Maylis de Kerangal, Riparare i viventi
di Elena Grammann
Nel primo capitolo del pamphlet Contro l’impegno (di cui ho parlato qui), intitolato “L’epoca dello spezzatino e la letteratura terapeutica”, Walter Siti riferisce la posizione del critico e accademico francese Alexandre Gefen (Réparer le monde: la littérature française face au XXIe siècle, Éditions Corti 2017) che, su base di ricerca empirica, individua il nuovo ruolo della letteratura – francese, ma si intende europea e perché no mondiale – nella funzione curativa. Compito della letteratura è prendersi cura dello spirito-corpo dei lettori, contribuire al loro benessere e miglioramento morale come singoli e come collettività. Di fronte a questo compito, altre specificità delle cosiddette “belle lettere”, prima fra tutte la specificità estetica, passano in subordine e, passando in subordine, ci si chiede dove vadano a finire. In altre parole, cosa distingue, secondo questo approccio, un buon romanzo – cioè un romanzo curativo[1] – da un buon saggio? Qual è – ammesso che se ne voglia ancora parlare – il senso della specificità estetica, se non di spedire l’incauto autore che ancora la persegua nell’infernale torre d’avorio degli esteti? O – peggio ancora! – di essere ridotta a orpello ornamentale, arzigogolo letterario, inutile affaticamento per i nostri già stanchi cervelli, che è precisamente ciò che gli scrittori terapeutici e pedagogici vogliono evitare? Questo è il punto che cercherò di discutere.
Partiamo da un’osservazione di Siti:
La letteratura francese degli ultimi vent’anni (Gefen non ha dubbi su questo) intende “agire, rimediare alle sofferenze” – Maylis de Kerangal “vuol fare del bello mediante il bene, e del bene mediante il bello”, Emmanuel Carrère in Vite che non sono la mia insegna (perché lui stesso l’ha imparato) che ciò che ci unisce agli altri è più importante di ciò che ce ne distingue. Si tratta di una buona scrittrice e di un grande scrittore, ma Gefen non ha alcun problema a metterli accanto a scrittori mediocri o pessimi, o perfino ai prodotti collettivi degli ateliers d’écriture.
Di Carrère conosco alcune cose (ma non il romanzo citato); è un autore di stazza notevole, il che vuol dire complesso, eminentemente letterario, dunque non adatto allo scopo. Prendiamo, come più rappresentativa, la “buona scrittrice” Maylis de Kerangal, che il romanzo Riparare i viventi (Réparer les vivants, 2013) ha sparato nell’empireo delle lettere francesi e che dunque, se qualcuno non ci mette buon ordine, è sulla via di diventare a sua volta una grande scrittrice. Oltretutto era un romanzo che volevo leggere – non che lo desiderassi, sia chiaro; ma mi toccava.
Riparare i viventi è la storia di un trapianto di cuore. Gli eventi narrati comportano ventiquattro ore esatte. Kerangal stessa dice in un’intervista:
C’è anche il fatto che il mio racconto si svolge in uno spazio di ventiquattro ore. Ci tenevo per dei motivi di forma, affinché ci fosse unità di tempo (la giornata), unità di luogo (l’ospedale di Le Havre) e unità d’azione (il trapianto). Sono i tre aspetti che fondano la tragedia, assieme all’idea che la Terra compie un giro su se stessa, che le cose continuano.[2]
Ombra lunga di Racine e del grand siècle; ma già da queste affermazioni si nota come i “motivi di forma” rimangano esterni e, in un certo senso, “appiccicati sopra”. A parte l’unità di tempo (comunque abbondantemente sbriciolata per il semplice fatto che un romanzo non è una tragedia, e questo men che meno), le altre due sono al massimo tendenziali: l’unità di luogo non può essere – comprensibilmente – mantenuta perché l’impianto del cuore si fa in un altro ospedale, di un’altra città, e tutte le persone coinvolte nell’impianto, con le loro storie, afferiscono a questa altra città; ma soprattutto l’unità d’azione – il trapianto – si apre in due metà abbastanza disomogenee: l’espianto e l’impianto; talmente disomogenee che la seconda parte del romanzo, relativa all’impianto, vira dalla tragedia al dramma satiresco[3].
Ma lasciamo stare Aristotele e gli altri antenati nobili (chanson de geste, epica omerica) che Kerangal individua per il suo romanzo. Il discorso mi interessava per un sospetto di scollamento fra (presunta) forma e (presunta) sostanza che sarà da riprendere. Veniamo invece alla materia del romanzo – nel senso del tema, ma soprattutto della prosa di cui è fatto. Simon Limbres, un ragazzo di diciannove anni, molto sportivo e un po’ temerario (nell’equazione kerangaliana il corrispondente contemporaneo dell’eroe omerico) è vittima di un incidente. All’arrivo dell’ambulanza il ragazzo è in coma ma il cuore batte ancora. Ricoverato in rianimazione, l’encefalogramma evolverà rapidamente verso il piatto definitivo, senza che sia possibile intervenire date le dimensioni del danno; tuttavia una vita vegetativa, e dunque il battito cardiaco, potrà essere mantenuta per un tempo breve con l’aiuto delle macchine[4]. Ma vediamo un po’ da vicino la prosa. Una gelida alba di febbraio, in Normandia, su una spiaggia deserta, tre ragazzi si regalano una sessione di surf. Il lettore si attende l’incidente, ma no, va tutto bene. L’incidente è un banale incidente d’auto, come ce ne sono purtroppo tanti, sulla via del ritorno. Chi guida il furgone che si sfascerà contro un palo non è Simon Limbres ma un altro del trio, Chris:
I ragazzi hanno smesso di battere i denti, il riscaldamento del pullmino è al massimo, così come la musica, e certamente il caldo che ha invaso l’abitacolo produce un altro shock termico, certamente la stanchezza si fa sentire, sbadigliano e dondolano la testa, cercando di rannicchiarsi contro lo schienale dei sedili, ovattati nelle vibrazioni del veicolo, nasi tappati nelle sciarpe, e certamente li prende il torpore, le palpebre si chiudono a intermittenza, e allora forse, superato Étretat, Chris ha accelerato senza nemmeno rendersene conto, spalle accasciate, mani pesanti sul volante, la strada diventata un rettilineo, sì, forse si è detto, okay, è tutta libera, e la voglia di accorciare il rientro per andare a sdraiarsi a casa, smaltire il contraccolpo della sessione, la sua violenza, ha finito per pesare sulla velocità, e così si è lasciato andare, tagliando l’altopiano e i campi neri, arati, i campi a loro volta immersi nel sonno, e certamente la prospettiva della statale – una punta di freccia conficcata davanti al parabrezza come sullo schermo di un videogioco – ha finito per ipnotizzarlo come un miraggio, così che fissandola ha perso ogni vigilanza, e tutti ricordano che quella notte aveva gelato, l’inverno aveva steso sul paesaggio una patina sottile, tutti sanno delle lastre di ghiaccio che si formano sull’asfalto, invisibili sotto il cielo opaco ma capaci di cancellare il ciglio della strada, e tutti immaginano le cortine di nebbia che planano a intervalli irregolari, compatte, quando l’acqua evapora dal fango man mano che sorge il sole, banchi di nebbia pericolosi che filtrano il mondo esterno annullando ogni punto di riferimento, sì d’accordo, e cos’altro ancora, che altro? Un animale che attraversa la strada? Una vacca smarrita, un cane strisciato fuori da un recinto, una volpe dalla coda di fuoco oppure una sagoma umana spuntata come un fantasma sul ciglio della scarpata da evitare all’ultimo momento con una sterzata? O un canto? Sì, forse le ragazze in bikini che tappezzavano la carrozzeria del suo van si sono animate all’improvviso per andare ad arrampicarsi sul cofano e invadere il parabrezza, lascive, chiome verdi e voci non umane, o troppo umane, e Chris ha perso la testa, attirato nella loro trappola da quel canto che non era di questo mondo, un canto di sirena, un canto fatale? Oppure, forse Chris ha fatto un falso movimento, sì, ecco cos’è stato, un gesto inconsulto, così come il tennista manca un colpo facile, o come lo sciatore spigola, un’idiozia, forse non ha girato il volante quando la strada invece faceva una curva, o infine, perché bisogna considerare anche questa ipotesi, può darsi che Chris si sia addormentato al volante, abbia lasciato la campagna monotona per entrare nel tubo di un’onda, nella spirale meravigliosa e improvvisamente intelligibile che fila davanti al suo surf, risucchiando il mondo, il mondo e l’azzurro del mondo.[5]
La figura di questo pezzo di bravura è l’accumulazione. Figura di sicuro e sperimentato effetto, bravura indubitabile. Accumulazione di ipotesi sul perché il furgoncino abbia a un certo punto sbandato sulla sinistra e si sia schiantato contro un palo a una velocità di novantadue chilometri orari senza che sia presente traccia di frenata (questi gli elementi appurati dalla polizia stradale). Accumulazione di ipotesi che presuppone l’impossibilità di accertare quale sia quella giusta (colpo di sonno, intontimento, nebbia, ghiaccio, falso movimento, animale che taglia la strada ecc.), il che implica a sua volta che nessuno sia sopravvissuto, e in ogni caso non il guidatore. E in effetti l’impressione del lettore, a questo punto della lettura, è che siano morti tutti e tre. Questa è, contemporaneamente, l’informazione implicita veicolata dal “pezzo” e il senso del suo esistere, del suo essere stato scritto. Tot pagine più avanti, tuttavia, si apprende con una certa sorpresa che il solo deceduto è Simon, mentre gli altri due, grazie alle cinture allacciate, se la sono cavata in fondo piuttosto bene, diverse fratture ma nessun organo leso. Quindi non è vero che fosse impossibile appurare cos’era successo, come suggerisce il brano citato; era possibilissimo e anzi, da parte della narratrice onnisciente che è anche l’autrice, doveroso. O se, per motivi suoi, non voleva appurarlo, nulla però la autorizzava a scombinare le carte a esclusivo beneficio di un effetto estetico. Effetto estetico senza legame funzionale con il tutto dell’opera – puro ornamento.
Qual è quindi il senso dell’accumulazione – figura di stile molto amata da Kerangal che ce la serve quasi ininterrottamente dall’inizio alla fine del romanzo? Il senso è la bravura, il virtuosismo: in questo caso, ma esemplarmente, fine a se stesso. A proposito di un altro testo della nostra autrice, Richard Millet, personaggio della scena letteraria francese piuttosto fuori dagli schemi, e con le cui posizioni io non mi trovo necessariamente d’accordo, parla di barbe à papa, la nuvola di zucchero filato avvolta su un bastoncino che si compra alle fiere e piace tanto ai bambini[6]. Millet si riferisce probabilmente a un certo buonismo scontato e zuccheroso, ma io trovo che l’immagine della barbe à papa suggerisca molto bene il gonfiarsi e arrotolarsi, in spirali a effetto, di una materia inconsistente che, alla prova, finisce in un niente appiccicoso e svela come nucleo duro un nudo e disomogeneo stecchetto.
Perché, riassumendo e per concludere, cosa abbiamo alla fine? Abbiamo una struttura didascalico-divulgativa sul trapianto di cuore – procedura che comporta aspetti biologici, medici, giuridici, organizzativi, psicologici, emotivi. Gli aspetti biologici, medici, giuridici e organizzativi, in parte anche certi aspetti psicologici, fanno l’oggetto di un’esposizione generalmente asciutta, che potrebbe anche dirsi saggistica se non fosse un po’ troppo cursoria, un po’ troppo divulgativa appunto, da enciclopedia per la famiglia. Altri aspetti psicologici e soprattutto gli aspetti emotivi “plasmano” certi personaggi: in primo luogo la madre, poi il padre, molto più marginalmente la fidanzatina. Tutto l’ambito dell’emotività, con relativi personaggi, è ambito di invenzione. Di accumulazione in accumulazione e di bravura in bravura Kerangal se la cava discretamente, senza però che il lettore – proprio per l’uso dilagante di figure retoriche macroscopiche – dimentichi che sta leggendo una finzione. Poi ci sono tutti gli altri: medici, infermieri, la donna che riceverà il cuore di Simon; ognuno con la sua storia più o meno sviluppata, con i suoi segni distintivi, somatici e caratteriali. E qui finiamo – né poteva andare diversamente – nelle immediate vicinanze delle serie televisive che Kerangal critica espressamente ma dalle quali i suoi personaggi non protagonisti in fondo non si distinguono. E come potrebbero, applicati come sono dall’esterno a un’ossatura che non li riguarda, uno schema teorico-didattico che devono industriarsi di rimpolpare, di rendere appetibile, suscitare la curiosità per la pagina seguente, soprattutto arrivare a un numero congruo di pagine e fare in modo che il lettore le ingoi senza recalcitrare; così come i pezzi di bravura servono a dargli l’impressione che stia leggendo letteratura. E avremmo il paradosso che proprio la letteratura terapeutica, quella che ha in spregio la specificità estetica, che aborre la torre d’avorio e mira al sociale al buono al sodo, proprio quella si serve dei trucchetti “estetici”, in quantità industriali, per far passare la sua mercanzia.
Però la lettura di Riparare i viventi a qualcosa è servita. Adesso capisco quelli che hanno smesso di leggere romanzi e leggono solo saggi. Se il romanzo è diventato così, se si è ridotto così, hanno perfettamente ragione.
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[1] Si intende naturalmente anche pedagogico. Ad esempio, a proposito di un racconto la cui protagonista non si accorge che il concupito ha interessi omosessuali, una lettrice lamenta che il racconto manca di educare le ragazze a non fare le finte tonte.
[2] https://lesgeneralistes-csmf.fr/2014/05/15/maylis-de-kerangal-donner-un-organe-cest-remettre-son-corps-au-pot-commun/
[3] In questo senso il romanzo di Kerangal non sarebbe semplicemente l’equivalente contemporaneo di una tragedia classica, ma di un’intera giornata a teatro nell’Atene del V secolo.
[4] Questo – la contraddizione fra la morte cerebrale e un’apparenza di vita – è o dovrebbe essere il nucleo del romanzo ed è infatti la parte buona, convincente, anche stilisticamente. Purtroppo breve, né si vede come sarebbe stato possibile tirarla più in lungo.
[5] Riparare i viventi, Feltrinelli 2015, trad. di M. Baiocchi con A. Piovanello, p. 20s.
[6] “ce texte [relève] surtout de la barbe à papa idéologico-esthétique” https://excerpts.numilog.com/books/9782756110981.pdf