frammento per Prof Samizdat
di Ennio Abate
Mi telefonano. Ictus. Ricovero in una clinica. Visite solo dai parenti. Da mesi non ti sentivo, o voce telefonica elusiva, corrosa d’amarezza, violenta a tratti. Mi richiamavi solo dopo qualche giorno dal mio solito «come va? fatti sentire» che lasciavo nella segreteria telefonica. Dicevi che saresti passato ancora in questo mio altro accampamento di tenaci indagini sul nulla degli sconfitti. Ma sapevo che non saresti più passato. Non era facile per te, mitizzatore feroce della mia e tua giovinezza, sopportarne la perdita e trovare buchi nelle nostre stanchezze scostanti.
Ah, il tuo desiderio folle! Ricordi quella sera? A a forza di discorsi volevi sottomettermi al tuo delirio eroico e protervo. Li respinsi, protervo io pure per l’occasione. Potevo solo assisterti. Come si fa con un malato che ti vuole inchiodato al suo letto. E per l’intera notte accettai di esserlo. Ti lamentasti, ti disperasti, scaricasti il tuo odio. Poi non ci vedemmo più per mesi. Né mi occupai più di te. controllando nella mia rubrica telefonica i nomi di amici e conoscenti, il tuo mancava. Avevi bussato forte alle porte del mio cuore, non a quelle della mente. E ti avevo aperto lo stesso. Mi lasciasti il tuo vuoto accanto al mio.
Dopo la luttuosa telefonata annunciatrice dell’ictus, i medici ti hanno trovato una brutta neoplasia. Mi informano che sei semicosciente. Vai avanti con antidolorifici. I tuoi stanno pensando di farti morire fuori dall’ospedale. Ma in quale casa? La tua ultima – mi avevi detto – era un buco, una tana.
E allora sono arrivato a rivederti. Ho preso il metró. Sono uscito in un quartiere mai visto prima. Mi sono fatto indicare da due passanti la direzione da seguire per arrivare alla clinica. Ho chiesto ancora conferma a un anziano dai capelli bianchi come i miei. L’ho rivisto di nuovo all’ingresso della clinica. Sono salito al quarto piano. Stanza 314. Porta socchiusa.
Sei disteso con lo schienale molto sollevato. Il tuo volto è più affilato e scavato di quanto ricordassi. Una figura di El Greco. Occhi vitrei, uno più spalancato dell’altro. Un braccio scheletrico col polso fasciato appoggiato dietro il cranio. Accanto al tuo letto una donna. Si alza dalla sedia e mi viene incontro. Alzando la voce, provo a dirti il mio nome. Poi quello di amici comuni di quei tempi diventati così improvvisamente lontanissimi. E di alcune città in cui ci eravamo incontrati. Non reagisci. In silenzio, dunque, accanto a te.
Inaspettatamente suona il mio cellulare. È nella tasca del cappotto che avevo appoggiato su una sedia. Afferro il cappotto e scappo innervosito fuori dalla stanza. È C, che vuole parlarmi. Lo blocco. Gli dico che sto in ospedale da un amico che sta male. Che lo richiamerò. Perché non gli dico che stai morendo?
Nel corridoio c’è la signora di prima. Parla, parla. Dice: Terribile Milano. Che disumanità. Come si fa a viverci. Ti ha visto anche nel camerone della clinica dov’eri ricoverato prima che scoprissero il male incurabile. Non eri da solo come adesso, ma assieme ad altri malati. Dice che lei non aveva sopportato l’indifferenza degli infermieri. Guardavano la TV. Trascurando i malati. Dice pure che ora vive in campagna. Lei e un amico fanno gli artigiani. Ricavano dal legno oggetti per bambini. Continua. Dice che sei stato un uomo straordinario. Che è colpita dalla dignità con cui stai affrontando la morte.
Rientro con lei nella stanza. Ti guardo. Ogni tanto ti agiti, sembri guardare dalla mia parte. M’illudo che tu abbia un momento di lucidità. Mi avvicino di più al tuo volto. Ti ripeto ancora il mio nome. Spalanchi gli occhi. Apri anche un po’ la bocca. Sembri stupefatto e impaurito. Poi abbassi le palpebre e volgi il viso dall’altra parte, appoggiandolo al cuscino.