzolina finiva per appiccicargli la camicia alla schiena, e quella sensazione di sporcizia e di fastidio sembrava raccogliere tutta la frenetica indifferenza della città nella quale lavorava da alcuni mesi come uomo di fatica per un albergo di lusso del centro storico, situato nei pressi dell’imponente duomo.
Era la terza domenica di un luglio arido e riarso. Da qualche giorno un leggero vento di scirocco rendeva l’aria irrespirabile, mentre l’afa creava una cappa di caligine che celava il profilo dei monti intorno alla valle del suo paese. Una delle estati più calde degli ultimi anni, da quello che ricordava l’ultima pioggia ormai risaliva al mese di aprile. In tutto quel tempo non era caduta neanche una leggera spruzzata per lavare la polvere dalle strade. In pieno solleone, anche nel tardo pomeriggio faceva ancora un caldo soffocante. Almeno nel tratto di fiume che si scorgeva dal treno, l’acqua sembrava ridotta a un rigagnolo limaccioso e verdastro, dove le garzette catturavano senza difficoltà dei pesci agonizzanti.
A un certo punto, lungo la strada, dove la sequenza di abitazioni attaccate l’una all’altra s’interrompeva, c’era un campo di grano mietuto di recente. L’immagine prese vita solo dopo aver tolto alcune gocce di sudore che gli erano calate sugli occhi. Vide che dalla terra secca e screpolata si alzavano piccoli mulinelli di polvere trasportati dal vento, mentre al centro del campo una moltitudine di piccioni beccava dei chicchi di frumento dalle spighe lasciate sul terreno con la mietitura.
Appena un’ora prima, salendo in uno dei vagoni fermi alla stazione, gli era sembrato di entrare in un forno. Il convoglio era rimasto tutto il giorno depositato in un binario morto, e quando era salito ancora le lamiere trattenevano il calore rilasciato dai raggi del sole. Carlo aveva provato ad aprire il finestrino, ma da fuori entrava solo un’aria calda che faceva circolare il ristagno dei cattivi odori di quando la gente ci si accalcava nei giorni feriali. Il ristagno pestifero di quella reminiscenza emissiva si mescolava all’esalazioni rimaste imprigionate nelle intercapedini della vecchia carrozza. Essere da solo nello scompartimento del treno lo aveva messo ancor più di cattivo umore, così durante il viaggio era cresciuto dentro i suoi pensieri come una sorta di turbamento depressivo.
Visto che viaggiava in compagnia solo della luce del giorno e il fetore dello scompartimento, ad un certo punto si era messo a gridare la sua rabbia. – Mi sono rotto i coglioni! La faccio finita una volta per tutte, con questo mestiere di merda. Chi ha più voglia di sorridere ai clienti dell’albergo, con questo caldo! … Che lavoro è, fargli la faccia gentile per ricevere la mancia? –
Aveva gridato istintivamente, senza neppure guardarsi intorno. Era stanco di fare i conti con questa inquietante realtà, accettata faticosamente ogni giorno solo per un senso di responsabilità verso la famiglia. Vivere tutta la settimana in città – sabato e domenica compresi – non gli lasciava mai del tempo per farsi vedere in giro per il paese a informarsi di un lavoro. La sera, quando il giorno dopo si sarebbe dovuto alzare che ancora non era sorto il sole, non si sentiva mai stimolato per recarsi al bar che frequentavano i suoi amici. Un quarto d’ora di televisione dopo cena, e si appisolava sulla sedia. Le sue ore di riposo trascorse in famiglia erano piene di pigrizia latente, di vera e propria indolenza mentale. In vita sua non si era mai sentito così solo come in quei mesi che faceva il facchino d’albergo. Il poco tempo libero di cui disponeva, piuttosto che accendere una forma di reazione, uno scatto di orgoglio per mettersi a cercare delle soluzioni alternative, lo occupava pensando al passato. Tranne la parentesi del servizio militare che aveva fatto in una caserma di Orvieto, e il viaggio di nozze a Venezia, dall’età di quindici anni aveva sempre lavorato nella stessa fabbrica di borse in pelle senza mai spostarsi dal paese. Era stato assunto come apprendista nel 1946, da un artigiano che voleva mantenere alta la qualità di un prodotto richiesto esclusivamente dai negozi di lusso delle più importanti città italiane. Per questo il titolare si era creato un suo marchio di fabbrica, disinteressandosi ad ampliare il mercato, perché con i suoi otto dipendenti riusciva a rispettare i tempi di consegna delle ordinazioni fatte ad ogni cambio di stagione. Cinque donne a cucire la pelle, un tagliatore esperto che, per come era bravo, considerava quasi un figlio, poi Carlo e un altro giovane assunti come apprendisti, che all’inizio occupava nelle fasi meno impegnative perché le donne non si distraessero dalla cura delle rifiniture. In alcuni casi era il padrone stesso a fare le consegne, stando via dei giorni a giro con il suo furgone. Altrimenti, con la scusa di fare un viaggio nella sua bella regione, si presentavano gli stessi clienti a ritirare le merci. I suoi modelli, tranne lievi modifiche alle fibbie e sui sistemi di chiusura, non erano mai variati nei dieci anni di vita dell’impresa. Il figlio del padrone frequentava la facoltà di ingegneria, con specializzazione in meccanica. Era più vecchio di Carlo solo qualche anno e, se non studiava per un esame, bazzicava la fabbrica per aiutare il padre. A Carlo raccontava che il suo futuro non lo immaginava lì, appena laureato era sua intenzione fare dei concorsi da tecnico nella pubblica amministrazione. Dopo un po’ di anni che Carlo aveva fatto il servizio di leva, il figlio girando in fabbrica aveva iniziato a criticare l’operato dei dipendenti e a fare osservazioni verso l’organizzazione del lavoro pensata dal padre, che ormai, rispetto ai tempi, giudicava superata. Nonostante dopo la laurea fosse stato fisso sui libri a preparare una miriade di concorsi, non aveva mai raggiunto il punteggio che gli consentiva di accedere nel numero dei posti previsto dalla graduatoria, così si era rassegnato a lavorare con il padre e a immaginare, prima o poi, di subentrare alla guida dell’azienda. Carlo e gli altri operai assistevano ogni giorno a interminabili discussioni tra padre e figlio, ma il lavoro si era tenuto costante fino a quando lui aveva conservato la conduzione. Un paio di infarti a distanza di pochi mesi, e una leggera ischemia che aveva debilitato i movimenti del braccio destro, lo costrinsero a ritirarsi dall’attività. Era il 1962, Carlo ricordava bene che in quello stesso periodo sui giornali si profetizzava lo scoppio della terza guerra mondiale, a causa di certi missili con testata nucleare che la Russia intendeva puntare sull’America dall’isola di Cuba. Ne parlavano al lavoro, con gli amici del bar, e ne parlava in casa a Emma. Quel passaggio di consegne in fabbrica dal padre al figlio lui lo aveva accettato senza nascondere una certa insofferenza, e ogni volta che capitava l’occasione esternava ai colleghi tutto il suo rammarico. Si sfogava principalmente con Luigi, diventato come lui tagliatore quando l’altro era andato in pensione, con il quale, lavorando affiancato ogni giorno per tante ore, era nata una vera amicizia. In appena quattro anni il figlio, pur di scegliere la soluzione di un prodotto valido per il mercato estero aveva stravolto la vecchia organizzazione dell’azienda, il vecchio marchio di fabbrica adesso lasciava il posto alle etichette che gli consegnavano i suoi clienti. Lavorando per terzi le commesse si erano moltiplicate a scapito della qualità, per evadere le quali, ad ogni cambio stagione era costretto ad assumere dei nuovi addetti. A un certo punto, dopo tutte quelle assunzioni, fu obbligato a trasformare l’azienda dalla categoria degli artigiani all’industria, dove più forte era la concorrenza, più era costretto a mantenersi competitivo abbassando il prezzo agli articoli. Questi importanti marchi stranieri – ormai lavorava esclusivamente tramite i loro rappresentanti – facevano quattro ordinazioni l’anno: primavera, estate, autunno, inverno. Tutte sfalsate di alcuni mesi. Si parlava di migliaia di capi per ogni articolo da consegnare, un prodotto che poi loro stessi proponevano a una catena di negozi conosciuta in tutto il mondo. A gennaio erano in ordine le borse per la primavera, e così via, a scalare: marzo i modelli estivi, a fine luglio – prima delle ferie – quegli autunnali, a ottobre le borse che si vendevano nei negozi a Natale. Non riuscendo più a rispettare le scadenze, spesso era costretto a pagare delle penali che si bruciavano il ridotto margine di utile. Nelle occasioni che ancora veniva in fabbrica, Carlo aveva sentito tante volte il vecchio proprietario dare dell’incompetente al figlio. Gli bastava guardarsi un po’ attorno per scoppiare in una sequela di bestemmie, arrabbiandosi come un matto. Suo figlio stava immaginando un sistema che a lungo andare non poteva sostenersi in quei margini di utile così bassi, ma soprattutto lo accusava di non accettare consigli da uno con la sua esperienza, non conoscendo il mestiere come poteva organizzare un sistema funzionale per i trenta dipendenti che adesso erano nel suo libro paga? Lui aveva studiato, ma non sapeva niente di quel lavoro, se insisteva con quel tipo di gestione, l’azienda sarebbe fallita entro pochi anni.
– Per organizzare il lavoro a trenta persone cercati uno che ne capisce, se non vuoi contare sulla mia esperienza. Va conosciuto il tipo di pellame, il tipo di filo da usare nelle cuciture, la qualità della cromatura degli accessori di metallo.
Il figlio gli urlava di starne fuori, le materie prime ormai le fornivano i clienti, scelte dagli stessi stilisti che a ogni stagione creavano dei nuovi modelli. La voce più grossa di spesa nel bilancio era quella degli stipendi, quando le cose non avessero più funzionato, poteva sempre licenziare del personale. I soli investimenti fatti in quegli anni che lui aveva condotto l’azienda riguardavano l’acquisto di macchinari e la costruzione di un capannone industriale accanto al precedente, aumentando di tre volte il capitale dell’impresa che gli aveva lasciato. Il padre non accettava che lui avesse tolto il suo cognome dal marchio dei prodotti, ma questo era un dettaglio per il quale il figlio non sembrava provare nessun rimpianto.
– Per piacere, ora levati di mezzo, che devo lavorare. La discussione finisce qui.
– Sei un bischero! – gli urlava dietro il padre prima di uscire, alla presenza di tutti gli operai, la maggior parte dei quali per lui erano dei perfetti estranei. – Ricordati che il giovane corre, … ma il vecchio conosce la strada.
Agli occhi di Carlo, dopo queste assurde discussioni, il figlio del suo vecchio padrone diventava sempre più arrogante.
Quella domenica di luglio una comitiva di turisti era arrivata in albergo pochi minuti prima della fine del suo turno, tutta eccitata perché voleva velocemente rinfrescarsi e poi mangiare, per assistere al programma televisivo dell’ammaraggio dell’Apollo undici sulla luna. Grazie a questo imprevisto Carlo era stato costretto a ritardare l’uscita dal lavoro, e con le corse domenicali dei treni ridotte, questo aveva significato una partenza posticipata di un’ora. Alla televisione avrebbero trasmesso una diretta fiume che iniziava al consueto orario in cui andava in onda il telegiornale. In albergo per tutto il giorno non si era parlato d’altro anche con i clienti stranieri, che avendo visto un televisore nella sala da pranzo, anziché mangiare in un ristorante della città preferivano rifocillarsi in albergo e assistere alla diretta televisiva. L’avvenimento suscitava meraviglia e ottimismo in tutto il mondo, con quel primo passo, che aveva per l’umanità un significato paragonabile alla scoperta del fuoco o del continente americano, iniziava un’avventura dai risvolti infiniti, fino a quel punto immaginati solo sui libri di fantascienza. Quello che gli uomini avevano sempre tentato di leggere osservando le stelle del firmamento, adesso sarebbe diventato un fenomeno al quale non solo i sacerdoti, gli sciamani, gli scienziati, ma tutto il genere umano poteva azzardarsi a rivolgere un pensiero.
I suoi figli stavano guardando la televisione seduti intorno alla tavola apparecchiata, perché la cronaca in diretta dello sbarco sulla luna era già iniziata. L’odore dei cibi cucinati per la cena si mescolavano all’aria calda che entrava dalle finestre aperte. Dopo aver baciato Emma sulla fronte e arruffato i capelli a Marisa e Matteo, Carlo era andato in bagno per lavare la sensazione di sudore appiccicaticcio che si portava appresso da quando aveva terminato il turno di lavoro. Emma lo raggiunse quasi subito con una canottiera di ricambio e una camicia pulita. Mentre lui la guardava riflessa nello specchio, lei gli sorrise. Rispose facendole occhietto e continuando a fissare l’immagine rifranta di entrambi.
– Dai, … sbrigarti. I ragazzi vogliono vedere la diretta dell’atterraggio sulla luna.
Emma gli posò delicatamente l’asciugamano sulla testa che lui aveva tenuto sotto il rubinetto, provando una sensazione di sollievo.
– Già, … da stasera c’è la luna più vicina… Faccio in un attimo.
– Il motivo del ritardo, visto la domenica sei a casa un po’ prima degli altri giorni?
– … La luna, no!
– Dai, non scherzare.
– Non sto scherzando. Un gruppo di milanesi è arrivato in albergo proprio nel momento che stavo togliendo la divisa, perché prima i signorini hanno preferito passeggiare un po’ per la città, e assistere all’ammaraggio sulla luna in albergo. Perso il treno delle diciassette e venti, di domenica il successivo è alle diciotto e trentadue. Nella carrozza del treno ero solo come un cane. In una stazione deserta –. Carlo sorrise, scuotendo la testa incredulo, sempre guardandosi riflesso allo specchio del bagno. – Nelle strade sembrava uno di quei giorni in cui gioca la nazionale di calcio.
– Perché l’avvenimento oggi è la luna. C’è molta apprensione, se gli succede qualcosa lassù, nessuno li potrà salvare. Alla messa di stamani ne ha parlato anche il parroco, chiedendo ai fedeli una preghiera per gli astronauti.
– Se fossero stati i russi a tentare l’impresa, non avrebbe chiesto nessuna preghiera… Il tuo prete.
– La diretta è appena iniziata. Sbrigati, così la guardiamo insieme ai ragazzi.
– Io e te non ci andremo mai lassù, dio buono -. Carlo si strinse nelle spalle.
– E neanche mi interessa, se vuoi saperlo. Però è bello sapere che qualcuno può farlo.
– Una cosa è certa, da qualche parte devo andare anch’io, perché mi sono rotto i coglioni a fare il facchino d’albergo.
– Dai Carlo, … stasera non farci sentire dei condannati a morte. Del lavoro ne parliamo anche troppo, … tutti i santi giorni.
– Perché? Mi alzo alle quattro di mattina, in quale approccio dovrei pormi, secondo te?
Non le parlò in modo particolarmente tranquillizzante, piuttosto sembrava essersi fatto prendere dalla frenesia per giungere a quelle conclusioni pensate durante il viaggio in treno fatto in solitaria, che intendeva puntualizzare prima si trasformassero in uno dei tanti pensieri che sfioravano appena in superficie la memoria, per farli entrare in quell’oblio dove ogni desiderio si perdeva per sempre.
– Ci ridi sopra, almeno una volta ogni tanto. Così fai felici i ragazzi.
I ragazzi?!… Emma metteva sempre i figli avanti a tutto, lasciandosi condurre in un vincolo di sacrifici che non sembrava avere limite. Anche lui si sacrificava volentieri, pur di vederli crescere felici, ma certo da quando aveva cambiato lavoro per il fallimento della sua ditta, non era così semplice rientrare a casa e ritrovare quel clima familiare fatto di abitudini alle quali non riusciva più a sentirsi partecipe. Erano trascorsi ben sei mesi, ma Carlo ancora non riusciva ad accettare questa nuova condizione di lavoro, ogni volta che ci pensava gli nasceva dentro un senso d’impotenza a colmarlo di una rabbia malinconica. Marisa era stata promossa al secondo anno di ragioneria con dei buoni voti in pagella, Matteo in seconda media, passando a giugno per il rotto della cuffia con un sei regalato a matematica e scienze. Matteo sembrava ancora attratto dai giochi dell’infanzia, mentre invece Marisa stava crescendo sotto tutti gli aspetti, metteva un po’ di seno, il corpo le si affusolava, snelliva nei punti giusti, c’erano tutte le premesse che crescendo diventasse una bella donna. Matteo non capiva il cambiamento avvenuto in sua sorella, oltre che fisico – lo sentiva a pelle – era caratteriale. A volte lei, forse solo per assaporare il piacere di sfidarlo, di fargli pesare i tre anni che li dividevano, gli confidava che finite le superiori si sarebbe trasferita a vivere in città per frequentare l’università, così nessuno l’avrebbe giudicata se si baciava per strada con un ragazzo. Voleva fare la giornalista, visto che era brava in italiano e la sua professoressa la incoraggiava a non demordere. Questo il suo obiettivo. E Matteo la faceva parlare senza neppure provare a interromperla, perché le sembrava molto più nervosa e arrogante di quando si aggregava al suo gruppo di amici; adesso parlava troppo, cadeva spesso in contraddizione, non riusciva mai a finire un ragionamento che ne iniziava un altro. Forse lei non si rendeva conto, ma era impossibile seguirla, in pochi minuti poteva introdurre anche dieci argomenti, e costruirsi per ciascuno una diversa personalità. Sembrava insofferente verso quei limiti della vita di paese che la frenavano in ogni aspirazione. Matteo invece non aveva problemi a immaginarsi il tempo da trascorrere con gli amici, per il momento non chiedeva alla vita niente di più che giocare a calcio, fare a sassaiola con i ragazzi che abitavano nel quartiere delle case popolari costruite in epoca fascista, o con quelli provenienti da altre zone del paese, tutti rivali nella conquista del territorio in aperta campagna, dove andavano in esplorazione. In estate gli piaceva fare il bagno con i ragazzi della “banda dei Lupi”, dove si aggregava al gruppo sempre qualche bambina a cui fare delle avance.
Quando si erano seduti a tavola la diretta era iniziata da poco. Nello studio televisivo allestito per l’occasione, il conduttore spiegava alcuni dati tecnici relativi all’impresa dialogando a distanza con il corrispondente da Houston, dove si trovava il quartier generale della N.A.S.A. L’attesa dello sbarco poteva essere accompagnata solo da parole, mentre a intervalli regolari le telecamere riprendevano la folta platea di ospiti chiamati ad assistere all’evento. Tito Stagno, il giornalista che ogni sera conduceva il telegiornale, era alla sede RAI di Roma, mentre Ruggero Orlando interloquiva dall’America, per il momento lanciando solo aneddoti e pettegolezzi per spezzare l’attesa, corredati da alcuni dati statistici che nessuno capiva.
– Vorrei proprio cambiare lavoro, non ce la faccio più a fare questa vita – disse Carlo bevendo del vino. Non riusciva a togliersi dalla testa il fatto che di domenica pomeriggio aveva camminato per le strade di una città deserta e poi viaggiato nella desolazione di un treno dove si moriva dal caldo. – … Altrimenti troviamo da alloggiare in città. Ci trasferiamo, come già fanno in tanti.
– Dio mio, quanto sei drastico! – disse Emma ridendo.
– Ho poco da scegliere, mi pare.
– Stamani ho incontrato la mia amica Vittoria, che lavora alla fabbrica di confezioni aperta da poco sulla circonvallazione… Hai presente? Lei è nel reparto stiratura, ma pare che stiano cercando delle sarte esperte da assumere in pianta stabile. Così mi ha suggerito di andare a parlare con il proprietario. Tra l’altro credo di conoscerlo, se ho ben capito chi è siamo coetanei, perché abbiamo frequentato il catechismo della cresima e della comunione nello stesso anno.
– Smetterai di lavorare in casa?
– Le poche clienti che mi restano potrei sempre mantenerle lavorando nel tempo libero. Non mi fa paura questa cosa.
– Pensavo di trasferirci in città, perché per me sarebbe più facile mettersi a cercare un’altra occupazione – disse Carlo.
– Non lo metto in dubbio, ma vuoi decidere proprio stasera?
– E quando allora? … Una volta deve essere.
– Prima di lasciare tutto quanto, non è il caso di pensarci su bene?
– Cosa ci lasciamo qui, sai dirmelo?
– Lasceremmo tutto, Carlo… Tutto.
– Non credo che ne sentirei troppo il peso, … credimi.
– Abbiamo la casa di proprietà, che vuoi fare in città, tornare ad affitto?
– La vendiamo, la nostra casa. Come accade a tutti quelli che si trasferiscono per iniziare una nuova vita.
– Tu credi che sia come far schioccare le dita? … Questo è un momento che in tanti se ne stanno andando. Guardati un po’ intorno: c’è una marea di case in vendita.
– Torniamo ad affitto, quando è venduta questa ne compriamo una in città che ci piace. Non mi sta fatica parlarne in questi termini.
Emma aveva messo in tavola il tegame con il pollo alla cacciatora guardando pensierosa verso i figli. Faceva ancora caldo, nonostante tutte le finestre spalancate creassero una leggera ventilazione. Dalla strada non nasceva un rumore, un suono, neanche il semplice brusio della voce di alcune persone intente a parlare, che per essere la sera di una domenica di piena estate sembrava una situazione davvero assurda. Carlo si era tolto la camicia nel timore di ungerla, restando in canottiera. Lei cominciò a distribuire la carne nei piatti insieme ad un contorno di peperonata.
– Me lo immagino, amore mio, con la vita che stai facendo, ma sarebbe importante anche per me, perché se mi prendono alla fabbrica potrei avere davanti un po’ di anni di lavoro con i contributi, e farmi una pensione. Altrimenti, dando per scontato che non muoio prima, quando sono vecchia resterei fregata. Credi che le mie clienti dureranno ancora per molto? Ormai tutte si servono nei negozi di abbigliamento perché non solo è più economico, ma dal momento che è scelto possono indossare l’abito. Le ho contate, ormai faccio affidamento su una trentina di clienti, la maggior parte delle quali viene solo per aggiustare dei vecchi vestiti, non per staccarne di nuovi. Lo vedi anche te, che con quello che guadagno, aiuto poco la ditta – concluse Emma ridendo.
– In sostanza, hai già deciso.
– Sì, domani mattina vado a parlarci. Non è detto che senza appuntamento mi riceva, ma voglio provare lo stesso. La vergogna ormai l’ho vinta da quando mi barcameno con i debiti nei negozi dove faccio la spesa ogni giorno. Ho quasi quarant’anni, e poi i ragazzi stanno crescendo, sanno prendersi cura di se stessi.
– I ragazzi, … si fa tutto per loro.
– Non dovrebbe essere così?
– … Già.
– Quest’anno Marisa è andata molto bene a scuola. Da quello che dicono i professori, si sta impegnando molto. Finite le superiori vuole iscriversi all’università per fare la giornalista.
– Non le basta essere ragioniera?
– No babbo, non mi basta! – si intromise Marisa. – Anche perché ho capito che fare i conti è una vita troppo triste.
– Io allora voglio fare l’astronauta – urlò Matteo ridendo. – L’astronauta, o altrimenti l’archeologo.
– E io fare la regina delle nevi, guarda un po’! – disse Emma scocciata. – Possibile che vuoi sempre intrometterti con i tuoi problemi, quando ci sta parlando tua sorella.
– Mamma, però alla fine sono d’accordo con il babbo sul vivere in città.
– Stai zitta Marisa, … per piacere – Emma alzò il braccio.
– Perché devo tacere? Me lo sai spiegare cosa ci facciamo ancora qui? Il babbo ha ragione.
– Non ci vedo la convenienza a perdere tutti gli amici che mi sono fatto! – disse Matteo indispettito.
– Cosa possiamo farci se sei un cretino!
Emma supplicò entrambi i figli di cessare quel battibecco, guardando Carlo perché le desse manforte.
– Perché devo smettere?
– Bamboccio – disse Marisa, – sei solo un bamboccio viziato.
– Ora basta!!! Non voglio più sentirvi parlare con quel tono di sfida.
– Stiamo discutendo, non è che abbiamo già deciso – disse Carlo. – Se cominciate a litigare voi ragazzi, aggiungiamo confusione alla confusione, il che non ci farà fare una scelta serena. In famiglia ci si confronta come dio comanda.
– Ma babbo – lo interruppe Marisa, – possiamo almeno dire la nostra?
– Parlare sì, ma senza litigi, porca miseria! Altrimenti che ci stanno a fare i genitori? Bisogna giocare di squadra, non è questo che vi abbiamo insegnato?
– Il babbo ha ragione di lamentarsi, lo smarrito è lui, da quando ha chiuso la ditta dove lavorava. Cercate di capire, come non sia semplice cambiare le abitudini, senza che ne hai realmente voglia – disse Emma.
Matteo la fissò intensamente per un attimo, prima di essere assorto dalle immagini di un paesaggio africano che stavano andando in onda alla televisione, nell’attesa dell’atterraggio degli astronauti sulla luna. C’era una pianura sconfinata, dove cinque o sei selvaggi armati di lancia seguivano le tracce di alcune gazzelle, in un sottofondo di musica tribale, ritmata dai tamburi. Solo una breve parentesi di pochi minuti, mandata in onda sulla conversazione tra il conduttore e un famoso antropologo che spiegava la strada percorsa dall’umanità in tutti gli anni che separavano il presente dall’età della pietra, quando la conoscenza del firmamento era piuttosto legata a una forma di magia che tutti rispettavano, ma solo gli sciamani sapevano leggere compiutamente, collegandola ai misteri più oscuri e insondabili della vita.
– Da come si è messa la faccenda, lo capite o no che qui non c’è pane? – Cercò di concludere Carlo, in tono rassegnato.
– E le nostre famiglie? – gli chiese Emma, – di questo non ti preoccupi?
– Sai che goduria! Una sorella quasi pazza, … e un fratello che se tutto va bene si ricorda che ci sono a Natale e a Pasqua. Se non fossi io a cercarlo, saremmo come dei perfetti estranei. Le vicissitudini di Emilia poi, le conoscono anche i muri delle case. Povera donna, mi sono masticato il fegato, per cercare di capire come sia stato possibile arrivare a tanto.
– Pensi di riuscire a dimenticare tutto fuggendo?
– Perché no?
– Non credo funzioni così, con i dispiaceri.
– Ma certo, vivere in città è diverso. Oggi come oggi, appena salgo sul treno, mi prende male a vedere le facce dei paesani. Sono lo specchio della rassegnazione, con quelle espressioni assenti, disilluse, sempre uguali, sempre le stesse. Sarà che non avevo programmato di vivere sui treni una bella fetta della mia vita, per questo ho paura.
– Non ti sto dando torto, chiedo solo di aspettare qualche altro giorno. Tu hai il vizio di affrontare sempre i problemi di petto, ma quando non si aggiustano restiamo sospesi come in un limbo. Non tanto per i ragazzi, su questo hai pienamente ragione: la città offre più opportunità. Ma per la casa, … Dio! … Fa paura anche solo il pensiero di ripartire da zero.
Emma mandò giù un mezzo bicchiere di vino pretto, in una smorfia di sorpreso disgusto prese a sbucciarsi una mela, con calma, senza neanche guardare il piatto dove c’era tutto il suo cibo.
– Ci godi a frenarmi gli entusiasmi, è sempre stato così.
– Carlo, lascia stare… Fammi il favore di non dire certe cazzate.
Gli chiese una delle sue sigarette senza filtro. Non fumando spesso i suoi gesti erano impacciati, così dopo un po’ di tiri le uscì fuori una smorfia e senza indugi la spense nel posacenere che già si trovava sulla tavola.
– Mi domando come puoi mettere in corpo questa robaccia del fumo.
– Non vedi che l’hai ciucciata – disse Carlo ridendo. – E’ per questo che ti fa schifo.
– Marisa, aiutami a sparecchiare, così guardiamo l’ammaraggio della navicella spaziale sulla luna. A sentirli parlare, sembra quasi che ci siamo.
– Sì, mamma.
– Ho capito benissimo ma, per piacere, aspettiamo qualche giorno prima di prendere una decisione risolutiva.
Con la sua voce appesa ad un sospiro, Emma sembrava intenzionata a voler chiudere qui l’argomento del trasferirsi a vivere in città.
– Per adesso torneremmo ad affitto – le disse Carlo, parlando con un tono della voce che non aveva niente di perentorio, quasi come se fosse pentito di avere introdotto un argomento così importante a tavola, davanti ai figli.
– Il futuro è sempre dietro l’angolo, lo sai meglio di chiunque altro. A volte però mi sembri come un ragazzo che prende la vita di punta.
– Non mi sono mai fatto illusioni, invece… Specie dopo la chiusura della fabbrica di borse.
– I tuoi figli dovranno studiare.
– Lo so, che credi? Ci vuole poco a capire che oggi senza un diploma non sei nessuno.
– E tua figlia, anche se poi non farà la giornalista, non vuoi metterla nella condizione di realizzare i suoi sogni?
– Io non dico che deve smettere gli studi finite le superiori, però è una strada lunga.
– Abitare in città è togliersi una soddisfazione, allora?
– Lasciami in pace, Emma.
– Non dovevi neanche parlarne, tutto qui. Almeno stasera. Sei il solito pezzo di somaro, che quando prende la rincorsa va dritto a scapocciarsi contro il muro.
– Perché? … Non bisogna cominciare a guardarci in faccia, tutti quanti! E’ bello, secondo te, vivere di sacrifici e basta?
– No che non è bello, ma non credere di essere il solo a farli. Pensa a tutto quello che faccio per tua sorella; nonostante il lavoro, la famiglia, mi costerà o no questo sacrificio di occuparmi della sua salute mentale?
– Anche Emilia adesso, … tiri fuori.
– Certamente, … o forse sei così egoista che immagini sono una specie di santa?
– Che c’entra?
– … Be’, allora sarebbe diverso. Se fossi una santa avrei altri scopi nella vita, e prima di tutto non mi sarei sposata con te ma con Gesù Cristo.
– Mia sorella non può sempre frenarci, però.
– E lo dici te, … a me… Adesso?
– Heiii! – urlò Matteo – Ci siamo. La navicella sta atterrando sulla luna.
Tutti si voltarono verso lo schermo del televisore, dove gli occhi sgranati del presentatore, da dietro gli occhiali da vista, sembravano meravigliarsi nell’attimo stesso in cui cercava di rendere partecipi gli spettatori. Era seduto, piegato in avanti verso il microfono, in attesa dell’evento. I suoi occhiali ingigantivano in modo spropositato la meraviglia delle pupille dilatate dalla gioiosa sorpresa.
– Ha toccato il suolo lunare!!!
Uno scroscio di applausi confuse per un attimo la sua voce, che subito sembrò riprendersi alzando il tono.
– Iauh!!! – urlò Matteo, imitando l’applauso delle persone ospiti nello studio televisivo.
– Evviva!!! – disse Emma ridendo. – Marisa, non sei contenta?
– Sì, certo.
– … No, non ha toccato – ribadì il corrispondente da Houston, dov’era situato il quartier generale della N. A. S. A.
– Allora, che succede? – Carlo bevve il po’ di vino che restava nel fondo del bicchiere. – Ci stanno prendendo in giro? … Ha toccato terra o no?
Matteo si voltò verso i suoi genitori.
– Secondo Ruggero Orlando da Houston, pare di no.
– Ci stanno prendendo per i fondelli – disse Carlo ridendo. – E non sarebbe nemmeno la prima volta che questi americani ci raccontano delle balle.
– Signore e Signori, sono le ventidue e diciassette in Italia, sono le quindici e diciassette a Houston, sono le quattordici e diciassette a New York … Per la prima volta un veicolo pilotato dall’uomo ha toccato un altro corpo celeste. Questo è il frutto dell’intelligenza, del lavoro, della programmazione scientifica. Questo è il frutto della fede dell’uomo… – Esultò Tito Stagno, dallo Studio Tre di Via Teulada. – A voi, Houston …
– Qui ci pare che manchino ancora dieci metri – ribadì Ruggero Orlando, con una voce incerta, tremolante.
– Ah! – Esclamò il conduttore da Roma, lanciando in avanti le mani e scuotendo la testa.
– Ci fanno venire il mal di capo, altroché. Se continua il battibecco, prendo e vado a letto – disse Carlo.
– No Ruggero… No Ruggero. Se abbiamo capito bene le comunicazioni fino adesso, da due metri e mezzo non si passa a dieci.
– Ecco, ha toccato proprio in questo memento! – Confermò Ruggero Orlando.
Un nuovo scrosciante applauso partito dallo studio aveva finito per coinvolgere tutta la famiglia, contemporaneamente sembravano entrare nella loro casa anche le grida e le voci divertite provenienti dalle altre abitazioni dove si stava guardando la televisione. Le finestre aperte rinviavano gli applausi nello spazio esterno, sotto un cielo ormai nero e pieno di stelle.
– Ha fermato i motori in questo momento. C’è, praticamente, un errore comprensibile, perché era effettivamente atterrato quando io l’ho detto alle ventidue e diciassette precise, ma il motore è stato spento un pochino più tardi. Vi ripetiamo, l’uomo è atterrato sulla luna. A te Orlando, … per i commenti da Houston; … per la reazione da Houston.
– Sai, quella piccola differenza, quei pochi secondi di differenza nell’ammaraggio, … probabilmente era per dare il tempo agli astronauti che avevano toccato il suolo lunare con dei fili che prolungano le gambe, … per sentire se tutto era a posto.
– Allora è fatta – disse Emma ridendo. – Siamo sbarcati sulla luna, sani e salvi. Mi sembra perfino impossibile. Carlo, offrimi un’altra sigaretta.
– Adesso dovranno scendere a fare i primi passi – Carlo le porse la sigaretta già accesa.
– Babbo, prima di uscire dalla navicella spaziale ci vorrà del tempo – disse Matteo.
– Alla fine li vedrò camminare sulla luna in sogno, perché fra poco vado a letto.
– E’ una diretta che prenderà tutta la notte – disse Emma.
– Ecco, appunto, … mentre io sono stanco. Muoio dal sonno.
– Anche noi sai, non ce la facciamo a stare alzati tutta la notte.
– Io sì, mamma, perché voglio seguire tutta la diretta – disse Matteo.
– Immaginavo quale fosse il tuo desiderio, ci farai uno dei temi che hai nei compiti delle vacanze estive?
– Sì, certo.
– Nello studio televisivo c’è euforia, ma chissà per quanto ancora non succederà niente. Marisa, aiutami a lavare i piatti.
Mentre Carlo si coricava, gli altri rimasero in cucina, ma adesso solo Matteo restava incollato alla televisione. Non perdeva una parola di ciò che veniva detto, neanche quando sullo sfondo si sentivano gli astronauti conversare con i tecnici della base spaziale di Houston, in uno scenario di linee curve della superficie lunare che si perdevano nelle profondità dello spazio, ripreso con le telecamere montate sulla navicella.
Dopo aver aiutato la madre, Marisa si era messo il pigiama e spazzava sotto il tavolo dove avevano mangiato.
– Non ti interessa vederli scendere a fare i primi passi sulla luna? – le chiese Matteo.
– Chissà quando avverrà? … Non ho tanta voglia di aspettare.
– Resta a farmi compagnia.
– Non credo proprio!
– Almeno se la mamma va a dormire.
– Quante volte ce le faranno vedere domani, le stesse immagini?
– Ma non sarà mai come viverle in diretta!
– Contento te …
Emma rimase alzata fino alle due di notte, per fare compagnia al figlio che – nonostante la stanchezza palese – non demordeva. Le immagini provenienti dallo studio televisivo restavano per lo più sul primo piano del conduttore che discorreva con varie personalità presenti.
Alle quattro del mattino Matteo si riscosse perché aveva sentito suonare la sveglia nella camera dei suoi genitori. Per restare desto aveva preferito guardare la Tv seduto sulla sedia, piuttosto che spostarsi sul divano, e ora aveva dei fastidiosi dolori al collo e lungo la spina dorsale. Il tempo di distendere le braccia verso l’alto e dondolare la testa con vigore, che apparve suo padre a prepararsi il caffè.
– L’hanno fatta o no, questa benedetta passeggiata?
– Non ancora babbo, ma dovrebbe succedere a momenti.
– Si fanno desiderare. Non è così?
– Già.
– Preparo una fetta di pane e marmellata anche a te?
– Sì, grazie.
– Però appena li hai visti scendere, prendi e vai a letto. Altrimenti ti trascinerai tutto il giorno come un morto vivente.
– Non resti un po’ a farmi compagnia?
– Appena un quarto d’ora, poi c’è il treno che mi aspetta.
– Forse riuscirai a vederli.
Carlo gli passò la fetta di pane, prima di andare in bagno a lavarsi e poi vestirsi. Come al solito, appena sveglio non riusciva a pensare a niente, restava prigioniero di un torpore che lo accompagnava anche nel tratto di strada fino alla stazione, mentre appena si sedeva sul treno si riaffacciava nuovamente il sonno.
– Sono ancora allo stesso punto?
– Sì, babbo.
– Me ne devo andare… Ciao bello, … buona giornata.
– Ciao.
– Ci vediamo stasera.
– … a stasera.
* Il disegno in testa al racconto è di Nilo Australi