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La mia vita a capitoletti (2)

SECONDA PARTE

di Luigi Sciagura 

A TORINO

Arrivano  ‘sti gruppi davanti alla Fiat: Lotta Continua, Potere Operaio e l’Unione dei comunisti guidata da Aldo Brandirali. Dopo un po’ Adriano Sofri trasforma la sua assemblea  di studenti e operai nel gruppo di Lotta Continua. Ricordo anche Mario [Dalmaviva]. Con altri entrano nelle assemblee per tentare di fare dei gruppi di operai.  Insomma, c’era una continua  battaglia  tra  i vari gruppi per diventare più grandi e ogni gruppo tentava come poteva di procurarsi studenti e operai. In realtà,  molti erano gli  studenti ma pochi gli operai reclutati.  E Sofri si procura anche quell’operaio, Leonardo Marino,  che dopo tanti anni lo denuncerà come mandante dell’omicidio del commissario Luigi Calabresi.

Nel ’69 c’è l’ultimo grande scontro tra operai e polizia in corso Traiano. Il sindacato indice uno sciopero generale che inizia di pomeriggio, alle 14. Gli operai formano subito dei grandi blocchi davanti alle porte della Fiat. Davanti ad una c’è un commissario di polizia (non ricordo più  il nome), un provocatore. Ci gridava:  «Allora, figli di puttana, vi rompiamo il culo subito o aspettiamo?». Iniziano gli scontri con le pietrate. Tutto il quartiere è coinvolto. Le bisarche che trasportavano le macchine Fiat vengono assalite dai manifestanti. Io vengo colpito al piede da un lacrimogeno.  Come un cretino pensavo di fermarlo col piede. Insomma, alla fine vengo catturato e  mi becco un sacco di manganellate paurose. Viene catturato con me anche un operaio e cerchiamo di metterci d’accordo: io dico che tu eri con me e tu dici…  Accordi  ingenui o stupidi.  Più tardi, quando arriviamo alla questura di Torino e lo vogliono  perquisire, lui dice: «Ma perché mi perquisite? Secondo voi, se avevo un’arma, sarebbe stato così facile catturarmi?». Lì, dopo un certo numero di minuti, lo chiamano: «Vieni al bagno che ora è libero, così puoi andare». Quando torna, torna massacrato. Gli hanno rotto le ossa.  E io, che pure avevo chiesto di andare al bagno, ci rinuncio, capendo che  sarei finito massacrato. Dopo un po’ vengo interrogato. E mi pongono la condizione:  dire che mi son fatto male stupidamente da solo. Io avevo una ferita alla schiena per le botte e anche quella al piede era paurosa.   Ho scritto che me l’ero fatte da solo.

All’inizio, dopo l’arrivo dei gruppi davanti alla Fiat, io e altri che eravamo contro i partiti volemmo entrare nell’Unione dei comunisti di Brandirali.  E io divenni funzionario dell’Unione. Purtroppo, facemmo quell’errore. In quel momento ci sembrava che quella fosse l’organizzazione più seria per costruire il partito dei comunisti. L’Unione dei comunisti collettivizzava le proprietà dei membri, organizzava anche i matrimoni tra compagni; e aveva presa su molti intellettuali allora famosi.  Dario Fo era vicino all’Unione. E c’era  anche il compagno di Eleonora Fiorani,  Francesco  Leonetti. Lui era quello che teneva i contatti con questi grossi big intellettuali.

Così in Corso Regina Margherita  aprimmo la sede dell’Unione. Oltre al primo piano, avevamo preso in affitto anche lo scantinato, dove organizzavamo le attività che riguardavano la produzione di manifesti. Costituimmo un gruppo che aveva imparato a produrre i manifesti mediante la serigrafia. Quello scantinato fu  utilizzato anche per fare una mostra sulla Repubblica popolare del Congo. Nella piazza di Corso Regina Margherita c’era un grande mercato, dove avvenivano le baruffe con i fascisti.  Qui conoscemmo R.D., operaio delle Carrozzerie Fiat, il quale era culturalmente zero ed era di un paese –  Nocera inferiore o  superiore –  tra Napoli e Salerno. Pur essendo analfabeta, era uno dei più attivi. E, quando venivano organizzati i cortei interni degli operai, lui era subito pronto ad armarsi di un tondino di ferro. Con quello colpiva quante più macchine poteva sulla gru del montaggio in modo che, spaccandole, si fermava la produzione.

Conoscemmo anche F. Z., altro operaio della Fiat. Però, col pallino del giornalismo. Era un pugliese molto bravo nel descrivere gli scioperi degli operai, meno bravo nel farli. Mi ricordo che lì al mercato di Corso Regina conoscemmo anche Carlo. Aveva un bar  dove la sera era pieno di prostitute. Tutti i nostri compagni andavano a cena lì. E tutti, al momento del conto, dicevano: «Paga Sciagura!».  Avevano capito che Carlo aveva molta fiducia in me e dicendo così tutto era a posto. Io mi ritrovai un conto chilometrico, un debito di  300 – 400mila lire di allora. Lì avevamo una casa al sesto piano – sì, una Comune – e non chiudevamo mai la porta.  Nel senso che era un posto sempre aperto,  dove passavano spie della polizia a non finire. Ma  a noi non ci fregava niente.  Tra noi, l’unico che aveva un lavoro serio era L. Z. Faceva il professore supplente a Ivrea. Allora noi, generalmente, per fare il bollito  compravamo patate e qualche pezzo di carne.  Una volta, però. L. Z non ci volle dare i soldi. Ci incazzammo. E, quando tornò da scuola e chiese cosa c’era da mangiare,  gli rispondemmo in malo modo.

Conobbi anche un nipote di Donat Cattin, un duro molto alla buona che ci combinò molti  guai. E poi, non so perché, s’è suicidato. Aveva due figli e anche con il solo lavoro della moglie stavano abbastanza bene. Si chiamava Carlo come lo zio. Una volta ci aveva portato da lui  ad Aosta, perché noi volevamo presentarci alle elezioni in tutto il Piemonte.  Solo che lo zio disse: «Guardate, non mi frega niente, non vi do niente, ve ne potete andare». E ci cacciò di casa. Ad Aosta c’era una comunità abbastanza grande di intellettuali di sinistra. La cosa da ridere fu  che, quando andammo a cercar voti nelle campagne,  tutti quelli che vi lavoravano erano   meridionali e ben pochi o nessuno della Val d’Aosta. E noi che pensavamo di sentir parlare il patois! Lì erano o calabresi o pugliesi. Erano donne che sposavano i pastori che facevano il formaggio. Sempre come funzionario dell’Unione poi da Torino mi mandano a Novara. 

A NOVARA

Novara  politicamente era una piazza difficile. Secondo me era un punto così piccolo e poco importante. No, no – mi dicevano –  quando vogliamo costruire un partito, lo si fa in tutte le zone.  Lì  prepariamo due manifestazioni a cui partecipo. Sono manifestazioni un po’ sceme, però riescono bene. Tra parentesi, è l’unico posto dove partecipiamo alle elezioni politiche comunali; e per un solo voto non vengo eletto consigliere. A Novara poi c’era un famiglia, la famiglia dei calabresi. Molto dura. E successe che uno di questa  famiglia, che era dei nostri, combinò un casino. In pratica doveva sparare sui fascisti. Invece, presa la pistola, se l’era messa nella cintola dei pantaloni e s’era sparato nei coglioni. Un cretino veramente pauroso. Ma io allora di quello che era veramente accaduto non sapevo niente. Facemmo una manifestazione in cui dicevamo che  i fascisti avevano sparato sul nostro compagno. E solo tempo dopo, quando abitavo in una casa che affacciava in una piazzetta sopra una pizzeria e ti contendevi il cesso che c’era sul  balcone con i gatti –  c’erano gatti a non finire –   ho saputo la verità. Da uno che abitava nello stesso cortile dove abitava il padre di questo nostro compagno. Che ci disse: «Non è un cazzo vero che i fascisti gli hanno sparato. Quel coglione nel prendere la pistola s’è sparato nelle palle».

Allora in tanti andavano nella Val Grande [1]  per allenarsi a sparare. La valle era piena di calabresi, i quali in quel periodo facevano  i contrabbandieri. Portavano la roba (sigarette, cioccolato). Quando scendevano dall’alto in auto, erano bravi a guidare. Scendevano velocemente. Una volta noi avevano dei compagni dove c’è il bellissimo Lago Maggiore, dove si specchiano tre paesini che poi vennero uniti assieme; e  io andai lassù con uno che si chiamava S. Durante il tragitto, però, manifestò tutti i segni della sua pazzia. Diceva che lui aveva visto una donna in bicicletta e le aveva detto: ti chiavo. E quella ci stava.  Il guaio è che io non sapevo guidare la macchina. Con questo S. dovevamo arrivare in Val Grande a prendere un calabrese che guidava lui le macchine. Poi scendemmo giù a Novara: io, questo pazzodi S. e il calabrese.  E la moglie di questo, quando ci vide, non volle assolutamente ospitarci. No, disse, siete matti! Vi tirate dietro uno che è impazzito.  

S. era giovane e faceva il pastore.  Quella era una zona dove tutti facevano i pastori. Solo che i fratelli più grandi  e più in gamba di lui avevano cercato un altro lavoro. L’unico che era rimasto tagliato fuori era questo qua. Una volta andai a trovare lui e  e i suoi fratelli  con un mucchio di ragazzi e ragazzine di Milano. E  il giorno dopo S.  venne sotto casa mia a Novara. Voleva il numero di telefono di una ragazza che avevo portato lì. No, non te lo do. E feci bene.  Seppi poi  che s’era sposato con una bonazza del paese e che era divorziato dopo un anno. Adesso non so se è vivo o morto. A Novara conobbi anche D. Era il figlio di uno dei più grandi industriali della provincia di Novara.  Ma diceva sempre che non aveva soldi. Perché così gli avevano insegnato a dire i suoi genitori. Attualmente non ne so più niente. Mi ha scritto dalla Polonia.  Ho capito che fa lo chef in un grande ristorante all’italiana. E mi verrebbe da chiedere: ma tu in Italia avevi moglie e figlia. Che fine hanno fatto,  visto che  parli solo di un tuo figlio, che è uguale a te come conformazione fisica.

Quando eravamo a Novara, mi aveva fatto conoscere un certo Capellone. Capellone era uno di quei giovani di diciotto anni, che dammi una pistola e un obiettivo su cui sparare, non ci pensava su. Di nome faceva U. e dopo l’hanno trovato alcuni amici tra i fuoriusciti in Francia. E dicevano che con U. bisognava stare attenti. Perché, dato che suo fratello era stato al servizio della polizia francese,  U. era più violento dei violenti. Per rifarsi sul fratello. O per staccarsi dal fratello.  Quando ero a Torino ed ero appena tornato da militare, gli portava ogni settimana una bottiglia di Four roses bourbon, che gli dava la donna con cui stava.  Tutti questi erano militanti dell’ Unione dei comunisti. in parte reclutati da me in parte trovati sul posto e trasferiti poi in altri punti d’Italia.

 

TRE ANNI A GENOVA

Sempre come funzionario dell’Unione dei comunisti fui mandato da Novara a Genova. La cosa che più ricordo è che nel porto di Genova avevamo la sede nello stesso locale dove Garibaldi organizzò la spedizione dei Mille. C’era una scalinata che andava su e c’era un grande stanzone. Genova è una grande città, più vicina come stile di vita a Torino. Anche se qui in fabbrica c’erano quelli che avevano fatto i  partigiani e dicevano: «E tu  trent’anni fa dov’eri?». E io gli rispondevo:  «E dove sarai tu tra trent’anni? Sarai a concimare i vermi». A Genova ho partecipato a diverse iniziative. Tra parentesi eravamo un bel  gruppo di 20- 30 persone. Qui  conoscemmo anche dei giovani di Africo nuovo [2]. Erano dei delinquenti.  Allora c’erano delinquenti di destra e di sinistra. Questi si consideravano di sinistra. Una volta mi ricordo che quattro o cinque di loro erano scomparsi per un po’ di tempo. E io chiedevo a uno di loro: ma dove siete andati? E quello, per tutta risposta, tirò fuori un coltello a serramanico e si pulì l’unghia.  Un altro capì cosa voleva dire quel gesto. Voleva dire: «Statti zitto, non son cazzi tuoi». Allora gli dissi: « Ma tu sei scemo, tira via quel coltello». Più tardi, quando sempre come funzionario dell’Unione passai a Milano trovai un loro parente.  Era stato in galera nel carcere di massima sicurezza di Opera. E gli chiesi: «Ma tu vieni da Opera o da Africo?». « Io vengo da Africo nuovo». Allora pensai che era meglio stargli lontano.

Dopodiché mi arriva l’avviso da Torino che debbo assolutamente andare al militare. Dico: «Ma voi non mi avete avvertito!».  Io ho sempre sgamato il militare, ma stavolta mi dissero: «Qui non siamo riusciti a trovarti, quindi devi andarci per forza». Allora ci andai.  Era il periodo in cui era forte   il movimento dei soldati in divisa di Lotta Continua.  E noi anche dell’Unione eravamo forti con i vari scioperi che conducevamo. Il militare lo feci a Udine. Fu nel 1976, l’anno del terremoto. Tant’ vero che noi veniamo impiegato per sgombrare le macerie.

ANCORA A TORINO

Finito il militare, tornai ad abitare a Torino. In una viuzza vicina alla Mole [Antonelliana]. Abitavo con due tipi. La moglie era una brigatista. Lui no, era un operaio bravo. Io  a lui dicevo: «Tua moglie mi sembra un po’ strana». Perché andava nei supermercati e rubava. «No», MI diceva lui, «noi potremmo anche vivere con ciò che guadagniamo ma, rubando, se la beccano, non finisce in galera  come brigatista. Mi ricordo anche  una sera in cui lei mi mostrava la sua arma di guerra: un pugnale. Le dissi: «Che cazzo, sei scema? Quando uno vuol fare la guerra, la fa seriamente». Allora pianti dirotti da parte sua.  A me sembrava di aver detto una  cosa giusta. E, infatti, i fascisti se ne fregavano del suo pugnaletto.

 

A MILANO

Sempre dopo il militare un gruppo di noi, che stavamo a Torino ed eravamo i  più bravi, fummo chiamati a Milano da Francesco Leonetti che, dopo l’espulsione di Brandirali dall’Unione dei comunisti, voleva fare il grande partito mettendosi con quelli di Potere Operaio. A Milano ho frequentato per diverso tempo  Eleonora Fiorani, la donna con cui Leonetti viveva, che è morta da poco e che aveva tutti i suoi libri pubblicati da Lupetti. Poi i rapporti con Leonetti si guastarono.  E lui  ci espulse tutti dal PC (ml) perché eravamo di destra. Cioè, eravamo contrari a fare azioni in comune con quelli di Potere Operaio  che volevano fare la lotta armata. Dopo essere stati espulsi da Leonetti, alcuni di noi hanno proseguito. Eravamo uno sparuto gruppettino di dieci, dodici operai e lavoratori vari con varie persone. Cerchiamo di organizzare gli operai e i lavoratori nelle fabbriche  fondando «Operai Contro», che è andato avanti  per più di vent’anni senza riuscire ad allargarsi.

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Qui a Milano ricordo che una volta vengo fermato dai carabinieri in via Moscova. Si trattava della brigatista di Torino,  che nel frattempo  era finita in galera. Mi dissero: «Vogliamo sapere da lei come la pensa».  Io dissi: «Voi volete sapere da me come la penso, ma io non ho voglia di discutere con voi. Che cazzo volete?».  «Guarda, se non discuti con noi,  minimo minimo un mese di galera glielo facciamo fare». «E allora, vabbè», gli dissi, «Guardate che  io ho abitato con loro ma non sapevo chi fossero. Ho abitato con loro perché non avevo casa e mi facevo ospitare». 

BILANCIO

Dopodiché pian piano vengono fuori i fallimenti dei vari gruppi. Viene fuori il fallimento di Lotta Continua con Sofri che poi molto tempo dopo sarà  denunciato da Marino. Poi Brandirali, di cui  noi dell’Unione dei comunisti pretendevamo di diffondere il verbo in Italia, entra  in Comunione e Liberazione. Altri non so che fine fanno. Brandirali l’ho conosciuto di persona più tardi qui a Milano. Lo conosceva un operaio della Breda, che era stato assunto da lui in una impresa di costruzione elettrica e si formò  come perito elettrotecnico aiutato da me. Una sera   questo operaio invitò me e Brandirali  a cena. E  ricordo che Brandirali mi disse: «E che vuoi, Sciagura, io quando parlavo del matrimonio comunista e delle altre questioni di sinistra, dicevo roba dei preti. Solo che non l’avevo capito. Dopo l’ho capito bene. E allora son passato direttamente con loro».

Cosa pensavano i miei parenti o mio padre quando seppero che facevo il funzionario  dell’Unione? Che ero un  coglione. Mio padre disse: tutti gli studi che hai fatto per  prendere novanta mila lire al mese. E io a spiegargli: ma voi non capite…

Note

 

[1] Il parco nazionale della Val Grande è un’area naturale protetta, interamente compresa nei confini della provincia del Verbano-Cusio-Ossola, in Piemonte, istituita nel 1992 per preservare la zona selvaggia più estesa delle Alpi e d’Italia.
[2]  Su  Africo aveva scritto un libro Corrado Stajano: https://www.ilsaggiatore.com/libro/africo/

*La PRIMA PARTE di La mia vita a capitoletti si legge qui

La mia vita a capitoletti

di Luigi Sciagura

Questa è la prima parte della  storia della sua vita che Luigi Sciagura  sta scrivendo. [E.A.] Continua la lettura di La mia vita a capitoletti

In mare aperto: tra revisioni e revisionismo

NOTE DI FINE ESTATE (6)

Questo contributo è  già stato pubblicato sul numero  8 cartaceo di Poliscritture dedicato al tema dei revisionismi nel dicembre 2011 (scaricabile da qui). Mi sembra utile ripubblicarlo perché è, in qualche modo, in continuazione col mio discorso sul padre (qui). [D. S.]

di Donato Salzarulo

1 – Dopo il Sessantotto, per buona parte degli anni Settanta, sono stato impegnato, insieme ad altri, in una militanza politica che aveva per obiettivo la costruzione di un partito comunista rivoluzionario; condizione soggettiva necessaria per tentare un cambiamento radicale del sistema proprietario capitalistico, che per sue “leggi di funzionamento” manifesta ciclicamente crisi economico-sociali più o meno profonde e strutturali. Un partito rivoluzionario dovrebbe approfittare di queste crisi per porre all’ordine del giorno la costruzione di nuovi assetti e rapporti sociali.

Il compito prevedeva, tra l’altro, il superamento della galassia dei gruppuscoli rivoluzionari, nati col Sessantotto o preesistenti ad esso, ed una battaglia politico-culturale serrata contro il PCI revisionista, gradualista, riformista e opportunista. Esso si arenò e fallì alla fine degli anni Settanta. Perché?

Bisognerebbe tornare a scavare in quegli anni per comprenderne le ragioni. In fondo quel decennio non fu segnato solo da terrorismo, Brigate Rosse e P38. La mia, ad esempio, è la storia di un giovane ventenne che, pur staccandosi dal PCI, non poteva dimenticare quanto questo partito fosse stato importante nella storia di suo padre. Contadino povero e semi-analfabeta dell’Irpinia, aveva trascorso tre mesi nelle patrie galere per aver partecipato al movimento d’occupazione delle terre nei primi anni Cinquanta. E le persone che l’avevano difeso si chiamavano Ingrao, Napolitano, Amendola.

La costruzione del partito comunista rivoluzionario comportava una battaglia quasi continua con mio padre. Non c’era pranzo domenicale – allora il sottoscritto era già sposato e aveva una sua famiglia – che non si tramutasse in confronti accesi e scontri verbali – a volte anche con pugni battuti sul tavolo – sul ruolo e la natura del PCI. Secondo me era revisionista, non difendeva più i lavoratori, non aveva più nel suo programma la rivoluzione e la costruzione di una società socialista. Secondo mio padre ero fuori di testa; indebolendo il partito, indebolivo i lavoratori; non capivo quanto erano costate le loro pur modeste conquiste, ecc. E, infine, domanda cruciale: «Facciamo finta che tu e i tuoi amici abbiate ragione, chi mi assicura che il partito rivoluzionario che volete costruire, non diventi revisionista, burocratizzato, opportunista come il PCI?…»

Nel breve periodo, la battaglia culturale in famiglia la vinsi io e negli anni seguenti mi trascinai mio padre in molte manifestazioni della sinistra rivoluzionaria. Nel giro di due decenni, però, ci ritrovammo ambedue sconfitti: io senza il partito rivoluzionario e mio padre senza la trincea del PCI. Oggi io e il suo fantasma siamo in mare aperto.

Perché dovrebbe interessarmi una discussione sul revisionismo o sui revisionismi?

  1. Per difendere il patrimonio di lotte e di conquiste di mio padre (e dei miei padri): la Resistenza e la Liberazione, la Costituzione democratica ed antifascista, lo Statuto dei Lavoratori, la Contrattazione nazionale, ecc.
  2. Per riaffermare la bontà e la giustezza degli intenti rivoluzionari miei e di quelli della mia generazione.
  3. Per tenere aperta una strada di lotta allo sfruttamento capitalistico (estrazione di plusvalore-pluslavoro) e di liberazione dall’oppressione e dalla disuguaglianza sostanziale caratteristiche delle nostre formazioni sociali.

Sono, lo capisco, petizioni di principio. Più simile ad un elenco di buone intenzioni o di affermazioni aprioristiche che proposizioni risultanti da complesse analisi storiche del presente e del passato. Non m’importa. Nessuno pensa, scrive, agisce, ingaggia battaglie politiche e culturali avendo tutto chiaro in testa. Mi interessa combattere il revisionismo che equipara partigiani e repubblichini di Salò, che nega i forni crematori per gli Ebrei e per gli Zingari, quello di chi vorrebbe cambiare la Costituzione italiana perché “sovietica” e “dirigista”, ecc. ecc. Mi interessa combattere il revisionismo di chi mette sullo stesso piano fascismo- nazismo e il tentativo (fallito) di costruire una società alternativa al capitalismo. Non so se ci sia un revisionismo “buono” e uno “cattivo”…Ma i revisionisti “buoni” chi sono? Gramsci, ad esempio, lo si può ritenere tale rispetto al pensiero di Marx? Direi di no. Per me è un “filosofo della prassi” che ha sviluppato in maniera originale e creativa diversi luoghi e aspetti di quel pensiero.

2. – Il decennio che mi vide impegnato nella costruzione del partito comunista rivoluzionario fu per me anche quello dell’apprendimento e dello studio del marxismo. Scrivo marxismo, ma so che non esiste un corpus teorico che possa definirsi tale. Ci sono i testi di Marx, quelli pubblicati mentre era in vita e quelli editi successivamente, spesso a distanza di decenni dalla sua morte. Ci sono i testi pubblicati insieme ad Engels. Insomma, un enorme work in progress studiato in oltre un secolo e mezzo da decine e decine di intrepreti (militanti rivoluzionari, politici, statisti, filosofi, economisti, storici, sociologi, ecc.). Giustamente Cristina Corradi intitola il suo libro «Storia dei marxismi in Italia» (La talpa libri, Il manifesto, 2005). Si potrebbe dire anche «Storia dei marxismi in Europa e nel mondo» e sicuramente non si sbaglierebbe.

Marx non è stato e non è un pensatore qualsiasi. Ispirandosi alle sue idee, sono stati costruiti partiti rivoluzionari, di opposizione e di governo su tutto il pianeta. Vi sono stati regimi guidati da partiti comunisti. Ancora oggi ve ne sono, quantunque realizzino politiche che non si comprende cosa abbiano a che fare con le sue idee e le sue aspirazioni. Ridurre Marx a uno “scienziato sociale”, all’inventore di concetti utili alla comprensione della storia (modo di produzione, rapporti sociali di produzione e riproduzione, capitale come rapporto sociale, plusvalore e pluslavoro, ecc. ecc.) significa far torto alle sue aspirazioni a sostituire le “armi della critica” con la “critica delle armi”. Pensatore sì, ma della prassi sociale, della volontà di trasformare il mondo. «La forza materiale deve essere abbattuta dalla forza materiale…Anche la teoria diviene una forza materiale non appena si impadronisce delle masse.» (Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico)

Ebbene, a sfogliare anche soltanto l’indice del libro citato di Cristina Corradi, ci si imbatte in nomi che a me dicono molto: Labriola, Gramsci, Della Volpe, Luporini, Colletti, Panzieri, Tronti, Timpanaro, Negri, Cacciari…Ho trascorso molte ore sui capitoli dei loro libri e sui loro articoli. Con quale profitto?

L’avventura cominciò a 16 anni, intorno al 1965. Cominciò sulle pagine di “Rinascita”, il settimanale del PCI destinato ai quadri di partito. Io non ero un quadro. Cercavo soltanto di uscire dai programmi scolastici, dalle proposte di studio dei professori. Un articolo di Della Volpe dovevo leggerlo, rileggerlo e rileggerlo. Dire che era oscuro è poco. Parlava un’altra lingua. Ma a quell’età si sfida il mondo. E potevano gli articoli di un professore universitario rappresentare ostacoli insuperabili per un giovane studente?…

Ne ricordo uno: «Dialectica in nuce». Già il titolo, scritto in lingua morta, nel latino appreso sui banchi di scuola, lanciava un preciso segno di distinzione. Poi, all’interno, nel tessuto delle proposizioni, tutto un fiorire di corsivi, di citazioni, di parentesi tonde e quadre, di idest, tertium e apriori, di tautòn-thateron e diairesis, di Widerspruch e Antithesis …La faccio breve: un tale gergo mi affascinava e provai persino ad usarlo in qualche tema scolastico. Risultato: il solito sette – i prof. tendono a dare a uno studente sempre lo stesso voto – con l’invito perentorio a scrivere «in modo meno bislacco».

Scimmiottature e aneddoti a parte, la sostanza di quell’articolo era che, per Della Volpe, Marx affrontava analisi storiche puntuali di contraddizioni che richiedevano una dialettica diversa da quella dell’Idea hegeliana, metafisica e metastorica. Per poter conoscere il mondo e rivoluzionarlo servivano astrazioni determinate (il corsivo in questo caso è d’obbligo) e non generiche «ipostasi», criticate già nell’opera giovanile del 1843, cioè nella marxiana «Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico». Giusto. E allora?…

Il punto dolente di queste mie letture non era rappresentato soltanto dal contagio di una scrittura gergale e bislacca, ma dal fatto che, letto l’articolo, non avevo con chi discuterlo e, soprattutto, non mi era chiaro in che rapporto veniva a trovarsi con le mie scelte di vita pratica e quotidiana. «Senza teoria rivoluzionaria non esiste movimento rivoluzionario». L’importanza della teoria era, quindi, indiscutibile, ma non riuscivo a togliermi di dosso la sensazione di studiare articoli marxisti così come studiavo paragrafi di manuali di storia, di letteratura, di filosofia o di matematica e scienze. In parte, in modo scolastico. Dico in parte, perché nessuno, per fortuna, mi interrogava sull’interpretazione dellavolpiana del pensiero di Marx!

Comunque, provai a discutere questi articoli nella locale sezione della FGCI di allora. Impossibile. Poi, grazie al cielo, diventai amico di Nicola Arminio, uno studente universitario più grande di sette o otto anni. Aveva in casa, addirittura, «Critica del gusto» e me la prestò. Insieme, tra il ’65 e il ’67, parlammo di Della Volpe, dei dibattiti suscitati dalle pubblicazioni di Louis Althusser («Per Marx» e l’opera collettiva «Leggere il Capitale»), del «Manifesto dei comunisti» e del saggio scritto in memoria da Labriola…Parlavamo più spesso di Gramsci. Era l’autore della “questione meridionale” e questa, più della dibattuta “rottura epistemologica” fra il giovane Marx ed Hegel, appariva come la nostra questione. Nicola aveva già trascorso dei periodi di lavoro in Germania. Anche il mio destino era segnato: mio nonno era emigrato per sei anni in America, mio padre per due o tre in Svizzera (senza contare i suoi nove anni in Etiopia), una città del Nord sicuramente attendeva me…E la prospettiva, in verità, neanche mi dispiaceva. Era grande in quegli anni la voglia di andare via dal paese.

3. – Quando arrivo a Torino, nell’autunno del 1967 e partecipo senza esitazioni all’occupazione di Palazzo Campana, ho in testa un compito preciso, volontariamente assunto e interiorizzato. Mi viene dal cofanetto Einaudi dei Quaderni del fondatore del PCI. È scritto negli «Appunti per una introduzione e un avviamento allo studio della filosofia e della storia della cultura»: tutti gli uomini sono «filosofi», sia pure in modo spontaneo e inconsapevole. Lo sono attraverso il linguaggio, il senso comune e il buon senso, il sistema di credenze, superstizioni, opinioni, modi di vedere rappresentati dalla religione popolare e dal folclore…Le “filosofie spontanee”, disgregate e occasionali, imposte meccanicamente «da uno dei tanti gruppi sociali nei quali ognuno è automaticamente coinvolto fin dalla sua entrata nel mondo cosciente», sono importanti, ma non possono bastare. Occorre superarle, elaborando «la propria concezione del mondo consapevolmente e criticamente e quindi, in connessione con tale lavorio del proprio cervello, scegliere la propria sfera di attività, partecipare attivamente alla produzione della storia del mondo, essere guida di se stessi e non già accettare passivamente e supinamente dall’esterno l’impronta alla propria personalità».

Compito chiaro, entusiasmante. C’è una citazione, tratta proprio da quelle pagine, che continuava ad accompagnarmi:

«Per la propria concezione del mondo si appartiene sempre a un determinato aggruppamento, e precisamente a quello di tutti gli elementi sociali che condividono uno stesso modo di pensare e di operare. Si è conformisti di un qualche conformismo, si è sempre uomini-massa o uomini-collettivi. La quistione è questa: di che tipo storico è il conformismo, l’uomo-massa di cui si fa parte? Quando la concezione del mondo non è critica e coerente ma occasionale e disgregata, si appartiene simultaneamente a una molteplicità di uomini-massa, la propria personalità è composta in modo bizzarro: si trovano in essa elementi dell’uomo delle caverne e principii della scienza più moderna e progredita, pregiudizi di tutte le fasi storiche passate grettamente localistiche e intuizioni di una filosofia avvenire quale sarà propria del genere umano unificato mondialmente. Criticare la propria concezione del mondo significa dunque renderla unitaria e coerente e innalzarla fino al punto cui è giunto il pensiero mondiale più progredito. Significa quindi criticare tutta la filosofia finora esistita, in quanto essa ha lasciato stratificazioni consolidate nella filosofia popolare. L’inizio dell’elaborazione critica è la coscienza di quello che è realmente, cioè un “conosci te stesso” come prodotto del processo storico finora svoltosi che ha lasciato in te stesso un’infinità di tracce accolte senza beneficio d’inventario. Occorre fare inizialmente un tale inventario.» (pag. 1376)

4. – Lavorio del proprio cervello. Cominciò in quegli anni e non è ancora finito. Dovevo dotarmi di una concezione del mondo organica, unitaria e coerente. Più facile a dirsi che a farsi. Dovevo innalzarla fino al punto in cui è giunto “il pensiero mondiale più progredito”. Ancora più difficile. Cos’era questo pensiero mondiale? Mi diventò subito evidente che non esisteva uno solo pensiero mondiale ma tante “scuole di pensiero” con professori, più o meno famosi, a tenere lezioni nelle Università dei vari Paesi e i loro allievi a seguirle per obbligo o per piacere. Esisteva un mercato editoriale che smerciava libri e riviste scritti da questi prof. Esistevano laboratori scientifici pubblici e privati. E chi ci lavorava dentro non era più un Galileo Galilei, un geniale artigiano del pensiero, ma un “lavoratore collettivo” composto da tanti ricercatori gerarchizzati in ruoli e funzioni e impegnati in programmi di ricerca tutt’altro che disinteressati. La scienza – questo avevo imparato nei controcorsi universitari – non era neutra. I soldi spesi per far camminare sulla Luna il primo bipede umano non soddisfacevano generici “bisogni di conoscenza”. La gara lunare tra gli Stati Uniti e l’allora Unione Sovietica era, in realtà, una guerra, sia pure fredda. Anche questa richiede e produce conoscenze. Furono i sovietici a lanciare in orbita il primo Sputnik ai primi di ottobre del 1957. Presi di contropiede, i gruppi dirigenti americani cercarono di correre subito ai ripari. La Conferenza di Woods Hole nel settembre del 1959 serviva anche a questo. Jerome S. Bruner ne ricavò un libro («Dopo Dewey. Il processo di apprendimento nelle due culture») che lessi e studiai per sostenere il mio primo esame di pedagogia. Per vincere una guerra, era necessario riformare il proprio sistema scolastico. La cultura è un campo di battaglia e fornisce armi agli attori in lotta. In lotta per cosa? Per l’egemonia, sosteneva il mio Gramsci. Egemonia, cioè consenso e coercizione. Era questo potere che permetteva ad alcuni di appropriarsi, più o meno, legittimamente di risorse economiche, sociali, istituzionali e ad altri (la maggioranza) di restare con un pugno di mosche in mano.

Quanto alle intuizioni della filosofia del futuro, quella “del genere umano unificato mondialmente”, ammessa la bontà dell’aspirazione, non vedevo grandi tracce, se non quelle depositate dai rapporti sociali capitalistici o implicite nelle varie Carte dell’ONU, dei Trattati commerciali internazionali, ecc. Sarebbe scaturita da questi “depositi” l’altra umanità? Da queste cristallizzazioni che tendevano a unificare il genere umano? E sarebbe scaturita dopo l’insurrezione, l’occupazione del Palazzo d’Inverno o nel qui ed ora del presente?

Ogni tanto provavo a fare l’inventario delle mie conoscenze. Il compito, soprattutto, agli inizi mi risultava anche relativamente facile. “Storia di lotte di classi”, “Egemonia”, “Rapporti di forza sociali”, “Campo ideologico”, “Società come totalità strutturata a dominante”, “Contraddizione e surdeterminazione”, “Anello debole”, “Sviluppo ineguale”… Tutti concetti interessanti, ma a chi andavo a raccontarli? Il problema si ripresentava.

A Rivoli ero ospite (pagante) di un Collegio (o qualcosa di simile) che formava pastori protestanti. Conobbi Pippo, un giovane di qualche anno più grande di me. Diventammo amici e si beccò tutte le critiche marxiane alla religione. Ovviamente si beccò anche tutti gli attacchi di Althusser all’umanesimo. Poi notai anche che il filosofo francese ce l’aveva con Gramsci, col suo storicismo e umanesimo. E qui i conti non mi tornavano. La storia è un processo senza soggetto, sosteneva.  Non lo sanno, ma lo fanno. E io, studente “contestatore”, che stavo lì a combattere l’autoritarismo professorale, che manifestavo per il Vietnam, io che desideravo l’impossibile, cos’ero? Un gattino cieco? Forse, è vero. Un movimento è un’azione collettiva, più o meno duratura. Ciò che effettivamente produrrà in una società, lo si potrà valutare dopo. In un movimento si entra in tanti. Le ragioni individuali e/o soggettive possono essere diverse. Conta il risultato. E però io partecipavo con entusiasmo all’occupazione di Palazzo Campana non solo per scrollarmi di dosso l’autoritarismo scolastico e sociale  – mio padre era comunista, ma picchiava come un fascista – , anche perché credevo di partecipare attivamente alla “produzione della storia” o, almeno, di un suo momento. Mi illudevo?…Gramsci ed Althusser nel mio cervello si misero a duellare. Chi aveva ragione? «Gramsci, Gramsci…» suggeriva una vocina interiore. Studiavo «Per Marx» e «Leggere il Capitale» perché era stato il rivoluzionario sardo a indicarmi il compito: impadronirsi di tutte le conoscenze prodotte dal “pensiero mondiale più progredito”… Compito immane, certo!,  che richiedeva un buon numero di vite. Però… Grande Gramsci e grande il mio desiderio di stargli dietro.

Nel decennio Sessantotto-Settantotto riempii diversi scaffali di libri marxisti, a partire dalle opere di Marx-Engels, di Lenin e di Mao. Contro i revisionisti, dovevo tornare al vero pensiero di Marx; un pensiero che mi sembrava vivo ed efficace. Oltre ai “Quaderni piacentini”, a “Critica marxista”, a “Politica ed economia” e a tanta pubblicistica gruppettara, comprai riviste come “Sapere”, “Le scienze”, ecc. per elaborare una mia concezione del mondo organica e coerente, fondata su principi scientifici e non sulle paure, le superstizioni e i fantasmi dell’uomo delle caverne. Anche se, devo dire, questo poveraccio non mi era poi del tutto antipatico.

Insomma, il lavorio del cervello andava avanti tra alti e bassi, luci ed ombre, certezze ed incertezze. La qualità dei marxismi appresi non si modificò. Continuò a soffrire di scolasticismo. Riunioni e riunioni: della Segreteria, del direttivo, dell’assemblea degli iscritti, degli organismi di massa. Manifestazioni quasi settimanali. Stesura, ciclostilatura e diffusione di volantini, da soli o insieme a quella (domenicale) del quotidiano. Lettura di documenti: della Direzione Nazionale, del Comitato Centrale, del Direttivo Regionale o Provinciale…Tutto per la costruzione del partito comunista rivoluzionario. Una frenetica scorpacciata di “politica al primo posto”. Ogni tanto qualche “gruppo di studio”. Ma se ti capitava di leggere «Calcolo economico e forme di proprietà» di Bettelheim o «Potere politico e classi sociali» di Poulantzas con chi potevi discuterli?…Al massimo, potevo scambiare qualche impressione con Ennio. Per il resto “intellettuale” era già diventato una parolaccia e “intellettualismo” il massimo della vergogna.

A fine anni Settanta, la crisi. Della costruzione del partito comunista rivoluzionario, del marxismo, della ragione, delle grandi narrazioni, della centralità operaia, ecc. ecc. Un diluvio. Perché? Per diversi motivi: una costellazione di cause, come in tutti i fenomeni storici. E si potrebbe star lì a discuterne per ore. Io ci metterei: la risposta dei capitalisti al ciclo di lotte operaie (ristrutturazione), lo stragismo e la scelta terroristica, l’incapacità di produrre teoria dei gruppi dirigenti della sinistra rivoluzionaria, l’affermarsi di nuovi bisogni e istanze sociali (il femminismo), il finanziamento di Fondazioni universitarie e para-universitarie da parte della CIA (o di chi volete voi: imprenditori, Rockefeller center, e via di seguito) per convincere l’universo-mondo che “lo Stato soffoca l’economia”, “privato è bello”, “i capi delle imprese pubbliche sono boiardi di Stato”, “il pensiero debole è meglio di quello forte”, “Heidegger ha visto più e meglio di Marx” ecc. Breve digressione: tiro in ballo degli slogan a casaccio. Ma il senso è chiaro: i fatti sociali non sempre si toccano con mano. Un licenziamento e la chiusura di una fabbrica si subiscono e si vedono, ma che uno “Stato soffochi l’economia” è una proposizione indimostrata e indimostrabile. Pura ideologia. La lotta per l’egemonia utilizza tutto e tutti: la scienza, la tecnica, la religione, l’ideologia, l’economia, gli apparati di Stato…È una lotta che va organizzata e finanziata. Il revisionismo storico è sicuramente il frutto di questa lotta.  Fine della digressione.

Risultato della crisi fine anni Settanta: oltre ai suicidi, alla “strage delle illusioni”, alla distruzione di una generazione con l’eroina, ci fu il cosiddetto “riflusso nel privato”. Ma io il virus della politica l’avevo contratto. Ridurmi al ruolo di buon padre di famiglia, neanche a pensarci. Tornare a compulsare le carte degli anni Settanta e destinarmi a un’esistenza silenziosa di studioso di testi marxisti continuava a fare a pugni con la mia vita quotidiana. In fondo, catturato dal compito della costruzione del partito comunista rivoluzionario, non avevo neanche terminato i miei studi universitari. È vero che avevo vinto subito, nel ‘71, il concorso da maestro e uno stipendio ce l’avevo; in casa, però, lavoravo da solo e, a fine mese, si faceva fatica ad arrivare. Esame di realtà. «Analisi concreta della situazione concreta». Ripresi gli studi e nei primi anni Ottanta aderii come indipendente al PCI.

Tra il 1967 e il ’68, venne pubblicato un libro di Lorenza Mazzetti: «Uccidere il padre e la madre». Era esattamente quello che avevo fatto. Da giovane, avevo “ucciso” mio padre, trovando dei “sostituti rivoluzionari”. Ora che i sostituti andavano in crisi o fallivano, tornavo, figliol prodigo, nella casa del padre. Mosso, probabilmente, da un inconscio complesso di colpa. Da rivoluzionario in lotta coi revisionisti a revisionista. Il percorso del gambero? Sì e no. Sì perché il tentativo di costruire un partito rivoluzionario era fallito e di fatti rifluivo insieme ad altri nella trincea da cui volevo uscire.  No, perché l’indipendenza nel PCI non è stata per me una foglia di fico. Primo, perché il PCI non era quel monolito stalinista di cui si ciancia. Secondo, perché potevo continuare a studiare liberamente il marxismo nella crisi e se la Democrazia Proletaria di allora o gli operaisti avessero prodotto idee e iniziative effettivamente coinvolgenti avrei potuto aderirvi. A Cologno in quegli anni tenemmo in piedi IPSILON, un “laboratorio di cultura critica” che organizzò diversi incontri e discussioni. Ad alcuni partecipò Costanzo Preve.

Anche dopo il crollo del Muro, dell’URSS e del PCI, ho continuato a leggere autori a cui Cristina Corradi dedica interi capitoli della sua «Storia dei marxismi in Italia»: Tronti, Negri, Losurdo, Bellofiore, La Grassa e Turchetto, il citato Preve, e via di seguito.

Letture, purtroppo, sempre parzialmente scolastiche. Che rapporto hanno le loro pagine con la mia vita quotidiana? Che posso farci se non mi convincono? Se non riescono ad esercitare egemonia sul mio pensiero? I problemi lasciati irrisolti dal “libro nero del comunismo” sono ancora lì: a) quello del partito rivoluzionario e del suo rapporto con la società, b) del cosa significa fare una rivoluzione nella nostra società e di quale strategia dotarsi, c) di come assicurare quella che Della Volpe chiamava la “legalità socialista” o, se si preferisce, la democrazia e la “libertà dei comunisti”…

Conosco la critica di Marx alla democrazia borghese: tutti siamo “cittadini” e “soggetti di diritto” e, quindi, formalmente eguali, ma il cittadino Berlusconi o Montezemolo lo sono di più. Infatti, hanno tante e tali risorse economiche che potrebbero comprare tutte le teste d’uovo che vogliono per organizzarsi, “scendere in campo” e difendere anche in Parlamento e nelle sedute del Consiglio dei Ministri i loro interessi. Possono fondare associazioni, orchestrare campagne di stampa e propaganda, realizzare iniziative politiche e sociali mirate a singoli pubblici, ecc. Tutto vero. E allora? Riproponiamo la “dittatura del proletariato” o la lotta per difendere e attuare la Costituzione? E ci organizziamo per l’uno o per l’altro fine?…

C’è chi sostiene che è tutto passato, che sono battaglie vecchie. Di un’altra epoca. Probabile. Quali sono quelle nuove? E in che rapporto sono con quelle vecchie? Se il nuovo lo portano certi personaggi, preferisco il vecchio…

Insomma, bisogna evitare la palude, ma siamo nel bel mezzo di un caos. La situazione è tutt’altro che eccellente.

Io e il fantasma di mio padre continuiamo la nostra deriva. In mare aperto.

8 settembre 2011

Il caso Pavese

di Adriano Barra

Ho chiesto ad Adriano Barra (già in passato ospitato su Poliscritture qui) di poter pubblicare l’intera collezione di citazioni da lui dedicate al “Caso Pavese”. Nei mesi scorsi le ho lette man mano che uscivano a manciate sulla sua pagina Facebook. Mi pare importante rileggerle insieme. Non perché io pretenda di ricomporre in un disegno unitario questo mosaico di tessere a tema ch’egli ha raccolto da giornali, riviste (e negli ultimi anni anche dal Web) tra il 27 febbraio 1984 e il 30 dicembre 2019. So, infatti, che la forma-diario, che ha dato a questo suo “trattato” (o abbozzo di trattato) sul “Caso Pavese”, è fondamentale quanto l’argomento. Un lettore paziente, se ha letto qualcosa di Pavese (magari in gioventù come noi vecchi) o ha orecchiato il “mito Pavese”, si trova qui in ottima compagnia. Barra è un investigatore particolare: svagato, ironico, antisentimentale, apparentemente snob, attentissimo al degrado della lingua e della memoria, mai onnisciente o specialista, meticoloso cronista dei tic altrui (e dei propri). Ha affrontato il “Caso Pavese” quasi impersonalmente, riportando le opinioni altrui (Herling, Brancati, Moravia, Calvino e tanti altri) con rari e veloci commenti suoi. La scelta delle citazioni, però, non è mai occasionale (ce ne sarebbero altre diecimila possibili). Egli ha mirato al dettaglio, ai fatti minimi della vita di Pavese, persino ai “pettegolezzi”. Eppure a muoverlo è un pensiero forte, l’annuncio di un disastro: la letteratura è morta. Lo dice chiaro e tondo nell’appunto di Mercoledì 29 aprile 2009 : “io non faccio altro che aggirarmi intorno alla vecchia questione irrisolta, la questione delle questioni, quella de « la morte della letteratura ». Che non è un convenzionale, astratto, accademico modo di dire, ma un evento reale, che è accaduto realmente, in un momento storico e biografico , all’incirca mezzo secolo fa. Nel mio diario io ne ho parlato spesso, così spesso che quell’evento potrebbe essere considerato come il contenuto, l’argomento, il tema essenziale del mio quotidiano scrivere ormai da quasi un quarantennio – cioè, anno più, anno meno, da tutta la vita. “. Non so dire quanto sia esatta e senza appello la sua diagnosi. Ma è bene chiedersi che effetto critico può avere questo suo “grido di dolore” oggi che il mito letterario (da cui anche le nostre gioventù furono sfiorate proprio attraverso la figura di Pavese) è giunto all’annacquamento, allo sbriciolamento, al pillolismo . [E. A.]

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I miei anni Settanta a Cologno (1)

di Donato Salzarulo

Una città è anche costruita mediante i ricordi che riusciamo a conservare delle esperienze che in essa vi facciamo e in qualche modo passiamo ad altri, forse persino ai più giovani. Questi di Donato Salzarulo si inseriscono nel lavoro di scavo sugli anni ’70 promosso dal gruppo “On the road again. Anni 70 a Cologno”  (di cui qui e qui). Pubblico la prima parte del suo scritto. E appena possibile la seconda. [E. A.]

Arrivai a Cologno tra la fine di settembre e gli inizi di ottobre del 1968. Non ricordo bene il giorno. So che ad accogliermi c’erano mio fratello e i miei cugini materni Peppino e Gerardo Ferricchio. Loro erano arrivati qui già da diverse settimane, si erano sistemati in una mansarda di Via Corridoni a Ginestrino e lavoravano in alcune grandi fabbriche. Mio fratello da pochi giorni alla Candy di Brugherio, Peppino alla Pirelli di via Ripamonti e Gerardo alla Breda siderurgica di Sesto.

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Il mio Sessantotto: il respiro della libertà

di Donato Salzarulo

1. – A diciotto anni compiuti, tra l’autunno del 1967 e l’inizio dell’estate del ’68, ho vissuto a Rivoli, un comune abbastanza popoloso della cintura torinese (ad oggi circa 49.000 abitanti). Continua la lettura di Il mio Sessantotto: il respiro della libertà

Da “L’utopia concreta” a “InOltre”

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di Giuseppe Muraca

Questo intervento di Giuseppe Muraca e il carteggio ad esso allegato permettono d’intendere meglio sia i precedenti della rivista “Inoltre” di cui ho parlato qui  sia la varietà e vivacità delle spinte intellettuali che negli anni ’80-’90 hanno continuato a tentare di capire la crisi generale della sinistra socialista e comunista italiana evitando i facili pentimenti e il cospargimento di cenere sul capo, di cui ha dato prova di recente il l’ex “capo dei rifondatori” Fausto Bertinotti (qui). Spero  di ospitare altri interventi di promotori di riviste di quei decenni e chissà di ritessere  ancora un filo di ricerca comune. [E.A.]
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IN MORTE DI VITTORIO RIESER (Un’intervista del 3 ottobre 2001)

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Foto di Vanna Lorenzoni

[Avrò visto e ascoltato Vittorio Rieser un paio di volte in via Vetere a Milano negli anni Settanta. In qualche seminario di Avanguardia Operaia – organizzazione “extraparlamentare” (questa la definizione dei giornali ostili) a cui ho partecipato io pure dal ’68 al ’76. Poi, nella seconda metà degli anni Ottanta, l’ho incontrato ad Agape di Praly, il centro dei valdesi, dove ancora era possibile  durante qualche campo estivo discutere  di argomenti socio-politici con studiosi o militanti – diciamo pure – in pensione o già messi ai margini dal nuovo corso che porterà alla distruzione della Sinistra. A differenza di altri, nei confronti del Rieser studioso mi è rimasta una stima rispettosa, anche dopo la sua scelta di rientrare nel PCI. E  ho avuto un’attenzione saltuaria ma coinvolta verso i suoi scritti più recenti, soprattutto quelli di bilancio storico, che mi è capitato di trovare sul Web o sul sito de «L’Ospite ingrato» del Centro F. Fortini (qui e qui). Li ho letti, però, con crescente distacco. Sia per la consapevolezza della comune sconfitta, che rende  amaro ogni sguardo al passato. Sia per diffidenza verso quella sua scelta di continuare la militanza nel PCI o in Democrazia proletaria o in Rifondazione comunista. Mentre la mia è stata la via dell’isolamento o, come poi l’ho chiamata, dell’esodo: pensare e agire per quel che ancora si poteva, ma al di fuori di ogni istituzione sindacale o politica, storica o residuale di quella stagione politica, nella quale il termine ‘sinistra’ aveva avuto  un qualche senso. Se oggi, malgrado le distanze, mi sento di onorare Vittorio Rieser, come mi è capitato per altri compagni conosciuti di striscio o frequentati allora (Danilo Montaldi, Massimo Gorla, Costanzo Preve,  Franco Pisano) è perché, fra le ceneri di molte loro parole, ancora trovo qualche brace intensa della vampata di quegli anni. Continua la lettura di IN MORTE DI VITTORIO RIESER (Un’intervista del 3 ottobre 2001)