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Echi di Eco

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di Samizdat
E’ stato appena pubblicato un libro “Umberto Eco e la politica culturale della Sinistra” di  due giovani studiosi Claudio Capris e Giandomenico Capris, che, secondo la locandina della  Casa Editrice La nave di Teseo, “ricostruisce una stagione irripetibile della politica e della cultura italiane, tra la nascita delle neoavanguardie e l’esplosione dei mezzi di comunicazione di massa”.  Se dovessi trovare il tempo per leggerlo, mi porrei questa domanda: di quale Eco parlano: del giovane “incendiario” o del vecchio “pompiere” e terrei in mente questi due stralci che sono andato a ripescare in “Insistenze” di Fortini:

1.
Nei vent’anni che vanno dal 1945 al 1965 (circa) il tema dei rapporti fra intellettuali e politica si venne modificando col mutare dei due termini. Gli intellettuali divennero massa (con una giungla di “livelli”), la politica diventò tenacissimo sistema dei partiti e dei sottopartiti: mulino dell’identico. Nel quinquennio 1967-1972 a tutta una larga parte di quella che fu la nuova sinistra apparve chiaro che si trattava di comprendere e di controllare, per giugere a modificarli, i meccanismo della trasmissione intellettuale, culturale e ideologica: la scuola, la università, i centri di ricerca, gli audiovisivi, gli spettacoli, l’editoria nelle sue diverse forme. E che ciò poteva essere fatto soltanto dall’*interno* degli organismi (questa la “lunga marcia”, non quella di avvicinamento al potere politico esistente!) con una varietà di strumenti: ad esempio, la conoscenza dei meccanismi della informazione, la elaborazione di tecniche operative sui linguaggi e la loro circolazione, le attività sindacali ecc. Nell’area della cosiddetta letteratura si sarebbe trattato di conoscere l’economia e la politica del sapere e della cultura, l’albero delle decisioni editoriali, quello della distribuzione, della critica, e della ricerca, delle traduzioni, delle centrali del gusto ecc. Questo programma urtò tanto contro l’insipienza politica di chi, nelle nuove sinistre, lo credette meno importante delle chiacchiere sulla presa del potere, quanto contro la più che naturale volontà politica ed economica di chi non era disposto (a destra, al centro o a sinistra) a cedere un millimetro del proprio potere di gestione e controllo e che quindi si batté, nel decennio successivo, non solo per spegnere quelle tendenze ma per ridicolizzarne o criminalizzarne origini e motivi, obliterarne il ricordo presso le nuove generazioni, cooptare intellettuali “pentiti”.

(F. Fortini, “Il mercato delle lettere” (maggio 1981), in “Insistenze”, pagg. 82-83, Garzanti, 1985)

2.
Avete notato la scomparsa (ossia la riduzione a specialità universitaria) dei discorsi sull’industria della cultura e sulla manipolazione dell’opinione tanto correnti fino a pochi anni fa? I sociologi seri hanno disputato, negli scorsi anni, sulle tecniche di rilevazioni degli effetti delle forme culturali di massa; ma ora stanno pensando alla bibliografia. Anche Eco, mi pare, dopo aver lavorato in avanscoperta a destrutturare criticamente le comunicazioni di massa e a proporre vie anche politiche volte a mutarne i linguaggi, sembra trascorso a ragionamenti difensivi, profilattici; non si va più dal momento della critica ideologica a quello dell’azione politica ma (più tradizionalmente) dalla critica ideologica all’intento di influenzare l” “opinione”. La verità onde dire è fare si accompagna alla bugia onde sapere è potere.

(F. Fortini, L’informazione inutile (luglio 1976), in “Insistenze”, pagg. 181- 182, Garzanti, 1985)

Storia al biennio

dal diario 1982 di prof Samizdat a cura di Ennio Abate

24 settembre 1982

Cresce il mio interesse per la storia. È alimentato dal mio lavoro d’insegnante e dalla lettura dei manuali in uso, ma è disturbato e a volte bloccato dalla disattenzione e dall’indifferenza degli studenti. Finisco per leggermi e studiare il manuale per conto mio. Non ho altra scelta.  ma che frustrazione trovarmi di fronte a un manuale (autori Di Tondo e Guadagni) carico di nozioni e senza un filo di racconto  ben individuabile.

Ho fatto un confronto con il manuale di Vegetti: l’argomento della preistoria è svolto da Vegetti in 15 pagine, che comprendono anche 4 letture di approfondimento e sette pagine  illustrate.  La linea del manuale è precisa: no alla storia «archivio del potere» o «favola del progresso», no al mito dell’«obbiettività»; necessità di una «teoria» della storia antica che ne evidenzi la diversità dall’oggi; rifiuto del mito della classicità, intesa come momento di perfezione; lettura delle società antiche alla luce dei «modi di produzione e dei rapporti sociali» (Marx). Il materiale storico proposto è ridotto e spiegato con chiarezza; e la narrazione dei fatti è preceduta (e quindi subordinata) alla «descrizione dei quadri sociali» che permangono per vari secoli.

Quello di Di Tondo e Guadagni dedica allo stesso argomento ben 46 pagine, con 26 letture (distinte in documenti e problemi) e ha 24 pagine di illustrazioni. Dà molto spazio al racconto e dichiara una volontà di aggiornamento scientifico. Ha un’esposizione per problemi e pretende d’introdurre lo studente al lavoro storiografico. A me pare inutilizzabile dallo studente e poco adatto anche alle esigenze di aggiornamento dell’insegnante.

Non me la sento di trascurare le reazioni negative dei ragazzi né di predicare loro l’«oggettiva importanza» di studiare la storia. Mi sento solo di incoraggiarli a una lettura attenta di alcuni capitoli e fargli approfondire qualche argomento con un’interrogazione maieutica. E posso anche usare qualche loro domanda per coltivare e aumentare la loro curiosità. Nulla di più.

26 settembre 1982

[Ancora sul mio insegnamento della storia] Ho molte incertezze. Non so decidermi a far studiare la storia antica a ragazzi che non ne vogliono sapere né a scegliere tra un’impostazione e l’altra. Dietro la mia difficoltà di risolvere un problema didattico c’è anche la mia crisi di intellettuale che finora si era interessato soprattutto a un periodo limitato della storia: quella “contemporanea” e soprattutto della nascita e crescita del movimento operaio. Avevo fatto la tesi sui «Quaderni rossi», un tema collegato all’impegno politico degli anni Settanta. E nei primi anni d’insegnamento a ridosso del ’68-’69 avevo continuato a privilegiare la storia contemporanea anche quando insegnavo alle medie.  Approfittando della “sperimentazione” partivo dalla rivoluzione industriale e arrivavo alla cosiddetta attualità.

                La crisi della militanza politica mi ha portato ad accettare e rispettare il «programma» e a fare storia antica e medievale da sempre trascurate. Mi sono   accorto però dei limiti sia dei miei studi liceali sia di quelli universitari completati facendo il lavoratore-studente. All’università gli esami di latino e storia antica li ho fatti male. Quello di Storia medievale dovetti ripeterlo. Qundi ho due problemi: la resistenza dei ragazzi che rifiutano di studiare storia e la presenza di vuoti nella mia preparazione.

 

27 settembre 1982

[Appunti guida per lo studio della storia antica] 1) Non si può dare quasi per scontata e indiscutibile la “necessità” di studiare la storia (e la storia antica poi, nel caso del biennio) e i motivi che hanno spinto le generazioni passate a studiarla non valgono per quelle di oggi. 2) Perché oggi “noi” (studenti, insegnanti) dovremmo studiare la storia antica? Per vari motivi, ma uno fondamentale sta nella crisi dello  sviluppo dell’umanità. Il futuro è oscuro. L’idea di Progresso – una certezza per gli uomini dell’Ottocento – è smentita dai fatti. Anche la fiducia nella scienza si è incrinata. Insoddisfazione del presente e oscurità del futuro spingono a ripensare il passato, a rivolgersi ad altre culture (quelle orientali ad esempio) o a indirizzarsi a saperi finora trascurati o disprezzati (astrologia, occultismo, medicina popolare). 3) Lo stesso studio della storia risente di questo clima di crisi. E l’attenzione al passato storico preindustriale è cresciuta. Questo passato sta diventando persino di moda: film di fantarcheologia o come «Excalibur» o «Il romanzo della rosa» di Eco. 4) Accostarsi al passato è  davvero difficile. Si possono commettere vari errori. Ad esempio,  quello di renderlo simile al nostro presente, cancellando le sue diversità dai tempi antichi. Il consumo  di passato organizzato per le folle (es. le visite ai bronzi di Riace) annulla queste diversità, non arriva neppure per un attimo a rompere le nostre abitudini quotidiane e l’unicità dei bronzi e annullata o neutralizzata dalla loro riproduzione in oggetti ornamentali ubito commercializzati. Come facciamo a rendere gli antichi nostri contemporanei? Cancellando la loro diversità. Ad esempio, le strips dei fumetti presentano uomini preistorici nell’abbigliamento, che però sono assillati dai problemi della nostra  vita quotidiana.   Forse la storia è il campo della lotta tra quanti  vogliono scoprire la diversità del passato e quanti vogliono sterilizzarla.

Pace e guerra dopo l’11 settembre 2001

RIORDINADIARIO 2001. Appunti per un editoriale di inoltre 4 (nov. 2001)

Questi convulsi, eccessivi e  provvisori appunti,  estratti dagli articoli che lessi nel settembre di quell’anno su “il manifesto”, li  scrissi per orientarmi di fronte ad un evento che ammutoliva. E in vista di una discussione che speravo si potesse svolgere nella redazione della rivista “Inoltre” (qui), di cui allora ero “coordinatore per il Nord.  Non se ne fece nulla a causa di dissapori e tensioni interne tra i redattori. Li  usai poi in parte  per una conferenza  in un  Centro cultural di Santa Fiora (Grosseto) invitato nel novembre 2001 dall’amico Velio Abati.  Pur datati, contengono  spunti per riflettere a ventanni di distanza e sfuggire alla retorica  dell’anniversario che oggi viene imposta al mondo intero. [E. A.]

la bomba cade l'afghano
muore 
il mercante d'armi brinda il papa prega
il terrorista si prepara il pacifista manifesta
il poeta scrive versi ispirati
alla bomba che cade
all'afghano che muore
al mercante d'armi che brinda
al papa che prega
al terrorista che si prepara
al pacifista che manifesta
contro la bomba che cade
sempre su un altro: afghano, irakeno, kosovaro, ceceno, etc.
che muore
che non brinda che non manifesta che non scrive versi
che lontano, lontano
riceve solo la bomba  della nostra intelligenza

Ennio Abate 15 ottobre 2001


Premessa. Sorpresa, sconcerto, afasia, preoccupazione

(Prima  la guerra del Golfo, poi quella in Kosovo, ora Afghanistan e poi? Siamo alla terza guerra mondiale?). Senso di impotenza…come se il mondo fosse precipitato in un mostruoso videogame, in uno stadio infantile, presimbolico, pre-linguistico. Che è lo stato paranoide per definizione. Perciò dobbiamo parlare a tutti i costi. Per non restare affascinati e paralizzati dall’icona totale, dell’immagine spettacolare delle Torri incendiate e della Guerra globale. (Carlo Galli,  manifesto 27 sett. 2001)

Anche “parlare a tutti i costi”, per ripetere «pace, pace» a chi continua  a bombardare, a tenerci all’oscuro dalle vere ragioni del conflitto (Cos’è, prego, la “lotta al terrorismo”? perché non si è fatta prima e in paesi dove i morti sono stati anche di più di quelli a New York? Perché fate improvvisamente la guerra a quelli che fino all’altro ieri erano vostri alleati: Saddam , bin Laden?), può essere solo sfogo impotente.

Dichiariamo la nostra debolezza. Non gonfiamo vanamente il petto. Non illudiamoci di poter trattenere i potenti che hanno deciso ancora di  scontrarsi. Non agitiamoci a vuoto, soprattutto. Cerchiamo di capire, prima di parlare. Sottoponiamo ad un filtro critico quello che vediamo e leggiamo. Prepariamo bene il terreno per azioni politiche veramente efficaci chissà quando contro la guerra.

(Questo è quanto ho cercato di fare in questi giorni. Qui ve ne do un resoconto, per quel che mi è possibile ragionato.)

  1. L’EVENTO: EMOZIONE, PROPAGANDA, PRIMI RAGIONAMENTI: Apocalisse o la solita guerra o un nuovo tipo di guerra?

 Un filosofo della politica – Carlo Galli, studioso di Schmitt e autore di Spazi politici. L’età moderna e l’età globale , 27 sett  –  ci ha ricordatoche tutte le  tensioni della modernità sono esplose e devono essere date per «finite» dopo l’11 settembre. E sono tante: fine della fabbrica e trionfo della rete virtuale; fine del rapporto centro periferia e nuove gerarchie tra locale e globale; fine della lotta di classe tradizionale e esplosione di conflitti etnici e culturali; fine del comando della politica sull’economia; fine dello stato-nazione ma anche del diritto internazionale (sia  nella versione jus publicum europeum sia di quella bipolare della Guerra Fredda); fine del Nemico visibile e individuabile, statuale, e inutilità della coppia amico/nemico. E ha  dichiarato: «solo la teologia ci può aiutare a vedere e a capire»; e ha invitato anche lui a «rileggere i capitoli 17 [Il castigo di Babilonia] e 18 [La caduta di Babilonia] dell’Apocalisse», perché  ci manca – egli dice – un pensiero all’altezza della crisi del sistema, e ci manca perché le condizioni di un nuovo ordine globale non ci sono. Abbiamo domande, non risposte. La tragicità della situazione sta qui.

E a  molti, infatti, è venuta in mente l’Apocalisse. Hanno parlato di scenario apocalittico (Dio si sarebbe servito di un mezzo violento per far giustizia, per punire la tracotanza degli Usa). Bush e Bin Laden  vengono presentati come due eroi apocalittici della modernità  che si rimandano a vicenda le maschere del Bene e del Male (5 ott Lea Melandri). Questa immagine biblica, ridotta a «retorica» copre i conflitti reali. E anche se, scuotendosi e ragionando si ammette che non è stata apocalisse» (Rossanda, 22 sett.), – del resto siamo ancora vivi, per il momento – si insiste: l’«apocalisse» c’entra,  perché sarebbero rientrati in gioco i sentimenti elementari di  amore e odio e si cita Freud: «quel che vi è di primitivo nella psiche è veramente imperituro».

Altri – un’antropologa come Clara Gallini  (25 sett.) –  hanno insistito sullo smarrimento della ragione e fatto rilevare una sensazione di dejà vu: l’attacco alle Torri gemelle sembra avvenuto come «da copione». La cinematografia (proprio quella americana) da tempo ha addestrato l’occhio di milioni di spettatori a scene di attacco ai valori occidentali (la famiglia, la nazione). Riemersione dell’inconscio, dunque. L’arcano XVI dei tarocchi: una torre decapitata dal fulmine, il Re e l’Architetto che precipitano, il volto di dio che appare tra le nuvole (sostituibile nel caso con quello demonizzato di Bin Laden) non combacia forse perfettamente con quanto accaduto?

Di questa riemersione brutale dell’inconscio (politico occidentale) si possono trovare  altri mille esempi sui giornali, alla radio alla Tv; in questi giorni e altri ne appariranno nei prossimi. È un problema che vale la pena di approfondire.

La psicanalisi e l’antropologia non contano barzellette e sono strumenti che  fin dall’inizio del Novecento hanno dato l’allarme: attenti  alla Ragione assoluta! Non credete all’Universalismo occidentale!

Ma la riemersione dell’inconscio è cosa diversa dall’immersione compiaciuta nell’inconscio. Quando poi il fenomeno viene ridotto a pura propaganda degli Usa e al vilipendio del mondo che subisce i danni della mondializzazione, dobbiamo stare in guardia. Basta leggere (se ci riuscite…) l’articolo repellente di Oriana Fallaci. (….)

Accanto a queste posizioni che accentuano gli aspetti di catastrofe del mondo  contemporaneo, ce ne sono altre che tenacemente non rinunciano ai ragionamenti storico-politici, malgrado  lo scombussolamento delle categorie storiche e politiche.

Appartengono sia a quanti  provengono dal di fuori del mondo occidentale sia a chi ci è cresciuto dentro. Proseguono lo sforzo critico tipico della cultura nata dall’illuminismo.

È il caso di Umberto Eco […], di Sandro Portelli, di Rossana Rossanda. Con sfumature diverse  sostengono  quantomeno l’esigenza di distinguere, confrontare, tener conto dei fatti storici e della varietà delle culture, difendendo l’ibridismo, il relativismo culturale, messo brutalmente in discussione dall’attentato dell’11 settembre e dalle successive reazioni di guerra promosse dagli Usa.

In queste posizioni c’è uno sforzo di “razionalizzazione”, un saggio sforzo di spremere fino alle ultime gocce il limone della Ragione e non buttarlo via, dandolo per marcio. (A me  queste posizioni sembrano necessarie, anche se non sufficienti…)

Vorrei citare ora le obiezioni coincidenti che fanno Nedim Gürsel, scrittore turco (20 sett) : nessuno ha avuto l’idea di dire «siamo tutti algerini» quando le vittime del Fis si contavano a migliaia. Perché dirci «siamo tutti americani » ora?

E Rossana Rossanda:

Perché non abbiamo parlato di apocalisse di fronte ai 150mila sgozzati in Algeria, ai 6-700mila uccisi dagli Hutu, dei 300mila ammazzati in Irak durante l’operazione Tempesta nel deserto, al mezzo milione di bambini che vi muoiono per l’embargo, ai 35mila morti in Turchia, ai 70mila in India in questo stesso 2001? E i fondamentalismi  non li ritroviamo anche nell’ebraismo e nel cristianesimo?«Sharon non è gli ebrei, Pio XII non è i cattolici, Bush non è gli americani. (22 sett Rossanda)

Tutto lo sforzo della Rossanda tende al ridimensionamento razionale degli sfoghi «torbidi» su cui  i governi occidentali vanno costruendo la loro risposta di guerra:

l’11 settembre non è stata una guerra, non è stata l’apocalisse, non è stato l’assalto dell’Islam alla cristianità [tesi di Huntington], non è stato un attacco alla democrazia (al mercato), non è stata una vendetta dei poveri («Non è dei poveri né per i poveri la dirigenza della Jihad»).

La vera domanda: perché ora?  Fino a dieci anni fa la Jihad non era così forte e finora agiva solo all’interno dell’Islam (caso dell’Algeria) senza turbare gli occidentali. Si è pensato di allevare il terrorismo e di  servirsene. (22 sett. Rossanda).

Dicendovi quali sono i commentatori che dicoo per me cose valide e quali quelli da respingere (emblema per tutti: la Fallaci), vi ho dichiarato esplicitamente che sono contro la guerra promossa dagli Usa e a cui l’Italia ha aderito. Ma cosa significa essere contro la guerra oggi?

Rispetto, ma non mi basta il rifiuto emotivo e immediato della guerra.

Ci vuole un rifiuto ragionato, che deve nascere dalla conoscenza  della realtà d’oggi, dal recupero di certe precise memorie del passato, dalla riflessione sui problemi (economici, politici, culturali, morali) aperti e irrisolti e non dalla loro semplificazione unilaterale e di comodo.

Non bisogna affrettarsi a rifiutare la guerra a parole. Spesso ci ritroviamo a sostenerla, senza neppure accorgercene: per il semplice fatto di vivere qui, in Occidente. O per il semplice fatto di avere acquisito mentalità e stili di vita forgiati di fatto dall’americanizzazione dell’Italia cominciata almeno dal 1945.  Altre volte ci siamo ritrovati ad opporci ma nei modi rituali e praticamente inefficaci del passato. (Ricordiamo che le manifestazioni contro la guerra in Kosovo accompagnarono la guerra, non  la fermarono).

E allora  consideriamo alcuni dei problemi posti da questo ritorno della guerra:

  1. sulla novità dell’evento dell’11 sett.

Chomsky (20 sett) ha sostenuto che rispetto all’evento caduta del muro di Berlino quello dell’11 sett contiene una novità assoluta. Per il suo obiettivo. È la prima volta dal 1812 (guerra angloamericana sul confine canadese) che il territorio  nazionale degli Usa viene attaccato. Egli ha respinto il paragone con Pearl Harbour (7 dic. 1941): lì furono attaccate solo le basi militari statunitensi di stanza in due colonie. Per lui, siamo di fronte a qualcosa di «radicalmente nuovo».

Altri riconoscono che la novità in assoluto svelata dall’11 sett. è la vulnerabilità degli Usa (Parlato 16 sett), ma una cesura epocale la vedono nella caduta del muro di Berlino (1989), che con il crollo poi dell’Urss ha fatto precipitare l’equilibrio bipolare Usa- Urss e ha dato luogo all’attuale fase di disordine mondiale, di cui non si vede sbocco certo (Impero? Guerra mondiale? Guerra globale interminabile?).

Accentuare o meno la novità dell’evento non è senza conseguenze.

Affermare – come fa lo storico Chesneaux (23 sett.) e alla maniera di Benjamin – che l’11 settembre è un momento singolare, un vortice che ha messo a nudo non solo la vulnerabilità degli Usa ma di tutta la società sviluppata (il cuore della mondializzazione capitalistica), per cui tutte le grandi metropoli sono minacciate dal terrorismo di distruzione di massa, anch’esso nuovo e quindi non riconducibile a quello di inizio ‘900, che colpiva al massimo un arciduca o un presidente, può voler dire che la conoscenza della storia  passata ci aiuta poco; e che dobbiamo, invece, far fronte ad una situazione in gran parte ignota.

L’eccezionalità dell’evento non significa però affermare automaticamente che il nuovo terrorismo transazionale sia davvero il pericolo principale. Può voler dire che la mondializzazione in corso non è padroneggiata neppure dagli Stati Uniti, che pur sono la potenza militare egemone; e che il terrorismo – come  dicono  molti – è in pianta stabile all’interno stesso del mondo globalizzato. E, se un evento eccezionale richiede una reazione eccezionale, non è detto che  la giusta reazione eccezionale sia la guerra.

Una «vera guerra al terrorismo», come fatto eccezionale, visto che molti terrorismi non hanno avuto nessuna risposta (Algeria, etc) o non hanno avuto una risposta di guerra (contro Saddam si parlò di «operazione di polizia internazionale»)  dovrebbe assumere forme diverse da quelle tutto sommato “tradizionali” dell’intervento in Afghanistan.

David Held Mary Kaldor (28 sett) è convinto, ad esempio, che la guerra vecchio stile fra gli stati sia diventata anacronistica e  che la vittoria militare  sia molto difficile se non impossibile. Il rischio, dunque, è di reagire all’11 sett.  come se fossimo di fronte a una «guerra vecchia», concentrando l’azione su alcuni stati (Afghanistan, Pakistan). Con il risultato di  scatenare una «nuova guerra» tra Islam e Occidente, che non sarebbe però  più tra stati ma si svolgerebbe all’interno di ogni comunità e sia in Occidente  che in Medio Oriente.

Richard Falk (23 sett ), un teorico della democrazia internazionale sostiene che quella a cui si andrà incontro sarà «una guerra senza soluzioni militari, in cui la ricerca della vittoria quasi certamente è destinata a intensificare la sfida e a diffondere la violenza» mediante un’alleanza scellerata fra governi e media: «siamo in bilico sul ciglio di una guerra globale tra civiltà senza campi di battaglia né confini», perché avviene dopo il crollo dell’ordine mondiale basato su stati sovrani.

Troppe cose, dunque, rendono sospetto questo gridare «al lupo! al lupo!»  dei governi occidentali, che hanno parlato immediatamente  di guerra e p rima evocato  e poi negato la loro volontà di andare ad  uno «scontro di civiltà» (Huntington).

Vediamole.

  1. Cause.

Almeno dal 1989 si è parlato con entusiasmo di «fine del comunismo», di «fine della storia» (Fukuyama). Nel frattempo è andata avanti una mondializzazione finanziaria e tecnologica che ha rappresentato il feticcio a cui tutto sacrificare (stato sociale dei paesi avanzati, diritti umani in decine di paesi: dalla Cina alla Turchia, all’Algeria, alla Palestina, ecc.).

Adesso siamo al baklash (Chesneaux, 23 sett.), al rinculo, all’arresto del progresso (economico, tecnologico). Abbiamo voluto il «laissez faire» economico assoluto e ci svegliamo con la rete di Bin Laden che realizza l’impensabile (Chesneaux).

Chossudovsky, economista canadse, autore di «La mondializzazione della povertà» (19 e 20 sett) ha – come molto altri – fatto rilevare che Bin Laden  e la Jihad islamica sono stati sostenuti da Usa e Arabia Saudita per combattere  contro i sovietici, invasori dell’Afghanistan, allora (1979) in mano al regime comunista di Brabak Kamal. E l’hanno fatto non in modo aperto, ma usando l’Intelligence militare pakistana (Isi), che ha un apparato di 150mila uomini,  attraverso la CIA. Ed ha anche denunciato che tutta la storia del traffico di droga nell’Asia centrale è collegata a queste operazioni coperte della Cia: nei primi due anni di guerra fra afghani e sovietici «la zona di confine Pakistan-Afghanistan divenne il principale produttore di eroina al mondo, fornendo il 60% della domanda Usa. Con la conseguenza che in Pakistan, la popolazione tossicodipendente passò da quasi zero nel 1979 a 1.200.000 persone nel 1985. La Cia controllava questo traffico di eroina. La Dea (Drug Enforcemente Agency) a Islamabad evitò di pretendere grosse confische di droga o arresti «perché la politica sui narcotici Usa in Afghanistan [era] subordinata alla guerra contro l’influenza sovietica».

Chossudovsky ha anche  scritto: «Sostenuto dall’intelligence militare pakistana (Isi), che a sua volta è controllata dalla Cia, lo stato islamico talebano è stato largamente funzionale agli interessi geopolitici americani. Il traffico del Goden Crescent [la zona di produzione e smercio dell’oppio] è stato anch’esso usato per finanziare ed equipaggiare l’esercito musulmano bosniaco (a partire dai primi anni ’90) e l’esercito di liberazione del Kosovo (Kla). Esistono prove che negli ultimi mesi i mercenari mujahideen stanno combattendo nei ranghi dei terroristi Kla-Nla in Macedonia. Questo spiega perché Washington ha chiuso gli occhi sul regno del terrore imposto dai Taleban, inclusi i plateali attacchi ai diritti delle donne, la chiusura delle scuole per le bambine, i licenziamenti femminili dagli impieghi pubblici e l’imposizione delle leggi punitive della Sharia».

 E ancora: «Dall’epoca della guerra fredda, Washington ha appoggiato consapevolmente Bin Laden, inserendolo nello stesso tempo nella lista dei «most wanted» dell’FBI come principale terrorista del mondo. (L’FBI, infatti, combatte una guerra interna contro il terrorismo per alcuni aspetti indipendentemente dalla Cia che, ha, dalla guerra in Afghanistan in poi sostenuto il terrorismo internazionale attraverso le sue operazioni segrete). Per una crudele ironia, mentre la jihad islamica viene criticata per gli attacchi terroristici sul World Trade Center e il Pentagono, queste stesse organizzazioni islamiche costituiscono uno strumento chiave delle operazioni americane militari e di intelligence nei Balcani e nelL’ex Urss (cfr. Cecenia)».

Mumia Abu-Jamal (25 sett ), poeta scrittore detenuto negli Usa, ha citato le dichiarazioni di un diplomatico americano: «Non si possono immettere miliardi di dollari in una jihad anticomunista, coinvolgere il mondo intero e poi ignorarne le conseguenze. Ma noi lo abbiamo fatto. I nostri obiettivi non erano la pace e lo sviluppo del’Afghanistan. Il nostro scopo era uccidere i comunisti e buttare fuori i russi» (un diplomatico Usa, sul Los Angeles Times 4.09.96)

Anche Johan Galtung (11 ott.), sociologo e matematico norvegese, fondatore nel 1959 del Peace Research Institute Oslo (PRIO), mette l’accento sulla situazione che ha dato esca alla scelta  della vendetta. Il sentimento di vendetta (l’odio di cui sono fatti oggetto gli americani e non solo loro) è maturato «per l’uso statunitense del potere economico contro stati e popoli poveri, del potere militare contro gente indifesa e del potere politico verso i senza potere». E ricorda «i 230 interventi militari statunitensi all’estero, il quasi sterminio dei nativi americani, lo schiavismo, la responsabilità della Cia per i 6 milioni di persone uccise tra il ’47 e l”87 (secondo fonti dei dissidenti della Cia) e i 100.000 che muoiono ogni giorno all’estremo inferiore di un sistema economico identificato da molti con il potere economico, militare e politico degli Usa».

L’Occidente impone un’enorme ingiustizia al resto del mondo in politica e in economia. Secondo l‘ultimo Pnud ( Programma di sviluppo delle Nazioni Unite) il patrimonio di 15 uomini più ricchi del mondo è pari al pil dell’Africa subsahariana (700-800 milioni di persone) (3 ott. Latouche, economista, autore di L’occidentalizzazione del mondo).

Qualcuno potrebbe giudicare fastidioso questo “rimestare” nel passato della più grande potenza mondiale. Ma  la storia, che i potenti danno per «finita» non fa che riportare continuamente alla luce i massacri su cui si edificano le civiltà.

Da dove viene, dunque, il “terrorismo”?

L’attacco alle Twin towers e al Pentagono – scrive  Burgio (27 sett)  –  non nasce in un vuoto pneumatico, ma in un preciso contesto economico e politico. C’è stata e c’è sordità delle grandi potenze nei confronti delle richieste economiche dei paesi poveri e delle istanze politiche delle popolazioni oppresse. Pochi sanno che metà del bilancio militare Usa basterebbe a eliminare la fame nel mondo. E il tragico fallimento dei sistemi di intelligence  non permette di escludere un’atroce ipotesi:  quella di una «strategia intestina, di una complicità con i commandos terroristi da parte di apparati deviati interni agli Usa o ad altri paesi occidentali. [Ecelon, preparazione durata mesi del piano, sottovalutazione di informative, rapidità successiva nell’individuare presunti complici, conoscenza dei codici cifrati  del luogo in cui si trovava il presidente].

Burgio – a differenza di molti altri che presentano la risposta di guerra  di una potenza mondiale come risposta emotiva  o giusta punizione per un massacro subito ingiustamente  e senza alcun motivo (come fa Lucia Annunziata a Radio 3) –  ricorda che la guerra  come rilancio di un’economia in recessione [un keynesismo militare» secondo Raskin] è un volano per il sistema militare-industriale Usa. [Lo ha scritto anche l’economista Graziani sul manifesto del 19 sett].

Obiettando poi a quanti insistono sulla novità eccezionale dell’evento e  vogliono iscrivere la risposta Usa all’interno di una logica imperiale[1] invece che imperialista – la prima più capace di egemonia e consenso, la seconda costruita sull’esclusivo uso della forza – sottolinea gli elementi di continuità col passato della risposta americana:  l’operazione di Bush junior  non è una nuova  guerra ma  la prosecuzione coerente della guerra del Golfo di Bush padre: «il collegamento con la presenza militare nei Balcani seguita alla guerra in Kosovo – scrive Graziani – creerebbe una cintura  completa, una nuova frontiera fra occidente e oriente», un nuovo bipolarismo, una sorta di «autodifesa preventiva» contro la Cina, che nel 2017 si prevede divenga potenza militare ed economica pari agli Usa.

Sulla sua stessa linea troviamo:

– Carla Ravaioli (25 sett), la quale fa presente che le guerre hanno risolto tutte le depressioni, tutte le crisi economiche del secolo scorso: a partire dai due conflitti mondiali, continuando con la Corea, il Vietnam, il Golfo e le mille guerriglie locali. Nel processo di accumulazione del capitalismo, fondato su una logica di crescita senza aggettivi, la produzione di armi s’inserisce bene anzi benissimo in certe circostanze.

Dinucci e Di Francesco (27 sett.), che hanno sottolineato come il centro della strategia militare degli Usa si stia spostando verso l’Asia. L’attentato di N. Y. ha solo accelerato questa prospettiva, che era già pronta. [addestramento piloti a lunghi percorsi di 50 ore dalle basi del Missori all’Asia]. La Nato prosegue la sua espansione verso l’Est contro la «nuova minaccia dall’est»: ieri Milosevic, ora bin Laden]. E che la posizione strategica del’area Afghanistan-Pakistan: vicina alle due potenze emergenti dell’India e della Cina, prossima al territorio dove si prevede la «guerra degli oleodotti» [ orridoi che portano il petrolio ai paesi consumatori].

È troppo facile liquidare questi dati come ragionamenti “economicisti”. Dopotutto le scelte politiche che contano le fanno oggi proprio élites che guidano l’economia mondiale. E la guerra non è stata mai esclusa dai calcoli dei potenti.

Non dissimili le considerazioni dello storico Hobsbawm (28 sett):

 – evitare la retorica e la propaganda americana;

– finora la conseguenze più importante degli attentati americani hanno riguardato l’economia mondiale, con l’affondamento delle piazze finanziarie;

«viviamo in un mondo globalizzato.. la circolazione di persone da un oceano all’altro è il fondamento dell’esistenza del mondo d’oggi.. bisogna viverci sforzandosi  di controllare gli aspetti insopportabili del fenomeno. Il terrorismo, le mafie, il mercato delle droghe sono «figli» della globalizzazione»;

Il capitalismo trascina il mondo verso un’implosione o un’esplosione e pone enormi problemi tra cui la crescita del fanatismo e dell’irrazionalismo. Ma il rischio di una guerra mondiale «mi sembra impossibile salvo, forse un giorno, tra Stati Uniti e Cina»;

–  c‘è una sola potenza egemonica e rispunta la questione dell’imperialismo o piuttosto del colonialismo: ci sono paesi occupati la cui politica interna è nelle mani di eserciti stranieri;

– gli Usa non sono in grado di dominare un mondo «complicato, in permanente trasformazione come il nostro». I governanti degli Usa sono troppo trionfalisti. Si sono creduti onnipotenti. I governanti inglesi nel XIX sec., quanto l’impero britannico esercitò la sua egemonia, erano più realisti: non pretendevano di controllare tutto. Dovrebbero ripensare ciò che possono fare, riconoscere i loro limiti;

– il primo problema è nelle strutture dell’economia e nella dialettica tra l’ economia e i  governi; il secondo problema sta nella «sconfitta delle antiche ideologie di mobilitazione dei popoli fondate sulle grandi rivoluzioni (americana, francese, russa). Tutta la tradizione razionalista è coinvolta e «lascia uno spazio enorme ad altre forze»;

– preoccuparsi dell’India (salita vertiginosa dell’economia e delle capacità intellettuali), della Cina (il gigante economico di questo secolo), delle «regioni tragiche» (Africa subsahariana e ex Urss (qui la crisi dell’agricoltura supera quella dei tempi della collettivizzazione), delle «regioni incerte» come l’Europa (l’antico progetto europeo è in un vicolo cieco).

  1. Sugli effetti (politici, culturali, economici) prevedibili dell’evento

Senz’altro sono disastrosi sia per chi volesse “la pace e basta”, sia per chi vuole una pace qualificata da più giustizia sociale e l’incoraggiamento dei processi di liberazione.

L’evento rallenterà la protesta mondiale contro la globalizzazione:  le atrocità terroristiche sono un regalo a chi è favorevole alla loro repressione (20 sett Chomsky)

Assisteremo a un grande rilancio delle vendite del libro di Huntington sullo scontro delle civiltà (16 sett Parlato) e quindi ad un inquinamento propagandistico che distrarrà le menti dalla realtà dei problemi. (Chi parla più dei fatti di Genova? E chi parla  delle decine di migliaia di licenziamenti che stanno investendo tutti  i settori economici dopo l’11 sett.?)

 Nel disastro, alcuni sperano, ma sono quasi immediatamente contraddetti dai fatti:

Ciotti (22 sett)  si aspettava «un soprassalto di lucidità nei governi e nella coscienza collettiva, nella società civile globale, per interrompere finalmente la spirale dell’odio e del terrorismo.. sottraendosi al copione già scritto della rappresaglia […].

La crisi dell’11 sett potrebbe portare ad un ridimensionamento dell’ultraliberismo e ad un intervento dello stato? (Molti fanno l’esempio del risparmio sul costo del lavoro: subappalto dei controlli dei varchi negli aeroporti che ha aperto le porte alle infiltrazioni terroristiche (16 sett Parlato))

Oppure auspicano che i pacifisti più convinti dovrebbe trovarsi proprio nella comunità degli affari. Non si fondano sulla certezza delle aspettative in economia? (16 sett Parlato)

Possiamo restare appesi a queste dichiarazioni di speranza sull’America, mentre il grosso del paese e tutta la sua dirigenza politica e culturale (tranne  alcune mosche bianche: Sontag, ecc.) hanno imboccato la via del fondamentalismo proprio come dall’altra parte della galleria l’ha imboccata bin Laden?

Riporto  le riflessioni di Saskia Sassen (18 settembre):

  • i leaders statunitensi attuali non vogliono comprendere altri linguaggio che quello della guerra, si trincerano dietro il muro di prosperità e non esitano – quando intervengono all’esterno – a puntare innanzitutto sul controllo militare di un paese anche se esso non fa che aumentare la povertà della popolazione;
  • il tono dominante nei mass media è quello di chi vuole la guerra, non di chi chiede peace, not war;
  • ostilità contro il “nemico interno”: comunità musulmane e migranti in genere – razzismo rinfocolato – sicurezza:  si discute per ridare agli agenti della Cia la possibilità di eliminare fisicamente leaders e esponenti politici stranieri “nemici degli Usa”.

Mi sento più vicino a chi non crede nella capacità autoriformatrice  del capitalismo e del mondo occidentale.

 «Ci sarà più Stato» è affermazione ambigua – dice Latouche – Non è che ci sarà più Stato sociale. L’aiuto va alle imprese in difficoltà non ai «20-30 milioni di persone che negli Usa vivono sotto la soglia di povertà». Ci sarà la rinuncia al dogmatismo ideologico ma «in nome della difesa degli interessi interni degli Stati Uniti». Siamo arrivati all’ultraliberismo. Per gli Usa «la liberalizzazione va bene per gli altri… loro sono il paese più protezionista» (Cfr. negoziati Gatt e Wto)  (3 ott. Latouche, economista, autore di L’occidentalizzazione del mondo)

Né sembra che la paura del terrorismo possa avere  qualche benefico effetto, risvegliando i governi e spingendoli almeno ad un maggior controllo fiscale. Scetticismo sull’intenzione di «controllare i paradisi fiscali». È’ difficile distinguere fra un dollaro pulito e uno sporco. I paradisi fiscali servono ai terroristi ma servono anche alle multinazionali (3 ott. Latouche)

AMERICANIZZAZIONE: SIAMO TUTTI AMERICANI=SIAMO TUTTI ITALIANI  O ANTIAMERICANI  O FILOAMERICANI O IBRIDI?

Portelli, America e luoghi comuni (manif 20 ott 2001)
Lo sforzo di Portelli è quello di distinguere. «L’America è una realtà composita, complicata, pullulante» – ha scritto –  e «la vicinanza culturale, i rapporti, i contatti con gli Stati Uniti che in misura diversa tutti noi intratteniamo sono una delle ragioni per cui la strage dell’11 settembre ci ha così ferito». Una sua studentessa  gli ha confessato che«è la prima volta che un pezzo della sua memoria viene cancellato da un atto di violenza».

Pugliese 28 sett.

  • la parte più bella dell’America è che è un paese che non si è mai vergognato di definirsi paese d’immigrazione;
  • con la globalizzazione l’America è potenza militare unica, ha conquistato tutto. Tutto domina e tutto contiene in sé: i terroristi possono comprarsi un bel corso per pilota solo in America e il mestiere di terrorista l’hanno imparato dagli americani e forse in America.

 

Cartosio (20 sett) appare scisso, dilaniato  fra amore e repulsione:

  • non possiamo scagliare invettive contro gli Usa come hanno fatto la Sontag [ non è un attacco  alla civiltà, all’umanità, alla libertà, al mondo libero ma un attacco all’autoproclamata superpotenza del mondo] e Bellow [ gli Usa sono un enorme paese dei balocchi e gli americani bambini viziati che si illudono di giocare per sempre] [ma sono invettive o verità?]
  • siamo comunque più vicini alla storia degli Usa (li conosciamo, li frequentiamo, li amiamo), che ai paesi islamici o asiatici (nel nostro rapporto con questi mondi non c’è ancora nulla di intimo).

[profondità dell’americanizzazione] [ma non è una colpevole ignoranza conoscere  i luoghi degli Usa e non conoscere l’Iraq o la Palestina? Non ci dice che ci siamo spostati verso i ricchi e ci siamo allontanati dai poveri? E il giudizio politico critico verso i bombardamenti Usa, se «non smette di essere intriso dell’effetto, e quindi del risentimento», sarebbe viziato?  Dobbiamo venire a sapere dopo – quando Clinton  chiede scusa al Guatemala per i 200mila morti del golpe del 1954 – che la politica estera americana è omicida? Nei confrotni degli Usa siamo come i comunisti  del PCI rispetto ai gulag di Stalin?

Più distaccato Ceserani (20 sett):

  • reazioni della gente: tendenza puritana a chiudersi nella famiglia, a concentrarsi sul proprio lavoro e sulla propria missione al mondo [come invitano a fare Mengaldo e Ranchetti?];
  • Bush retorica rozza da sceriffo di frontiera;
  • paese ricco di capacità tecniche e intraprendenza economica, ma privo di intellettuali capaci di analisi (effetto del postmodernismo): uniche eccezioni Chomsky e la Sontag; vuoto pauroso: nessun giornale che possa assomigliare al” manifesto” o anche solo a “El pais” o al “The Guardian”; debolissime le università, poste sotto assedio da tempo dalle corporations (già “americanizzate” insomma, cioè precocemente professionalizzanti e basta);
  • si potrebbero leggere i fatti alla luce dell’immaginario sulla cospirazione (congiura di corte, società segrete d’inizio Ottocento, reti comunicative complesse e autoreferenziali  postmoderne ( es. romanzi di Philip Roth e Pendolo di Foucault di Eco)

Davvero critico  Latouche (3 ott):

la solidarietà immediatamente scattata fra tutti i paesi ricchi  che hanno fatto blocco con gli Usa (Chirac: siamo tutti americani), è la prova  che l’occidentalizzazione esiste.

L’Europa, non colpita, poteva distinguersi, ma non l’ha fatto:

– cecità americana: l’americano medio ignora il resto del mondo [Cartosio in parte…]. come possono mettersi dal punto di vista degli altri?

«Non siamo tutti americani [slogan lanciato su Corriere della sera  e Le monde] – io almeno non lo sono» .

 Siamo deboli ma possiamo dire che Bush è pazzo pericoloso, non colpirà la Jihad ma molta gente senza colpa e spingerà gli Stati Uniti a vivere assediando il mondo e ad esserne assediati.( 22 sett Rossanda)

Tonello (22 sett):

  • cosa significa essere americani è problema irrisolto: cfr Michael Walzer, Che cosa significa essere americani, Marsilio 1992
  • Hofstadter: l’incertezza ha un motivo profondo: l’America è un’ideologia, un progetto non un luogo fisico con dei confini;
  • Gleason: per essere o per diventare americano non era richiesto nessun retroterra etnico, religioso, linguistico o nazionale; l’immigrato doveva solo impegnarsi in una ideologia politica centrata sugli astratti ideali della libertà, uguaglianza e repubblicanesimo;
  • Visione autoritaria della cittadinanza: Love it, or leave it = amate l’America o andatevene [ gli indiani d’America  eliminati appunto in quanto «non americani», segregazione razziale, internamento di giapponesi e italiani durante la seconda guerra mondiale]
  • il maccartismo torna alla ribalta con il pretesto del terrorismo [etichetta appiccicata a discrezione del Dipartimento di Stato] (presentato come barbarico, privo di ragioni, irrazionale e inspiegabile [!], mentre è chiaro che si propone di punire gli Usa per il loro appoggio a Israele e ai regimi arabi «empi» come l’Arabia saudita.
  • I media dicono che si odia l’America perché ricca, tollerante e moderna. Molti invece la odiano per quel che fa in appoggio a regimi corrotti come quello saudita, per il sostegno  d’armi a Israele, per il suo disinteresse  verso chi vive nei campi profughi;
  • Fukuyama su Le monde intitolava il suo articolo l’etat uni: l’America è una sola, non più pluralista, contraddittoria, ferocemente attaccata alle libertà individuali

L’esigenza di tirarci fuori dall’americanizzazione, che danneggia gli stessi americani, è stata sottolineata da Busi 18 sett:

  • Quanto è amico Bush che ha respinto il trattato antipolluzione di Kyoto? Quant’è amica Israele che ha abbandonato la conferenza di Durban contro il razzismo?
  • Antiamericanisti sono gli americani stessi: cita Philiph Roth, La macchina umana, dove un reduce del Vietnam viene disprezzato dai suoi stessi concittadini, che non gli perdonano di essere tornato a casa, testimonianza vivente di un orrore che essi non vogliono guardare;
  • L’attentato alle Twin Towers è impensabile senza una rete di traditori in giacca e cravatta, bianchi e neri come noi, non afghani, non palestinesi, non irakeni, non coreani, non vietnamiti; una rete di connivenze che non può essere tutta e sola emanazione di Kabul e di qualche riconoscibile imam; e l’America deve interrogarsi innanzitutto sul numero di cittadini americani antiamericani;
  • Non si combatte un fondamentalismo alieno con un altro fondamentalismo;
  • L’inferno diceva Sartre sono gli altri, cioè le loro ragioni contrarie alle nostre;
  • Anche il cattolicesimo ha avuto il suo fondamentalismo e il suo bin Laden si chiamava Torquemada.
  • Il fondamentalismo islamico ha un alibi in mezzo secolo di guerre americane in Medio-oriente

FONDAMENTALISMO, TERRORISMO: fondamentalisti sono solo gli “altri”? I fondamentalisti arabi RAPPRESENTANO o NON RAPPRESENTANO I POVERI, GLI ESCLUSI? E i fondamentalisti nostrani? [pensa a Taguielff sul razzismo…]

 Gilles Kepel (autore di Jihad ascesa e declino) (2 ott):

  • Jihad significa sforzo per essere un buon musulmano (equivale al laico-borghese streben?) fino alla guerra santa contro gli empi;
  • 1. In Afghanistan la corrente salafista-jihadista nata nell’ ’80 è stata finanziata da Arabia saudita e Cia; 2. I movimenti religiosi islamici diluiscono e mascherano le conflittualità sociali  e non sono affatto omogenei («i musulmani non sono una massa di poveracci a piedi nudi; importante il peso delle classi medie: commercianti e massa di studenti; i kamikaze provengono da classi medie, hanno studiato e appartengono a buone famiglie [ dati tratti dai siti internet con le biografie dei “martiri della jihad”); 3.  La jihad  solo in particolari contesti assume la  forma di guerra santa, «provvedimento a doppio taglio che può rivoltarsi contro chi la proclama perché sospende gli obblighi che regolano la società»; 4. fortissimo per i movimenti  islamisti è il «senso di appartenenza alla modernità tecnologica» («speciale vocazione mediatica», «dimestichezza con le nuove tecnologie», molti  vengono fuori dalle facoltà di scienze applicate (ingegneria, medicina, informatica); gruppi finanziari  che usano bin Laden e sono da lui usati, database di bin Laden fin dall’88 coi dati di tutti gli jihadisti e volontari passati per i campi di addestramento); 5. I talebani si sono formati alla “scuola deobandita”, una filiazione poco nota dell’Islam e vogliono edificare una sorta di controsocietà religiosa senza stato;
  • Declino dei movimenti islamici fondamentalisti ( tesi di Kepel): l’ideale religioso è in contrasto con un progetto politico moderno. Tentativo Usa di evitare la saldatura fra talebani e masse musulmane divenute fortemente ostili agli USA per la loro politica mediorientale.

Sull’ambiguità del fondamentalismo:

  • fondamentalisti sono gli Usa (a livello di cultura popolare); e nel mondo islamico, a parte i talebani, lo è l’Arabia Saudita, stato-cliente degli Usa dalle sue origini: Negli anni 80 gli estremisti fondamentalisti islamici erano i favoriti degli Usa, perché erano i migliori killer che si potessero trovare. (Chomsky 2o sett);
  • terrorismo e guerra. Sinonimi: il terrorismo è una variante, una manifestazione della guerra (Bascetta 16 sett);
  • Parafrasando Clausewitz: il terrorismo è la continuazione della guerra con altri mezzi… (Parlato16 settembre);
  • Bidussa (28 sett): Contro Panebianco (Corriere della sera 26 settembre) che esprime «uno stato d’animo» presente anche in molti settori della sinistra, non basta l’ironia, la considerazione semiseria o la citazione giusta: accettare il relativismo culturale equivale a svendere la propria identità e non possederne una [aggiungi Galli Della Loggia: la crisi del patriottismo non va cercata nel fascismo ma nella crisi dopo l’8 settembre e quindi nell’antifascismo, (Dal Lago 29 sett)];
  • Richiama Veca (un liberale “intelligente”) che afferma «Noi siamo fatti di cose in prestito» e Ernst Gellner (Ragione e religione, Il Saggiatore che sostiene la stretta parentela fra fondamentalismo e relativismo;
  • Il fondamentalismo non è la rivincita della tradizione contro la modernità ( come parrebbe bin Laden) ma l’adesione a una forma IDEALIZZATA di civiltà. L’autoreferenzialità (narcisistica) sostiene la mentalità fondamentalista ma anche quella relativista, nominalmente disponibile e aperta al confronto: l’esempio di Robinson Crusoe, che si crede cittadino del mondo, esterofilo, attratto dall’esotico e dall'”altro”, ma la cui massima aspirazione è «invecchiare a casa propria» [cfr Umberto Eco…) Per lui l’incontro con l’altro è solo un «corpo a corpo da cui si esce o sconfitti o vincenti». La posta in gioco è l’inclusione dell’altro o l’esclusione. Non è prevista nessuna metamorfosi o trasformazione dell’identità. Una figura mista, in questa dinamica, non ha senso;
  • Chesneaux (23 sett):

Ci sono migliaia di siti internet integralisti, una prova dell’irresponsabile feticismo della mondializzazione finanziaria e tecnologica considerata come base principale della liberazione umana. L’avvenire radioso tutto tecnica e soldi, come dopo la caduta dell’Urss, la fine della storia di Fukuyama. Si è voluto il «laissez- faire economico assoluto e ci svegliamo con la rete di bin Laden che realizza l’impensabile»;

  • Huntington non ha ragione: non siamo allo scontro di civiltà. L’Islam non è unito e neppure l’occidente è unito;
  • Siamo allo scontro fra ricchi e poveri?

Islam=povertà? «L’Islam è in effetti la forma più organizzata, elaborata e dinamica del mondo della miseria. Vorrebbe rappresentare una contropartita alla mondializzazione tecnologica e finanziaria, ma non credo si possa sostenere che l’islam sia il rappresentante principale di questo mondo della miseria» È ambiguo [ ma non lo era anche il comunismo, le dirigenze leniniste erano forse operaie?]

  • C’è un Islam che non accetta di rispettare la società civile, di fare della religione un fatto privato, ha mire totalizzanti. È un problema.

[perché solo gli Usa possono essere terroristi o manovrare terroristi [George Monbiot (7 nov): Se  bisogna eliminare al-Queda come terrorista, perché non eliminare la Scuola delle Americhe, che dal 1946, a Fort Benning in Georgia, ha “laureato” terroristi, torturatori e dittatori latinoamericani?]  e altri no? È giustificata la loro pretesa di potere imperiale? Il loro monopolio della forza? ottenuto come? Cosa ha di così diverso dalla guerra il terrorismo? I  terroristi di oggi non rischiano di diventare gli statisti di domani?

Bascetta (16 sett):

–     la riscoperta del patriottismo non è una benedizione ma è devastante;

  • antiamericanismo e filoamericanismo: ottuse semplificazioni fondamentaliste;
  • liberismo dogma simile a quello coranico: Scuola di Chicago=scuola coranica;
  • movimento antiglobal l’unico antidoto efficace (?). non ha bisogno di essere né americano, né antiamericano;

Saskia Sassen,  autrice di «Global City» (18 sett.):

  • non ogni povero è potenziale terrorista; ma la scelta terrorista è parte dello scenario attuale fatto di miseria-povertà – interdipendneza economica;
  • Accelerazione verso un potere unico mondiale che fa svanire l’equilibrio conflittuale tra Usa e Europa;
  • Y. concentrato di competenze ineguagliabile; la distruzione delle Twin Towers farà abbassare i prezzi dei terreni e degli immobili, possibile una free zone per spregiudicate operazioni immobiliari.E adesso? Pace  si dice, guerra si fa

 sui risvolti filosofici (di filosofia politica) dell’evento

Tutto è simile e tutto è diverso dall’inizio della modernità, leggermente diverso, ma quanto basta perché sia completamente diverso.

Quelli erano tempi di teologia politica: bisognava creare un ordine a partire da un bisogno di secolarizzazione, facendo «come se Dio non ci fosse». Oggi è il contrario, tutti sembrano agire «come se Dio ci fosse», mentre la sovranità politica [la politica] decade irreversibilmente. .. (Carlo Galli,  manifesto 27 sett. 2001)

 Salamon: nessuna forma d’immaginazione supera negli uomini quella del male = è più facile e meno faticoso fare il male piuttosto che il bene (16 sett Parlato)

[Vedi anche Sofsky, Sulla violenza  e Revelli, Oltre il Novecento]

Siamo al grande ritorno delle religioni: non più oppio ma cocaina dei popoli (16 sett Parlato)

Anche i latini dicevano che era giusto morire per la patria e per chi ci crede la religione è più importante della patria (16 sett Parlato) [ Vedi anche Saramago]

 Viviamo in un mondo dove il rischio è ormai generalizzato:«All’uomo contemporaneo, e la cosa non è stata mai così forte nella storia come ora, può succedere o in ogni momento qualcosa di totalmente imprevisto. Abbiamo insomma tutto da perdere. E questo fa la forza del sud, dei deboli: loro non hanno nulla da perdere». (3 ott Latouche).

Johan Galtung,  Il pacifismo tra i Cruise e la Jihad, (manif. 11 ott.):

Invita a non sottostimare il grado di solidarietà nel «resto del mondo» e  la solidarietà della «classe superiore mondiale», ben evidente in questi giorni [Latouche anche]

Riconosce che «la catena della violenza e della vendetta è un fatto umano» [Sofsky]..

La prospettiva è quella pacifista: «l’uso della violenza contro la violenza è controproducente (Gandhi).

Si deve fare affidamento «sulle popolazioni e sulla società civile» non sui governi dell’Occidente o su quelli del Sud: «sono troppo legati agli Stati uniti e troppo timorosi di incorrere nell’ira americana».

Concordanza sull’analisi. Scetticismo sulle potenzialità della cosiddetta società civile. A me pare che l’attore pacifista nelle nostre società arrivi sempre troppo tardi e neppure riesca più a frenare dinamiche di conflitto che da tempo sono state predisposte per lo scontro. [Grande attenzione alle posizioni, che sarebbe ingeneroso chiamare “economiciste” di Burgio, Ravaioli, Dinucci]

Del resto il pacifismo – è bene ricordarlo – convive in una scomoda posizione coi governi di guerra qui in Occidente e all’ombra del cosiddetto “terrorismo” nei paesi arabi.

Può far poco.  L’immagine del vaso di coccio in mezzo a quelli di ferro.

 L’esempio dell’impotenza dei pacifisti in Israele.

Per noi l’esser dentro la situazione materiale e culturale dell’Occidente -quindi non in una posizione di impossibile equidistanza – spinge i pacifisti nel ruolo di  consiglieri ragionevoli di governi che hanno dalla loro la ragione della forza.

 (Cosa devono fare i militanti pacifisti? «Riportare  sulle loro agende questi problemi: la povertà e la fame nei paesi poveri; il disprezzo e l’ignoranza dell’Occidente verso le culture e le religioni non cristiane come fonte di odio; una memoria storica dei conflitti, dalle  crociate alla conquista dell’America alla distruzione dell’Africa allo schiavismo, alla guerra dell’Oppio, alla conquista britannica dell’Afghanistan, ecc.»( Galtung).

Ma questi sono consigli a governi “nostri” che non li ascoltano.

Cosa sarebbero in grado di consigliare ai popoli oppressi e rassegnati o a quanti in quei popoli sono tentati di «ricorrere alla violenza»?

Di fronte alla distanza fra noi e gli oppressi, la lingua si secca…

C’è da aspettare che la guerra produca la stanchezza dei combattenti [Sergio Bologna ai tempi del Kosovo]. Allora i pacifisti potranno dire «L’avevamo detto…».

Profeti disarmati…

Shafique Keshavjee, Oltre la tragedia americana, (manif 14 ott):

Mette in risalto l’intrico di interessi economici e politici fra Stati Uniti, Arabia Saudita e Europa e cioè le «alleanze economiche e strategiche perverse che legano americani, sauditi, europei e… terroristi» [L’Europa sul piano dei bisogni dipende dai sauditi e dai paesi del Golfo per il suo approvvigionamento in energia e dalla loro partecipazione nella vita delle imprese e delle banche con centinaia di miliardi di petrodollari; il governo saudita ha bisogno della sicurezza americana e dei suoi dollari…]

E conclude: «La rivelazione è che siamo solidali non solo con le vittime americane, ma anche con un sistema di cui profittiamo ampiamente e che ha causato il loro dramma».

In questo noi siamo per forza compresi anche noi: pacifisti o esodanti.

Il problema è come scioglierci dall’abbraccio soffocante dell’Occidente, dei nostri governi, delle nostre comunità impaurite o gregarie.

Imporre combattivamente la pace anche a costo della violenza contro chi con la violenza ci impone la guerra? Una volta questo era chiaro. Sentite queste parole di Fortini:

“A me è stato insegnato, e lo insegno, che la vita di ogni uomo, di ogni essere umano è un valore infinito perché è la mia medesima vita, e perché è un progetto, un futuro, una possibilità di tutti. E, nel medesimo tempo, e non in contraddizione con questo, mi è stato insegnato, e lo dirò adesso con le parole di Lenin[2] “che quando decine di milioni di uomini vengono mandati ad uccidersi sui campi di battaglia per sapere se questo o quel mercato debba appartenere ad un bandito francese o ad un bandito tedesco, può essere necessario sacrificare una generazione, e prima di ogni altro se stessi, nel tentativo di fermare quei massacri e di distruggere quei banditi”.

Questa è la situazione tragica dell’esistenza umana: essere uomini significa questo. Chi non vuole vedere, chi vuole consolarsi credendo che il pane che mangia non è sottratto a chi muore di fame, in questo caso lo faccia pure. Nessuna violenza è giustificata, mai, ma ogni violenza può essere inevitabile; credo che quanto dico stia scritto anche nel cuore della tradizione cristiana.[…] La nostra morale non è quella di Renzo Tramaglino, nota? è quella di chi ha nelle orecchie le urla degli innocenti torturati nei processi degli untori. Dunque noi non deprechiamo i tumulti, deprechiamo i tumulti inutili; ci sono forme di disobbedienza all’ingiustizia che noi dobbiamo imparare ad usare e praticare non perché si sia, o  almeno non perché io sia un non-violento per principio metafisico o religioso, ma proprio perché non vogliamo subire la violenza che è pronta a colpirci.”

( Franco Fortini, Violenza e non violenza, in  Non solo oggi, Editori Riuniti, 1991, pp.303-)

Si dovrà formare un movimento o un partito contro la guerra,  capace di smuovere corpi e menti per imporre un progetto razionale?( Progetto che esiste o no?) [ Cfr. De Carolis]

De Carolis  (26 sett):

  • L’unica ragione che giustificherebbe un intervento sarebbe un progetto plausibile di nuovo ordine globale. Ma esiste? Esiste sul piano economico, informativo e scientifico. È il presupposto sia del terrorismo che della reazione internazionale. È fondato sul privilegio di una élite ridottissima e sull’esclusione della grande maggioranza del pianeta.
  • Le due alternative per le potenze egemoni: avviare una riforma che rimuova storture e diseguaglianze del sistema e legittimare la lotta contro il terrorismo in base a questa riforma (« e si direbbe che questa strada sia stata scartata in partenza»; «blindare la soglia fra inclusi ed esclusi, estendere all’intero pianeta il modello segregazionista del vecchio Sudafrica», accantonando ogni problema di legittimazione e manipolando la comunicazione pubblica.
  • Solo in un prossimo futuro, i movimenti ora criminalizzabili, potranno far sentire la loro voce a patto di passare dalla protesta al progetto costruttivo.

Da sempre ci sono posizioni ragionevoli, ma inascoltate…

Un esempio? Ferrajoli, Una sfera pubblica globale, manif. 14 ottobre:

Parla di un triplice vuoto di politica e di diritto pubblico internazionale:

  • «Contro la minaccia di un terrorismo fanatico e ramificato, non servono armi nucleari né scudi stellari né alleanze militari di parte come la Nato, bensì quella forza di polizia internazionale che è prevista dal capo VII, ancora inattuato, della Carta dell’Onu»;
  • «La seconda carenza è più specificamente politica. dobbiamo domandarci quanto abbia contribuito allo sviluppo del fanatismo e del terrorismo una politica dell’Occidente informata unicamente a interessi economici e geopolitici: dalla mancata soluzione della questione palestinese.. fino all’invadente presenza americana nell’area e agli ambigui rapporti intrattenuti con lo stesso fondamentalismo islamico, dapprima allevato e utilizzato in funzione antisovietica e poi rivoltatosi contro i suoi vecchi protettori»;
  • «La terza e più importante lacuna è l’assenza totale di garanzie contro i giganteschi squilibri e le tremende ingiustizie provocate da una globalizzazione senza regole. Benché non ci sia un nesso diretto tra queste ingiustizie e il terrorismo, dobbiamo ammettere che i focolai dell’odio e della violenza traggono sicuro alimento dal contrasto sempre più vistoso e visibile tra la ricchezza spensierata dell’Occidente e le condizioni disumane di miliardi di esseri umani. Dobbiamo pur chiederci se sia realistica l’aspirazione alla pace e alla sicurezza in un mondo in cui ottocento milioni di persone, cioè un sesto della popolazione, possiede l’83%, cioè i cinque sesti del reddito mondiale».

23 sett Richard Falk ( teorico della democrazia internazionale):

  • la guerra che avanza è «una guerra senza soluzioni militari, in cui la ricerca della vittoria quasi certamente è destinata a intensificare la sfida e a diffondere la violenza» mediante un’alleanza scellerata fra governi e media. «siamo in bilico sul ciglio di una guerra globale tra civiltà senza campi di battaglia né confini», che viene dopo il crollo dell’ordine mondiale basato su stati sovrani.
  • Bisogna fare qualcosa ma non c’è niente da fare. Dobbiamo presumere che la rete terroristica abbia previsto la rappresaglia già prima dell’attacco, e abbia preso ogni misura possibile per «scomparire» dal pianeta» [mia discussione con Renato Solmi]
  • I nostri  leader avranno la capacità di astenersi dall’uso della forza contro innocenti?
  • La sola sicurezza realizzabile è la «sicurezza umana». «Tuttavia la notizia non ha raggiunto Washington e le altre capitali del mondo… Mentre il sole tramonta su un mondo senza stati, il sole del militarismo appare pronto a bruciare più splendente che mai!»

È pessimismo? O realismo?

I potenti  non hanno le nostre paure (ne hanno altre), non hanno le nostre incertezze… Hanno logiche che  ci sovrastano e prevedono anche la nostra distruzione. Anch’essi sono  “pazzi razionali”… organizzano le loro emozioni secondo una logica razionale strumentale contrapposta a quella che le organizza per  la vita [biopolitica…]. Non siamo gli unici depositari della ragione. La ragione occidentale è scissa… La ragione del potere  prevede la distruzione anche della gente comune, dei  “civili”, si contrappone alla ragione della gente comune.

27 settembre Carlo Galli  (studioso di Schmitt e autore di Spazi politici. L’età moderna e l’età globale):

  • questa non è una guerra mondiale ma «globale» e non ne conosciamo il funzionamento: è tendenzialmente interminabile [lettera a Solmi];
  • ci manca un pensiero all’altezza della crisi del sistema, e ci manca perché le condizioni di un nuovo ordine globale non ci sono. Abbiamo domande, non risposte. La tragicità della situazione sta qui. [Anche queste considerazioni mostrano la debolezza  in cui si viene a trovare chi vuol lottare per la pace…]
  • La trappola è che la coppia amico/nemico venga riempita su base identitaria e diventi scontro Occidente/Islam. La coazione identitaria va combattuta.
  • L’attentato alle Twin Towers ha ucciso la «buona» globalizzazione [quel precario ma fantastico laboratorio di cosmopolitismo che è Manhattan] ma anche la «cattiva»: che bastino gli interessi del capitale e del mercato a dar ordine al mondo [lettera a Solmi]

Santomassimo (27 sett):

  • Con l’operazione «libertà duratura» gli Usa chiedono una cambiale in bianco al mondo intero.
  • Lo «scontro di civiltà» (Huntington) è in atto da secoli. Scelta: non identificare «civilizzazione» con occidentalizzazione» (Berlusconi) ma relativismo culturale: «Siamo occidentali – cos’altro dovremmo essere? – ma il nostro Occidente non è il West. È quello di Kant e di Voltaire, non quello di John Wayne» [la posizione che Marramao trovava debole e a cui contrapponeva un universalismo delle differenze o pluriversalismo]

Marramao (21 sett):

  • Il nemico assoluto non esiste, esiste un sistema di cause ed effetti, strategie e responsabilità, poteri e scelte soggettive. bin Laden è solo uno dei poli di una rete, di un network terroristico. Non si sa chi sia il soggetto di tutto ciò.
  • Novità del conflitto: non siamo più nella convenzione del conflitto fra stati-nazione ( si può pensare agli atti di pirateria, alle dinamiche della colonizzazione)
  • La Jihad è solo l’involucro, il referente simbolico del terrorismo, che ha invece origini (Voltaire: L’occidente ha introdotto in altre civiltà del mondo forme di conflitto che quelle civiltà non conoscevano»). Ha ragione Chomsky: le armi che l’Occidente ha puntato contro il mondo gli si sono rivolte contro. Le tecniche usate sono quelle della razionalità calcolante: il corpo umano diventa componente tecnologica di una bomba intelligente [la mia poesia.. colpiti dalla nostra intelligenza…]. Si ha una sintesi fra cyborg (tecnologia avanzata) e mistica del corpo della Umma (quando si tratta di compiere una missione non si è più proprietari del proprio corpo che appartiene al corpo mistico della Umma. Il paradigma utilitaristico della scelta razionale coincide con il sacrificio di sé. Non è più utilitarismo).
  • Il nemico nel mondo globale non è più politico, ma morale; ecco la differenza da Schmitt.
  • Intelligence, Cia, Fbi hanno troppe e non poche informazioni, ma non hanno la chiave per interpretarle. C’è un abbassamento del livello culturale del personale politico, diplomatico. Non ne capiscono la struttura motivazionale.
  • Declino degli stati sovrani, bisogno di governare la globalizzazione. Necessità di una visione universalistica al posto del multiculturalismo che accetta le differenze come ghetti contigui. Non basta riverniciare l’universalismo illuministico-kantiano. Bisogna cercare un nuovo universalismo in altre culture: un multiversalismo, una politica universalistica delle differenze, che contrasti tanto la politica antiuniversalistica delle differenze, quanto quella universalistica della identità.
  • Il cuore di tenebre di bin Laden appartiene a noi occidentali. La ferocia dell’Islam è nata come reazione alle crociate.
  • Il colpo al movimento antiglobal è stato micidiale: ha perso pregnanza simbolica: di fronte al crollo delle Twin Towers che peso può avere sull’immaginario un bancomat rotto o un Mac donald’s assaltato ? [ mia lettera a Solmi)

Note

[1] I discorsi sull’Impero [Negri] risultano mitologici. Lo scenario è nuovamente mutato. Invece del mitico Impero, si avrà una nuova inquietante sfida Occidente- Oriente. Su posizioni simili è anche Rossanda… L’unificazione capitalistica non  fa degli Usa un impero. Non ne hanno le capacità di assimilazione e di mediazione. «Considero che gli Stati uniti stiano facendo ancora una politica imperialista che ferisce altre popolazioni e si rivolterà contro loro stessi: sono antimperilista» [critica a Negri] 22 sett Rossanda

[2] Lenin, Nikolaj, pseudonimo di Vladimir Il’ic (1870- 1924), uomo politico e pensatore russo, guida della Rivoluzione del 1917 contro il regime degli zar.

E la sciagurata rispose? Beh, sì, no…si desublimò!

La Letteratura e il Mercato

di Ennio Abate

In tre vecchie articoli apparsi su il manifesto (19,25 aprile; 3 maggio 2002) Remo Ceserani discuteva lo stato di salute della letteratura in Italia e negli altri paesi a capitalismo avanzato. Perplesso sulle sue conclusioni,  avevo scritto questo dialogo (immaginario!) fra il mio doppio e quello che,  arbitrariamente ma non troppo, parlava per Ceserani. Lo ritiro fuori da una vecchia cartella e lo dedico come omaggio polemico, sì, proprio a lui, allo studioso che ci ha lasciato alla fine dell’ottobre 2016 e che ho, malgrado il mio dissenso, sempre stimato. [E. A.]

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La società della comunicazione

PARTESANA LIBRO

Su “Il gioco delle parti. Ideologia e propaganda” di Ezio Partesana, Sensibili alle foglie 2016

di Donato Salzarulo

1.- “Propaganda” non è termine da dizionario filosofico. Neanche sociologico. Mi riferisco ai dizionari che ho in casa. Quello psicologico si limita a definire in poche righe l’attività (procedimento sistematico di persuasione di massa), indicare i canali di comunicazione che Continua la lettura di La società della comunicazione

I Quaderni di Italo III

sereni al lavoro

di Italo Lo Vecchio

La Troika, che non è il traino a tre cavalli delle carrozze russe e nemmeno una signora della steppa kazaka nota per i facili costumi, ma il Trio di potentati che dà ordini all’Europa (per gli amanti degli acronimi: FMI, BCE, CE), è di nuovo in Grecia (1° febbraio 2016). A darle manforte s’è aggiunto il Fondo Salva-Stati (per quelli di sopra: ESM). In ballo: la verifica dell’attuazione del programma economico (secondo il nuovo Memorandum: neolingua). Nel mirino: la riforma delle pensioni che ha in animo di varare il governo greco. In soldoni: ulteriore taglio alla spesa previdenziale di 1,8 miliardi di euri, ulteriore riduzione del 15% sugli assegni pensionistici, pensione minima stabilita a 348 euri mensili, e via troikando nello sport preferito da Lorsignori: cavare il sangue ai cittadini greci già abbondantemente vampirizzati. A fare gli onori di casa stavolta è Alexis Tsipras (spero si noti la finezza dell’aver espunto dal nome l’appellativo “compagno”). Continua la lettura di I Quaderni di Italo III

Sui veri poeti

troppi poeti

di Giorgio Mannacio

[Giorgio Mannacio riprende  la questione  dei molti o troppi poeti (qui) sullo spunto offerto dal discutibile titolo dato ad alcuni incontri della Casa della Poesia di Milano. E’ corretto parlare di “veri poeti” distinguendoli dalla massa senza esplicitare i criteri di tale scelta?  E’ utopistico parlare di molti poeti in fieri? Se la critica non riesce a star dietro e a valutare la produzione di massa (poetica o parapoetica che sia) e si limita a  considerare un contesto sempre più limitato di poeti, quanto peso (generale) hanno i suoi giudizi e quali potenzialità (probabili) vengono ignorate?  Se non ci si lascia  intimidire dai luoghi comuni (“molti sono i chiamati, pochi gli eletti”, “è andata sempre così”, ecc.), si vedrà che iI problema ha davvero un rilievo politico che a prima vista sfugge. La riflessione di Mannacio ha il merito di ricordarlo (E.A.)]
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