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Da “La segreta isola di sale”

Da “ Il mare all’Estaque dietro agli alberi” di Paul Cézanne

di Emma Pretti

La danza degli alberi
 
Per tutto il giorno il vento
ha preparato un temporale,
ma il temporale non è arrivato.
Adesso ch’è buio gli alberi
continuano a scuotersi al vento
tagliente.
La notte è tersa e i loro profili
ondeggiano maestosi e piumati.
Al fresco fogliame di primavera
il vento non dà tregua.
La sua voce al mio sonno
non dà pace.
La danza degli alberi,
la coercizione del vento.
Un coro di tuoni e lampi
in lontananza.
Un’antica tragedia nell’aria,
davanti alla mia finestra
per tutta la notte.
 
 
 
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Temporale

 

da Prof Samizdat/Narratorio

di Ennio Abate

Solo una striscia di luce pallida e gialla illuminava ora il blocco dei palazzoni rossicci stagliati contro il cielo. Il resto era d’un azzurro sporco. Il temporale era imminente. Un’ombra, calata all’improvviso, incupiva anche il verde di un vasto campo che fiancheggiava i binari del tram. Attimo dopo attimo, in mezzo a folate sempre più forti di vento, quell’ombra, per effetto del sole che tramontava, si sollevava. Ora rodeva lentamente la facciata rossiccia dei palazzi.
Cosa faceva in quei momenti la gente nelle stanze ancora per un attimo soleggiate? Qualcuno di quelli che abitava ai piani più bassi, già investiti dall’ombra, s’era affacciato per vedere il dramma che il paesaggio della città mostrava? Prof Samizdat lo seguiva con un’ansia tenera.
Il terrorismo. In quegli anni lui era rimasto fissato  all’immagine pubblica, spettacolare che i giornali ne davano. in un corpo a corpo emozionale. Era diventato un osservatore meticoloso anche dei battiti più periferici di quelle azioni violente e sanguinose. A volte cercava di riscuotersi. Come si fa quando il sonno assale, ma non vuoi cedere. E scuoti la testa. Da mesi era in un volontario esilio dalle manifestazioni politiche. Non ci andava più. Le sue attività giornaliere non erano mutate quasi in nulla, rispetto al passato. Ma la stanza dove studiava era il laboratorio dove quella sua attenzione spasmodica si esercitava ripetutamente sui quotidiani, che accumulava in pile ordinate per mesi. Aveva alcuni libri in evidenza sul tavolo. Ascoltava i giornali radio. Sulla spinta che seguiva agli avvenimenti, progettava letture e approfondimenti. Ritagliava gli articoli con le opinioni che considerava più degne di riflessione. E aveva mantenuto i legami con alcuni che si occupavano dei detenuti politici finiti in carcere. Con uno di loro, PDG, si scriveva. Supponeva che molti altri, che come lui avevano partecipato alle lotte dell’ultimo decennio, facessero qualcosa di simile. Ma non ne era certo. E non voleva accertarsene. Non desiderava più occuparsi assieme ad altri di una politica andata in frantumi . Meglio ripensarla da eremita.

La maniera equivoca e festaiola del far politica in quegli anni che ora si disfacevano   furiosamente. I discorsi infuocati sulla rivoluzione non pranzo di gala. Fino alle bombe di Piazza Fontana, vogliamo tutto. Poi del tempo successivo di  sconfitta nuovi goliardi e nuovi giacobini si spartivano la gestione pubblica. All’inizio i potenti – un blocco per lui informe, mai  studiato, un concetto – erano stati sorpresi, ma  subito avevano  usato la loro potenza bruta. E quasi subito la fluida rete collettiva che dal ’68- ‘69 si era messa in moto quasi per incanto e sembrava estendersi gioiosa, giovanile, in piena autonomia, s’era irrigidita e slabbrata in più punti. Dalla calca euforica e dei simili (in apparenza) s’isolarono gruppi che insegnarono in fretta a fare scelte drastiche. E imposero discipline e riti partitici. Inevitabili? Non se n’era mai convinto, ma neppure che ci fosse una via diversa da quella che permise di intascare per un po’ il bottino d’intelligenza e passione di quei due anni esplosivi. Lo sistemarono in magazzini dalle dimensioni più  squadrate. Le solite. I più vecchi le conoscevano. Montaldi ne diffidava. Non si capì più quali spiragli erano riusciti ad aprire e quali erano rimasti  del tutto chiusi. Non si capirono neppure più  le involontarie deformazioni subite dalle parole collettive. Rotolavano immediate, grossolane, fra le folle che ancora si radunavano numerose, ma già stordite, dietro bandiere. E non si capiva più in cosa esse fossero abbastanza simili e dove inconciliabili.

Al mattino si svegliava al primo passaggio del metrò, verso le sei. Disinnescava il comando della radiosveglia. Accendeva la piccola pila arancione, aprendo lievemente le porte per non interrompere il sonno della moglie e dei figli, andava in cucina. Si preparava il caffè e poi si chiudeva in gabinetto. Milioni di movimenti simili ai suoi venivano fatti nelle altre abitazioni, nelle carceri, negli ospedali. E prof Samizdat pensava, ma dolorosamente, che anche in questi gesti semplici era stata impressa e si manteneva da secoli una  sottile violenza ormai quasi inavvertita. E che i corpi vi convivevano faticosamente, come con una protesi… […]

Ma quella morte, no! I democristiani se ne erano lavati le mani. Altri ragionarono fino in fondo. Qualcuno notò che Moro non era poi così innocente da essere avvicinato a Cristo. Altri non giuravano più neppure sull’innocenza di quest’ultimo. Quanto si parlò di vittima sacrificale, di necessità storica! Ragion di stato e provvidenza divina tornarono a confondersi. E dopotutto – pensarono sempre altri – si è trattato soltanto di un omicidio politico…[…]

Chiuso nella griglia strettissima di quei giorni, prof Samizdat fece l’unica cosa che gli era possibile: rovistare fra gli echi che gli arrivavano. A distanza. Dov’era precipitata nel frattempo la sua anima interrogante? E il suo corpo era ancora giovanilmente smagrito? Echi ed echi di echi. Nella griglia strettissima anche dei giorni successivi. Fare i conti, fare i conti! Ma non era un ragioniere. Era solo. Non contava nulla. “Sono per le trattative” disse impetuosamente e ad alta voce, sbracciandosi nel buio pur essendo solo nella stanza. E si alzò dalla sedia, spense la radio. Asfalti bagnati. Per la pioggia il traffico delle auto arrivava fino alla sua finestra. Come se friggesse. Intermittente. L’ascoltò come un’argomentazione imprevista ai suoi pensieri. Quel rumore di pneumatici sull’asfalto bagnato gli muoveva delle obiezioni. Ma chi imponeva quella dichiarazione, se non contava nulla? Era sempre solo nella stanza. La nube delle voci radiofoniche, dei titoli di giornali, delle immagini televisive s’era ormai azzittita. Le mille faccende della vita quotidiana continuavano. Avvolgevano anche i più schivi, i distratti, i disperati per conto proprio, i camminatori a testa bassa. Come prima. Le grandi tragedie non interrompono quasi mai gli impegni banali o semplicemente  avviati. Il rubinetto che cola una goccia dopo l’altra. Sogni e letture svagate, amoreggiamenti e invidie, affari e porcherie continuavano . In una cappa che li rendeva anzi più anonimi e riparati.  Ma il deposito corrosivo dei comunicati e degli scioperi in corso continuava nella sua mente. “Sono spaventato, sono inquietato” – disse ancora, accendendosi una sigaretta. E, ad alta voce, quasi per dar più consistenza alle sue parole, quasi a convincersi di più: “Sono inorridito per questa esibizione di durezza e di ferocia”. urlò accostandosi alla finestra.  “E non voglio rientrare. Non accetterò mai le ragioni di chi vincerà questo scontro”, aggiunse facendo un gesto netto con la mano. Ma gli oggetti non rispondevano. Il ticchettio della sveglia era percepibile solo se ci pensava. I segnali abbisognano di decifrazione. La stanza era ancora terribilmente silenziosa. Un segno della fine, di morte. Era teso. Come stesse rispondendo alle implacabili domande di un tribunale invisibile. Che annullava tutto il balletto umanistico in espansione solo sui giornali. Poi andò in metropolitana a Milano. In strada, all’uscita di Piazza Duomo, una ventenne intatta e sardonica – si scorgeva bene il rossetto sulle labbra – mimava fughe e approcci e poi colpiva, ma con un cuscino, un pachiderma che ballonzolava sui trampoli.

La tempesta

ancr

di Giorgio Mannacio

1.
Quel giorno pensai che il passaggio dalla giovinezza ad una età più adulta può essere segnalato anche dalla decifrazione di una scritta che sembra incomprensibile. E’ la maturità a produrre questo effetto o viceversa? Chissà. La prima scoperta la ebbi quando capii che l’abracadabra che leggevo su un vecchio coltello da cucina come se fosse una sola parola ( acierfondugaranti ) era in realtà costituito da tre parole francesi e significava: acciaio fuso garantito. Continua la lettura di La tempesta