Qualche anno fa ho attraversato un periodo difficile: si trattava della fine di una fase che, fino a quel momento, era durata una vita. Era cresciuta in me una nuova consapevolezza che mi ancorava ancor di più alla terra che calpestavo. Mi rendeva schiava di un’inquietudine inscalfibile. Mi sentivo mortale come un pianta e veloce come un soffio. Lo spaesamento che provavo non era altro che la vertigine per una vita senza baricentro. Il mio Io, disseminato qua e là, era come un puzzle incompleto. Cercavo, quindi, i pezzi mancanti. E lo facevo camminando. Camminare era l’unica cosa che m’impediva di perdermi fra i tentacoli dei miei pensieri sconclusionati. Macinavo chilometri al giorno, ascoltando musica, osservando la gente, sfumando nell’anonimato della grande città nella quale abitavo. Talvolta m’inchiacchieravo con sconosciuti, sull’autobus, al bar, per strada. Potevo essere io o potevano essere loro ad iniziare una conversazione. In ogni caso, io mi dimostravo sempre disponibile e aperta al dialogo. Quando il peso di un pensiero incondivisibile m’attanagliava, chiedevo al primo passante quale fosse la strada per raggiungere una meta che improvvisavo su due piedi. Mi bastava un rapido scambio di battute per sentirmi subito meno sola e rendere il mio dolore più sopportabile. Scrutavo nel passante cosa ci accomunava e questo mi ricordava che, avendo la stessa destinazione, si provavano gli stessi tormenti e le stesse gioie, solo con sfumature diverse. Non dovevo avere paura. Continua la lettura di La Podologa