di Franco Tagliafierro
“Mi ha colpito la situazione paradossale al centro di questo racconto che hai scritto nel 2000: la folla anonima e gregaria, che sente una “medesima coazione alla morte” e, ubbidiente e caparbia, si dà da fare per morire non per vivere. E’ l’idea forte del racconto. Mi ha fatto pensare ai dannati danteschi in attesa del naviglio di Caronte che trasformano la “tema” in “disio”. Ma, forzando, ho pensato anche a una allegoria dell’Italia invecchiata d’oggi. Dal punto di vista narrativo l’idea è ben svolta con variazioni, colpi di scena e trovate un po’ cabarettistiche (nel finale). Il tutto sotto la regia di un narratore intellettualmente anche un po’ sadico che dà sfogo al suo umorismo nero. Non manca la rivolta dell’individuo (la signora della Smith & Wesson), che non vuole rispettare il gioco sociale”. (Da una mail di E. A. all’autore)
Erano venticinque le persone accalcate dinanzi alla porta di servizio alle otto di mattina. In prevalenza uomini, età media trent’anni, facce meste, qualche bisbiglio.
– Che aspettate per entrare, che vi chiamino da dentro? – domandò uno spilungone in camice bianco uscito dal laboratorio, fermandosi a una certa distanza da loro.
Delusione: ecco il motivo per cui indugiavano. Avevano immaginato che sarebbero entrati tutti insieme, spalla a spalla, petti e schiene quasi a contatto, così ciascuno avrebbe avuto meno emozioni, meno paura. Invece avevano trovato aperta solo la porta stretta.
– Che aspettate, che vengano fuori loro? – li canzonò lo spilungone sforzando adeguatamente la voce.
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