Per un buon uso della ricerca di Lorenzo Tommasini su Fortini insegnante
di Velio Abati Continua la lettura di Su Fortini docente
Per un buon uso della ricerca di Lorenzo Tommasini su Fortini insegnante
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viaggio tra i manuali di letteratura italiana
di Velio Abati e Maria Pia Betti
In una scuola che, a forza di “riforme”, il mercato assimila sempre più, intanto che le forme sociali e della comunicazione mutano in profondità le attese e le condizioni delle nuove generazioni, fino al ricorso recente ma in velocissima diffusione all’Intelligenza Artificiale, quale ruolo va assumendo l’istituzione scolastica? E, in essa, qual è il ruolo della letteratura nell’educazione sentimentale, nella formazione della coscienza civile?
Sono temi che ci appaiono fondamentali per chi voglia ragionare sul destino comune, sui quali tocchiamo la mancanza di studi approfonditi e di dibattito pubblico ampio. Noi, muovendo dalla pratica del nostro mestiere d’insegnanti di letteratura italiana, abbiamo ritenuto nostro dovere portare contributi sul contesto concreto in cui la letteratura incontra le giovani generazioni, ossia la materialità e del manuale e della pratica didattica nell’istituzione scolastica.
In un’epoca in cui l’opinione è spacciata per conoscenza, ci è sembrato indispensabile offrire il regesto puntuale dei dati documentali da cui scaturiscono le nostre riflessioni. La prima impressione di chi legge potrà essere che il nostro lavoro di contesto eluda la domanda sulla letteratura da cui siamo partiti, ma a questi lettori rispondiamo con convinzione che sempre il mezzo è parte costituiva del messaggio, per cui niente è più ingannevole del credere che il saggio di critica di uno studioso sia il medesimo di quello che egli eventualmente firma in un manuale scolastico.
Piuttosto, scorgiamo la carenza in un altro campo decisivo, lo studio della politica industriale dell’editoria scolastica, purtroppo fuori della nostra portata di competenze e possibilità.
v.a., m.p.b. Continua la lettura di Scuola, letteratura, mercato
di Carlotta Pais
È di pochi giorni fa la notizia della morte di Satnam Singh, bracciante agricolo che, in provincia di Latina, a seguito di un incidente che gli ha causato l’amputazione del braccio, è stato abbandonato senza soccorsi, arrivati quando era ormai troppo tardi per intervenire. Continua la lettura di Satnam Singh e “La Memoria delle piante”
di Margherita Lorenzoni
Il titolo del libro di Velio Abati (La memoria delle piante) rivela la centralità del tema della memoria.
La memoria che interessa all’autore è quella delle classi subalterne (in particolare quelle che appartengono a un mondo contadino che lui, per ragioni biografiche, conosce bene e che è ricorrentemente protagonista della sua scrittura). Dall’antichità al presente, si raccontano le condizioni degli oppressi, che siano poveri contadini che subiscono le razzie di “potenti e cavalieri”, braccianti agricoli del mondo contemporaneo sotto la violenta autorità di un caporale, famiglie contadine del secolo scorso alle prese con i duri cicli della terra e così via.
Voltando le pagine siamo di volta in volta catapultati in un punto diverso della Storia, in modo spiazzante e disorientante. Adesso ci troviamo nella campagna medievale, poi in un podere ai tempi del dopoguerra, subito dopo nel villaggio di un mondo antico e pagano, e poi ancora chissà quando. Continua la lettura di La memoria delle classi subalterne
di Velio Abati
Nei volumi collettanei la pluralità di approcci è istituzionale, la disomogeneità dei risultati inevitabile, così il lettore sente più autorizzata la propria libertà di scelta persino. Nel libro che ha preso spunto – afferma la quarta di copertina – dal convegno della Società Italiana delle Letterate, tenutosi a Venezia nel dicembre del 2019, a mio parere il luogo fondo, quasi un fuori scena da cui meglio vedere la linfa dei percorsi plurimi si trova un po’ decentrato: Scrittrici o venditrici? Un dialogo a distanza fra Giulia Caminito e Chiara Ingrao durante il lockdown del 2019.
È, si potrebbe dire in termini teatrali, una scena perfetta. Non è certo una novità che la reclusioneobbligata dall’infuriare della pestilenza sospinga, in certe aree dell’umano, alla risorsa di ultima istanza che sempre è la letteratura, condizione in qualche modo antropologica,il cui archetipo e acme nella nostra lingua è il Decameron. Ma, nel nostro caso, la mossa propria dello sguardo femminile muta il paradigma.
La sospensione, imposta dalle autorità sanitarie, provoca uno strappo, che la coazione capitalistica alla produzione di valore sente intollerabile, così chi, come la giovane Caminito, ne è stata strumento e fruitrice, è messa di fronte a se stessa: “in due mesi io ne ho fatti anche cinquanta [di presentazioni], partendo più volte a settimana e trovandomi in affanno e in confusione, a parlare dei miei libri a mitraglia, senza sosta, spesso senza ricordarmi neanche a chi. Ho visto troppo in troppo poco tempo e ho parlato troppo di me e dei miei libri nel giro di poche giornate. Ho sentito di doverlo fare, di dover essere performer della mia scrittura, di dover dare a chi mi ascoltava motivo per comprare il mio libro e comprarmi. Quindi ho sviluppato un’ossessione sulla riuscita degli incontri, dal fatto di dover sempre cambiare le cose dette, dagli approfondimenti, dalle letture, dalle domande delle persone, tanto che questa concentrazione mi ha fatta ammalare” (145).
L’obbligata immobilità costringe a vedere il silenzio del rumore e il vuoto dell’affollamento, ma lo sguardo riguadagnato trova la forza di spostarsi alle spalle dell’atto letterario, d’interrogare se stessa e di farlo trovando la voce complice di altra autrice e di una precedente generazione. È proprio il partire da sé e il suo essere inseparabile dall’altra, che a me pare gesto decisivo, fertilissimo. Naturalmente, nella dialettica sé-altra non c’è nulla di irenico, come con grande lucidità riconoscono le due scrittrici, coraggiosamente confrontandosi su invidie e frustrazioni; né potrebbe essere altrimenti, pena ridurre il tutto a pappetta ideologica.
La scena, si diceva, del silenzio si anima di nuova autoconsapevolezza, perché la solitudine è ribaltata in azione comune. È proprio questo che io, ammirato, invidio alla capacità delle donne di conservare e alimentare, lungo le nervature sociali e geografiche, gruppi, canali di relazioni, discussioni, produzioni non ossificate nell’accademia. È indubbio segno di vitalità e di speranza che la riflessione sul sé sfugga all’ossessione narcisistica della nostra epoca, che la parola sappia diventare scelta e azione condivisa.
Rientra in questa linea di condotta il considerare, come viene fatto nei vari saggi, la letteratura come documento e specola di vita, qui, in particolare, vita contemporanea sul lavoro, oggetto dichiarato dal titolo: Visibile e invisibile. Scritture e rappresentazioni del lavoro delle donne (a cura di Laura Graziano e Luisa Ricaldone, Iacobelli, Guidonia 2024). Il panorama che ne emerge è assai ricco sia per le voci resocontate, sia per il profilo inevitabilmente crudo che del lavoro delle donne e degli uomini viene restituito realisticamente. Dunque, è uno strumento da portarsi dietro per far luce su una parte dell’orrore che chiude il nostro giorno.
Tra i vari saggi, quello che più di altri mi sembra paradigmatico di un rapporto vitale e militante con la letteratura è quello di Luisa Ricaldone: Il lavoro, la vita. Un percorso nella narrativa giapponese. Con l’eleganza e la chiarezza, che diresti settecentesca, si conduce chi legge tra le pagine dei romanzi contemporanei giapponesi nei quali le forme di vita orientali si colorano delle sofferenze, delle sopraffazioni, degli spaesamenti che sono anche i nostri, a conferma della globalità dei fenomeni. In questo saggio ritrovi quella confidenza con la narrativa, quel sentirla parola viva che la studiosa ha esemplarmente messo in opera nel recente Tra le pagine della fame. Un viaggio letterario (SEB27, Torino 2023), dove l’esperienza della lettura, ovvero la sua portata affettiva, conoscitiva e illocutoria è esplicitamente ricondotta alla vissuta radice personale e familiare, dunque sociale.
di Donatello Santarone
La copertina del romanzo di Velio Abati, La memoria delle piante, riproduce un dettaglio da un quadro di Caravaggio del 1597, dal titolo ironico Buona ventura, in cui ad un primo sguardo ci sembra di vedere due mani che fraternizzano, ma poi, analizzando il particolare nel contesto dell’opera, scopriamo la scena di una giovane zingara la quale, mentre legge la mano ad un nobile cavaliere, gli ruba l’anello che porta al dito. Oltre ad un’allegoria di tipo morale – non farsi ingannare dalle apparenze, non cedere alle seduzioni – credo che per Abati ce ne sia una di tipo storico, direi socio-economico: la legittimità da parte delle classi subalterne a riappropriarsi delle ricchezze che le classi dominanti hanno nei secoli sempre sottratto ai dominati con la violenza dello sfruttamento. Il gesto della zingara, in questa prospettiva, non è quindi il gesto di una ladra, ma quello di un soggetto storico finalmente autonomo e consapevole, ed è emblematico, tra l’altro, che si tratti di una donna, che pretende un risarcimento, che rivendica una giustizia.
Se questa interpretazione è plausibile, allora anche il titolo si chiarisce nel suo significato più profondo: la memoria delle piante non allude alla nostalgia di un sogno bucolico ma ai vissuti storico- naturali dei milioni di senza nome non riconosciuti che hanno attraversato nel corso della storia le opere e i giorni. “Però – scrive l’autore – c’è un’altra memoria, altra vita germoglia, che chi domina conosce assai bene, nonostante che con altri nomi la dica, perché in essa ha radici e, se interrogato, la tratti non diversamente da ossa del paleontologo. E’ la stessa memoria delle piante, delle rughe della terra, del corpo di chi passa per strada. E’ nelle parole che senza fatica conosci, nei colori che vedi nella levata del sole, nell’occhio che guarda chi incontri.” (p. 101). Dove va subito notata la curvatura poetica, lirica della prosa, attraverso il chiasmo iniziale, “c’è un’altra memoria, altra vita germoglia” e il ricorso ad un andamento ternario, metricamente scandito, che vuole evocare e prefigurare attraverso la bellezza della forma e pur nella durezza della storia, un mondo di relazioni e di futuro.
Ma accanto ad una memoria storico-sociale è presente anche una memoria personale, esistenziale: quella del padre, parola che compare una sola volta nel libro: “Come libellula, padre, sei passato.” (p. 53). In tutto il testo è invece presente con numerosissime occorrenze la parola “babbo”, a voler accentuare, attraverso il toscanismo, la dimensione domestica, affettiva oltreché di insegnamento morale e materiale del padre così centrale in tutto il romanzo.
Mi accorgo di aver utilizzato la parola “romanzo”. Ma ripensandoci bene, più che romanzo definirei La memoria delle piante uno zibaldone di squarci lirico-evocativi, di pensieri narrativi, di riflessioni narrate. Un intreccio di micro racconti tenuti insieme da un io narrante che ricorda e argomenta. Una stratificazione di registri percorsi sempre dallo sguardo degli ultimi del mondo. Tutti espressione del mondo contadino maremmano: qui non ci sono gli operai dell’industria, i salariati del capitalismo moderno. Ma i contadini, come ho già accennato, sono rappresentati senza nessuna nostalgia ruralista, nessuna mitizzazione di una presunta incorrotta identità contadina. Per Abati i contadini sono nostri contemporanei.
Tutto questo richiama un confronto con il romanzo maggiore di Velio Abati, dal titolo Domani, una narrazione lunga, distesa, densa in cui si mette in scena l’epopea dei subalterni. La memoria delle piante, rispetto al romanzo maggiore, è forse più contratto, più gridato nelle parti argomentative, nelle riflessioni storico-politiche. Mentre le narrazioni di vita contadina sembrano “schegge” corpose uscite dal romanzo maggiore. Anche se qui con una più evidente dimensione autobiografica.
Un’ultima considerazione sulla lingua. La sintassi mi sembra molto sorvegliata, colta, spesso di tono alto, pur se con frequenti andamenti “regionali”. Il lessico, invece, è fortemente attraversato da un fitto e ricorrente ricorso a parole del mondo agrario, da parole tecniche o arcaiche, dal dialetto maremmano e toscano.
di Andrea Nuti
Come si legge nella quarta di copertina, La memoria delle piante di Velio Abati [cfr. anche qui] è un romanzo che recupera e intreccia storie di un’umanità prevalentemente contadina, sfruttata e sconfitta ma mai rassegnata, sempre descritta nella inscindibile relazione con la terra e gli animali. L’autore racconta di questo mondo perché a questo mondo appartiene per ragioni biografiche e di questo mondo intende cogliere le relazioni fra le varie generazioni. Le storie dei personaggi del Podere del Diavolo, di Ruffilla, di Camara, di Lorediano, di Sapìo e Catalina, sono recuperate nella profondità di differenti epoche attraverso un lavoro di scavo insieme storico, antropologico e quasi archeologico. Lo scrittore le fa riemergere, vuole in ogni modo farle uscire dall’evanescenza del sogno per proporle al lettore nella loro concretezza simbolica di cui sono fatti i nostri pensieri e i nostri corpi e lo fa attraverso la lingua, vera protagonista del romanzo.
La voce dell’io narrante utilizza registri linguistici molto differenti che vanno dalla dimensione popolare e terrigna, sempre altamente nobilitata e amata, fatta di arcaismi, dialettismi, fino a quella alta ed erudita con richiami letterari, momenti lirici e meditazioni. La mutevolezza e pluralità dei registri linguistici e l’intreccio delle varie storie fanno sì che la lettura non sia di immediata fruibilità e che anzi richieda di essere lettori attenti, desiderosi della relazione e della partecipazione all’avventura creativa. D’altra parte questo è un tratto stilistico di Abati che ritroviamo anche nelle sue opere precedenti, ma è anche il fascino maggiore del romanzo. Il sedimento linguistico e culturale che riemerge ha una profonda connotazione etica è come un mosaico o un dipinto riportati alla luce, che ci interrogano sul rapporto col passato e sul valore, la cura delle parole, soprattutto in una fase storica, la nostra, in cui la decadenza sembra esprimersi soprattutto nella povertà linguistica del presente, fatta di slogan, acronimi, inglesismi, cui si unisce la manipolazione e strumentalizzazione della storia schiacciata sul presente.
La partecipazione attiva del lettore è reclamata dallo scrittore anche dai particolari movimenti dell’io narrante. L’autore mette insieme in questo romanzo, caratterizzato come il precedente Domani da una forte e orgogliosa sperimentazione linguistica, un io narrante e la narrazione collettiva. L’io narrante cambia però frequentemente punto di osservazione; questo fa sì, come bene scrive Walter Lorenzoni che, “chi legge debba sempre sorvegliare l’atto della lettura e debba mutare costantemente il punto in cui collocarsi perché chiamato di continuo a prendere una posizione morale” rispetto agli ultimi di cui si parla. D’altra parte proprio questa costante ridefinizione del punto di vista di chi legge sembra permettere, come suggerisce Mario Fraschetti, una nuova particolare possibilità, quella cioè di leggere il testo partendo da differenti punti e intrecciando le parti in modi di volta in volta differenti.
Col titolo La memoria delle piante non ci si riferisce dunque solo alla ormai effettiva consapevolezza scientifica della presenza di una memoria nelle piante, ma anche e soprattutto alla stretta dipendenza e corrispondenza fra uomo e natura, alla profondità e complessità delle radici delle piante che si intrecciano e in virtù di questo intreccio e di questa profondità restano vive. La memoria, nel romanzo, non è rievocazione, non è celebrazione, non è pathos emotivo ma radicamento storico intellettuale pensato, rielaborato, conosciuto e fatto riemergere attraverso la lingua. La memoria è la connessione delle generazioni unica possibile base di partenza per una nuova consapevolezza sociale. Come non cogliere la inscindibile relazione temporale fra il futuro di Domani e il passato di La memoria delle piante. In questo senso lo scrivere di Abati è sempre atto insieme etico e politico. La presenza delle radici diventa tanto più esplicita in considerazione di una forte presenza di positive figure paterne, tanto che la parola “babbo” è forse la più utilizzata di tutto il romanzo: “Quali facce, dico, qui con me, mute. O forse il nome sento. Celso?”
Se nel romanzo Domani si apprezzava soprattutto la straordinaria coralità, che, a fronte di un tempo frammentato, emergeva dalla trama linguistica dei suoni e delle voci dei contadini, si godeva di una struttura simbolica che riusciva ad anteporsi alla definizione degli stessi personaggi, diversamente, in questo la Memoria delle piante si impongono i momenti di riflessione e meditazione, come quando l’autore riflette sulla verità: “la verità non è docile […] la verità non è pietra, è un fuoco […] la verità ogni verità è storica […] la verità non è un dato è il prodotto della lotta […] Se prendiamo, non dico la storia umana ma l’essere umano, anzi un essere umano, in lui o in lei una mirabile stratificazione dei tempi ci toglie il respiro. Le verità loro proprie hanno durate assai diverse, ma nessuna è fuori del suo tempo”. Lo stesso registro lo si ritrova quando Velio si confronta col tema della libertà, della guerra, della memoria.
Alcune parti poi sono liriche di grande bellezza, soprattutto gli inizi e le conclusioni dei vari capitoli. “Invece il sole è signore del giorno. Asciuga la fronte, fruga i cretti della terra, assalta i sassi dei fossi. L’aria tremola i campi e sbianca le ombre, ma non una cicala, non un filo d’eco dai corpi degli olivi, dal folto dei grani. Nemmeno il mio grido esce di bocca”. L’autore intende provare che lirica, dialoghi, meditazione possono stare insieme, uniti dall’esperienza umana e intellettuale dello stesso scrittore. Le mani della zingara del Caravaggio in copertina sembrano proprio richiamare allo stesso tempo la grazia della scrittura quale lavoro intellettuale, ma anche la parte più concreta e pratica del lavoro della terra, richiamano la capacità di intuire il futuro attraverso le tracce e i solchi del passato; se le mani michelangiolesche della “Creazione di Adamo” non si toccano perché l’alto e il basso restano inesorabilmente separate, qui invece alto e basso si accarezzano e si sostengono.
di Felice Rappazzo
Splendide campagne di frutti e cibi ricercati dai palazzi del mondo sono, per chi lì strappa per sé l’acqua e il pane a genitori e figli distanti, terre agre dove si spalanca lo sfruttamento, la violenza, l’uso del corpo di donne e di uomini, di piante, di frutti, di terra. Vi resistono, in rifugi tra lamiere raccattate e cascami di plastica, nelle stalle degli animali, in buche scavate nella terra, tra solitudini mai rassegnate, germogli di affetti, di legami, di amicizie.
Continua la lettura di “La memoria delle piante” di Velio Abati
Anche questo articolo di Velio Abati era comparso sul vecchio sito (2010 – 2013) non più accessibile di Poliscritture. Fu pubblicato sul n. 10 cartaceo del dicembre 2013. [E. A.]
di Velio Abati
a Giulia, Ilaria e Stefania
Azione in sei scene
Personaggi
Una ragazza giovane
Una donna, la madre
Vittorio
Il dirigente, un capo
Vari giovani, uomini e donne
Anna, che, con chissà quanti altri, meriterebbe di esserci
Scena prima
Interno, pomeriggio, ora indefinita. Un divano anonimo. Di lato, a sinistra, un frigorifero. Non c’è nessuno.
Alla quinta di destra si scorge una finestra. Entra una luce pallida, insieme con il rumore discreto e costante di pioggia. In sottofondo, gorgoglii di rigagnoli.
Per un tempo discretamente lungo, non accade alcunché.
Entra dal fondo una ragazza minuta, i capelli sciolti tenuti in parte da una pinza, in abbigliamento comodo. Cammina e si muove leggera, silenziosissima, sovrappensiero. Indugia, va poi al frigorifero.
Quando apre distratta lo sportello, giunge, registrata, la voce di lei. Legge con il tono di chi ripassa. Pronuncia meditando le parole.
Voce. «O Tosco che per la città del foco
vivo ten vai così parlando onesto».
Il tono, fino a qui sostenuto della declamazione, si abbassa, rallenta, fino a sillabare, a ripetere, come a provare e riprovare le sonorità.
V. «PIaccIaTI DI resTare In quesTo loco
Con diversa intonazione.
V. «piAcciAti di restAre in questO lOcO».
La ragazza scuote dubbiosa la testa. Toglie dal frigorifero una busta di latte. Chiude lo sportello e si erge, cerca intorno con la busta in mano. Alla fine si decide a bere un sorso direttamente dalla busta.
La declamazione riprende spedita.
V. «La tua loquela ti fa manifesto
di quella nobil patria natio
alla quale forse fui troppo molesto.
Subitamente questo suono uscìo…».
S’interrompe come in un inciampo. La ragazza si avvia verso la finestra, sempre tenendo la busta del latte in mano.
Ragazza. Loquela (meditativa, si ferma) eloquio, eloquente (riprende a camminare) loquor, loqueris, locutus sum…
Arrivata alla finestra, si mette ad ascoltare il rumore della pioggia. Guarda fuori dai vetri, senza guardare.
Voce. «Loquela: modo di parlare, parlata ».
La ragazza controlla l’orologio al polso, come chi si accorge di un ritardo. È preoccupata.
Ragazza. S’infradicerà.
Rimane immobile a guardare attenta lo scroscio uguale della pioggia.
La registrazione riprende, come elencando.
V. «Uscìo… Uscìo, venìo, seguìo, patìo…»
La ragazza si avvicina alla quinta opposta, come in ascolto di qualche possibile passo. Poi va a riporre la busta nel frigorifero.
Torna alla finestra. Scruta in basso da una parte, poi dall’altra. Tira fuori dalla tasca un cellulare, inizia a comporre il numero. Interrompe, lo ripone in tasca.
Rag. Si arrabbierebbe, come sempre.
Scruta ancora. Si stizzisce.
Rag. Non sapere mai quando torna (si morde le labbra; il tono si vela di rammarico; si stringe le braccia come in un brivido) è tornato freddo.
La ragazza rimane immobile. Il rumore della pioggia sembra farsi più alto.
Scena seconda
Luce d’interno, piuttosto fioca. Non ci sono finestre. Un brano percussivo degli Stomp a tutto volume riempie la scena. Al centro, una scrivania. Dietro, seduto, un uomo maturo lavora nervoso a un portatile, sfoglia incartamenti, gesticola energico a un cellulare. Il brano percussivo impedisce di distinguere alcun altro rumore.
Dopo una manciata di secondi, entra da destra la ragazza. La musica tace di colpo. L’uomo, che ha smesso di telefonare, continua a lavorare al computer senza dar segno di accorgersi. La ragazza, vestita in modo sportivo, porta sulle spalle uno zaino. Attraversa l’intera scena e va a porsi, in piedi, al lato sinistro. Si toglie e depone in terra lo zaino. Rimane in attesa. La musica riprende identica. L’uomo seguita il suo lavoro.
A un certo punto, si affaccia dal fondo un uomo di mezza età, alto, nelle cui fattezze s’intravede una bellezza ora spenta. Entra incerto, con in mano un cappelletto, un po’ curvo in avanti. Si guarda intorno, fino a che avvista la scrivania. Forse saluta, ma le percussioni impediscono di udire.
Vittorio. Buon giorno.
Fa un cenno discreto con la testa. Ma non accade nulla. Ci riprova, con voce più forte.
Vitt. Buon giorno (alza questa volta la mano) buon giorno, signore.
Dalla scrivania sembra finalmente essersi accorto dell’arrivato. Le percussioni si abbassano di colpo, rimangono un suono di fondo, che malgrado tutto permette la conversazione.
Dirigente. Finalmente! (con aria di rimprovero).
L’uomo in piedi cerca di dire qualcosa, farfuglia, muove la mano con il cappelletto.
L’uomo dietro la scrivania si è già dimenticato di lui. Gesticola, mugugna al cellulare. Poi prende a scartabellare nei fogli. Parla fra sé.
Dir. Vediamo (controlla in un’agenda) sì, alle 11.
L’uomo in piedi, rimasto immobile in attesa, si agita, incerto ne tentativi di domandare e di ascoltare.
Dir. Dunque (prende una penna, sfoglia l’agenda da tavolo fino ad arrivare al giorno; scorre con il dito) alle 11. Colloquio (scrive, sillabando ad alta voce) con Anna e con la sua amica.
L’uomo con il cappelletto in mano è intimorito.
Dir. Guarderò anche queste. Parlerò chiaro. Ascolterò.
Vitt. Signor dirigente…(si trattiene) non volendo ho sentito… (riprende forza) non vorrà mica…
Dir. Vittorio! Mi hanno già detto tutto.
Vitt. Che le hanno detto?(Si agita) Non ho firmato.
Dir. Quindi avevi intenzione addirittura di firmare la richiesta?
Vitt. No! (Alza anche la testa) È una calunnia, un’offesa. (China di nuovo la testa) Lo sa, che oramai ho capito (le percussioni hanno un improvviso balzo di tono) non posso negare che qualcuno…
Ma il crescendo del brano si mangia le parole. La luce si fa livida. Lo si vede sforzarsi, tormenta il suo cappelletto. Cede, ci riprova.
L’uomo dietro la scrivania si alza d’un tratto. Il tono delle percussioni torna accettabile.
Dir. Ricordatelo! (Troneggia dietro la scrivania) Io so sempre, immediatamente tutto (la voce si fa veemente) so che tre di voi hanno preso a incontrarsi. Ma non mi conoscono. Ehi, guardami, pezzo di merda! Non vi darò requie. Vi farò cacare addosso, altro che riunioni, altro che risatine. Guardami, non vi farò dormire la notte!
La ragazza, che era stata per tutto il tempo immobile, prende da terra il suo zaino. La musica cessa di colpo. I due rimangono immobili nella posizione assunta.
La ragazza avanza con lenta attenzione, guarda in faccia prima l’uomo dietro la scrivania poi l’altro. Si mette a una certa distanza dai due, per guardarli insieme. Riflette.
Quindi si porta di nuovo di fronte all’uomo con il cappelletto in mano.
La registrazione scandisce:
Voce. «Io avea già il mio viso nel suo fitto».
La luce, rimasta fioca e livida, diventa rapidamente chiara e intensa, illumina distintamente ogni angolo, fruga nei volti e nei corpi. La ragazza parla con suono alto e limpido. Lo sguardo diretto, il tono di chi non concede sotterfugi: pretende una risposta.
Rag. Com’io al piè della sua tomba fui,
guardommi un poco, e poi, quasi sdegnoso,
mi dimandò: – Chi fuor li maggior tui?
Scena terza
Scena uguale alla prima. Luce, rumore di pioggia e posizione della ragazza identici alla chiusura della scena prima. Dopo alcuni secondi d’immobilità, si sente alla quinta di sinistra uno schiaviccìo. La ragazza si scuote, accorre sollevata.
Rag. Finalmente!
Aiuta ad aprire; il rumore di pioggia si rafforza.
Entra una donna di mezza età, un po’ affannata. Ha i capelli bagnati, scrolla un ombrelletto troppo piccolo. È vestita in modo povero, ma non trasandato. Scuote scarpe e piedi, si spazzola con la mano i panni per sgrondare l’acqua.
Madre. Sei stata in pensiero? (sorride, con affetto).
Rag. Questo pomeriggio (premurosa, cerca di aiutarla; le prende l’ombrello, la borsa) ti hanno trattenuto più a lungo.
M. No, anzi, a mezzogiorno il lavoro era già finito (si strizza i capelli, la bacia, attenta a non bagnarla). Il fatto è che le vie erano bloccate.
Rag. L’acqua è alzata di nuovo?
Un lampo illividisce la stanza. Immediatamente dopo, i chiocchi secchi della grandine sbattono sui vetri. Il rumore assale dall’esterno.
Le due donne corrono alla finestra. Fissano fuori.
Ragazza e madre. Appena in tempo!
M. Non era ancora accaduto (deve alzare la voce) ormai è il terzo giorno.
Rimangono sospese alla finestra, impaurite. Dopo qualche folata, il rumore s’attenua di colpo. Riprende a piovere forte e regolare.
M. I sottopassaggi sono diventati laghi (scuote la testa) ho dovuto fermarmi. E per fortuna! Appena sono scesa, mi sono accorta che una macchina s’era incastrata, o fermata, non so. C’era una coppia di anziani. Ho fatto appena in tempo ad aprire la portiera, a trascinarli su.
La ragazza l’ascolta spaventata.
M. Stai tranquilla. Qui siamo al sicuro.
Si toglie il giaccone. La figlia glielo prende, con la borsa e l’ombrello. Li porta dietro la quinta di fondo.
Rimasta sola, si lascia andare sul divano. Per la prima volta, si sente stanca.
Nella stanza c’è solo il rumore della pioggia. Chiude gli occhi e chinando la nuca si raccoglie i capelli con un asciugamano trovato nel divano, ma non è sopraffatta. Appare solo svagata, trasognata.
Anche la ragazza rientra quasi allegra. Si butta a sedere, si accoccola accanto a lei.
Rag. Raccontami (le passa le mani dietro la testa, sorride), devo sapere tutto.
M. Oh (si schernisce, sorride), che vuoi che abbia di allegro o d’interessante una mamma che viene dal lavoro. Tu, piuttosto. Dimmi della scuola.
Rag. Ah, questa è una mossa scorrettissima (ride, di cuore; poi si ricompone in una serietà appena affettata). La solita noia, la solita fatica.
M. Ho capito.
Guarda anche lei da un’altra parte, come pensasse ad altro.
Bada solo ad asciugarsi i capelli. Poi riprende, quasi parlasse solo a sé.
M. Mario oggi non c’era?
Rag. Sono affari miei (asciutta).
M. Come siamo sospettosi (sbircia con la coda dell’occhio). Dicevo così, tanto per dire. (Si gira allegra, le dà un colpetto con la mano) Dai, che domani cambia tutto!
Rag. Sai (è pensierosa) stamattina un gatto nero mi è schizzato proprio davanti, così ho dovuto fare il giro più lungo…
La madre ride di cuore e se l’abbraccia.
Rag. Davvero! E poi, quando la mia amica di banco mi diceva brava, mi sono attaccata al ferro.
Ridono.
M. Tranquilla, il colloquio è confermato.
La ragazza si alza, in uno slancio di gioia. Fa qualche passo di danza, batte le mani.
M. Saremo lì, alle undici esatte (sospira, alleggerita) questi due benedetti posti di lavoro.
Rag. Sono in pensiero per Anna (guarda verso la finestra) perché non è venuta prima, in mattinata?
M. I treni viaggiano regolari.
Guarda davanti a sé. È serena.
M. Mi sono informata bene, le notizie sono certe. Il posto è sicuro. Sono esigenti.
Rag. No, è proprio un aguzzino.
M. Oh (sorride) quale capo non lo è? Ma il nostro lavoro lo sappiamo fare. La fatica, gli orari non ci danno pensiero.
La ragazza corre a stringerla.
Poi si alza, di nuovo allegra.
Rag. In questi giorni penso spesso a quando sarò nella nuova città.
Il rumore della pioggia, subito dopo che la ragazza ha ripreso a parlare, ha cessato di colpo. Si muove leggera, davanti alla madre.
Rag. Penso alle compagne di camera, alle ore che staremo insieme. Io farò i dolcetti che mi hai insegnato. Chiacchiereremo fino a notte fonda, discuteremo di tutto, anche del mondo, anche delle stelle e degli oceani che nessuno ha ancora conosciuto.
La madre, che la guardava incantata, apre le braccia. La ragazza vi corre ridendo.
Scena quarta
Interno. Non ci sono finestre. Al centro, una scrivania, la stessa della scena seconda. La luce è però chiara, come di pieno giorno. Dietro, seduto, un uomo maturo: il medesimo, con gli stessi vestiti. Lavora nervoso, ha in mano una penna stilografica, sfoglia incartamenti, gesticola energico a un apparecchio telefonico anni Sessanta. Sul davanti, lo stesso uomo della scena seconda, ma giovane. Indossa uno spolverino grigio, capelli e barba neri, incolti. Ha in mano una scopa, da una tasca gli esce un cencio per spolverare, più di lato un secchio con lo spazzolone dentro. Lavora sodo, muovendo ritmicamente la testa e il corpo, come se stesse ascoltando musica rock.
Dirigente. Vittorio! (il tono è aggressivo, lo stesso della seconda scena).
L’uomo non sembra sentire.
Dir. Vittorio! (grida forte, assai irato).
Vittorio. Sì (alza la testa, risponde tranquillo, come se nulla fosse).
Dir. Per l’ultima volta: è vietato ascoltare musica, mentre lavori.
Vitt. Veramente…
Intanto che i due parlano, entra da destra la ragazza vestita in modo sportivo, porta sulle spalle lo zaino. Attraversa l’intera scena, passa tra i due come un fantasma e va a porsi, in piedi, al lato sinistro. Si toglie lo zaino, lo depone ai propri piedi. Rimane in attesa.
Dir. Mi pigli per il culo? Perdi tempo, ti dico.
L’uomo con lo spolverino rimane immobile.
Dir. La paga che incassi è moneta sonante!
Vitt. Io penso…
Dir. Tu non devi pensare! Devi lavorare, capito? Questo, devi fare.
L’uomo con lo spolverino prova a parlare.
Dir. Non interrompermi. Fammi parlare. C’è un altro problema. Il lavoro dev’essere finito (scandisce le sillabe) finito, quando arrivo.
Vitt. Il tempo è troppo poco, signore.
Dir. Ma quale poco, ma quale poco (si alza in piedi) tu sei incapace, sei scansafatiche (quasi urla) mangi le nostre ricchezze. Ma se guadagnarti il pane ti fa schifo, ce ne sono altri cento che …
L’uomo con lo spolverino fischia improvviso. Nella quinta di fondo, fino ad allora buia, appare una porta. Si spalanca. Entrano ridendo e urlando ragazzi e ragazze, vestiti con jeans, eskimo, barbe e capelli anni Settanta. Alcuni agitano cartelli in una lingua inesistente. Contemporaneamente s’è levata fragorosa una musica rock. Tutti festeggiano l’uomo, che getta via lo spolverino e la scopa, poi va a prendere il secchio con l’acqua e la scaglia verso la scrivania. Il dirigente rimane in piedi, immobile, come senza vita.
Dopo poco, da vari punti tra gli spettatori, salgono altri giovani.
Voci. È ora, è ora. Liberi tutti. La piazza. Le strade (con gesti e parole ci si rivolge in ogni direzione, alcuni sollecitano gli spettatori) prendiamoci la parola.
I gruppi cominciano a ballare. Brani musicali si accavallano, rock e tarantelle. Si distribuiscono volantini che volano sul palco, sugli spettatori. La scrivania e il dirigente, che è rimasto immobile, vengono completamente nascosti dai gruppi di giovani in scena. Coppie amoreggiano.
La ragazza, che fino ad allora era rimasta a guardare, prende lo zaino per tornare indietro, verso la quinta di destra da dove era entrata. Verso il centro, è afferrata dalla festa. Getta via lo zaino, si toglie il giacchetto. Altri giovani la imitano, si levano panni. Delle ragazze si cambiano in scena, alcune s’indossano gonne lunghe a fiori, altre corte minigonne. Musica, balli e vocio continuano.
Un gruppo si separa e corre verso la quinta di fondo, che questa volta s’illumina completamente. La porta di prima mostra ora d’essere solo una cornice. Oltre, la vista si apre su palazzi, cielo e alberi. La luce è del pieno mezzogiorno.
Un gruppo di giovani si allontana dalla scrivania, che in questo modo diventa di nuovo visibile. È vuota. I giovani, ancora ballando e cantando, inalberano il dirigente. Ma è un pupazzo che ne ha gli abiti e le sembianze. Ridono, scherzano con quell’oggetto, leggero come una palla di gomma piuma. Qualcuno ci balla, altri lo lanciano in alto, sopra la testa, come si fa con i bambini.
Grande è la festa. Più musiche, rock anni sessanta e tarantelle, si mescolano, si rincorrono, s’accavallano, come i gruppi sulla scena. La ragazza, rossa di gioia, si scioglie e si unisce a tutti i gruppi.
Ad un certo punto, alcuni giovani si avvicinano alla scrivania, rimasta vuota e isolata. Nell’euforia cercano di spostarla, di rovesciarla. La ragazza se ne accorge e si avvicina. È di nuovo vestita come quando è entrata. Indossa lo zaino. Rimane in piedi, di lato e sul davanti, ben visibile, con le spalle agli spettatori. Osserva attenta l’azione.
I giovani si sforzano, provano varie manovre, si consigliano, ma la scrivania rimane inamovibile. Chiamano allora gli altri, con la voce che viene soffocata dal tripudio, con i gesti. Inutilmente. Riprovano allora da soli. Coordinano gli sforzi con la voce. La scrivania è come murata.
Intorno, la festa, la musica, gli amori, i balli continuano.
Scena quinta
Interno. Notte, luce fioca. Identico rumore di pioggia. Il medesimo frigorifero di lato. Sul divano, semisdraiata con un plaid sulle ginocchia, la madre. Alle spalle, più distante, sulla destra, è comparso un lettino. Sotto le coperte, la ragazza con un libro.
La madre è sveglia, ma quasi immobile. Sembra ascoltare il rumore uguale della pioggia. La ragazza è inquieta. Si gira, interrompe la lettura, ascolta la pioggia, tende l’orecchio, sospira. Riprende la lettura.
Nella stanza, un rumore affannoso di respiro soffocato sovrasta d’un tratto lo scroscio della pioggia, lo sciacquìo dei rigagnoli. La ragazza si alza di scatto, getta via libro e coperte. Corre al divano.
La madre, che era rimasta tranquilla, l’accoglie sorpresa.
Madre. Perché (sorride) ti sei alzata?
Ragazza. Niente (si passa una mano sulla fronte, per allontanare una ciocca di capelli biondi; prova, anche lei, a sorridere). Non è ancora arrivata? (si guarda intorno).
M. Stai tranquilla, trottolina.
La ragazza, scalza, sente freddo ai piedi. Si stringe addosso il pigiama. La madre se la tira sotto il plaid. L’abbraccia.
Il rumore della pioggia continua regolare, sembra tranquillo. Nient’altro si muove.
M. È solo un ritardo (sorride di nuovo) è normale, con questo tempo.
L’accarezza.
M. L’appuntamento è alle undici. Abbiamo tutto il tempo.
La ragazza continua a stringerla. La madre solleva un braccio in un gesto largo.
M. Ho voglia di cambiare (sorride) quando tu sarai andata a spassartela…
Rag. Mamma, sai che non è così (imbronciata; poi maliziosa) mica mi farai la gelosa, ora?
M. Quando sarai a spassartela, lontano dalla tua mamma, rimasta sola e abbandonata, voglio spendere tutti i soldini che mi guadagnerò con il nuovo lavoro, per far entrare qui dentro aria fresca.
Si alza, sospira sollevata, si guarda intorno. La figlia sorride.
M. Intanto, via quel cassone insopportabile (indica il frigorifero, poi corre alla finestra) qua (guarda la figlia con aria di sfida) – ora che sarai fuori dai piedi, non potrai impedirmelo – una magnifica tenda.
Va muovendo le mani come se ne sentisse la morbidezza.
M. La voglio leggerissima, morbida. A fiori. Sì, teneri fiori di mandorlo e di pesco.
Corre a sinistra.
M. Il portoncino, lo voglio rosso passione!
La figlia ride divertita, forse imbarazzata.
M. Ah, sì! E le pareti (riflette) una carta. Una carta da parati che metta allegria, con i colori della primavera.
S’interrompe. Si ferma.
Si guardano immobili, distanti.
La pioggia cade sempre uguale. Ora non ci sono né tuoni, né lampi. Nessun rumore di macchine, come se la stanza fosse sola al mondo.
La madre si avvicina premurosa alla figlia, che è rimasta silenziosa. L’abbraccia.
M. Ora torna a letto, topino. È davvero tardi.
La ragazza sbadiglia, ma resiste. Poi la madre riesce a farla camminare. Piano, piano l’accompagna di nuovo verso il letto. La ragazza le si appoggia al fianco.
M. Rimango io ad aspettarla. Vedrai, Anna ormai sarà qui tra poco. Dormi tranquilla, che hai bisogno. Domani (sorride, la bacia) sarà per tutte una giornata importante.
Scena sesta
Interno precedente. Luce minima, a indicare il sonno. La ragazza è nel letto, la madre sul divano. Dormono. Il rumore della pioggia è cessato. Il silenzio è completo.
La poca luce artificiale lascia lentamente il posto a quella, più chiara e più alta, che penetra dalla finestra. La ragazza si risveglia. Ha un’aria sonnacchiosa, ma serena. Gode l’albore.
Guarda soddisfatta il soffitto e la luce. Sente con la mano il libro che ha dimenticato sotto le coperte. Lo guarda come chi rammenti.
Rag. È oggi l’appuntamento.
Si alza lieta dal letto. Avanza fino alla finestra nella quinta di destra. La apre. La luce ambrata dell’alba entra più intensa. La ragazza allarga le braccia, sorride.
Rag. Ha smesso.
Respira l’odore dell’alba. Contempla.
Si volta verso l’interno, con la voglia di mangiare. La madre è ancora immobile sul divano. La ragazza scuote la testa con affetto.
Rag. Come i bambini (si rammenta). E Anna?
Si avvicina.
Rag. Anna non è arrivata? (la chiama sottovoce) mamma (la tocca delicata sulla spalla) ti sarai presa freddo. Mamma.
La scuote. Una mano, inerte, scivola giù, distante dal corpo.
Rag. Nooo! (grida piegandosi in ginocchio sul corpo della madre) nooo!
Il grido lungo, acuto della ragazza lacera disperato.
La quinta di fondo scompare. Al suo posto i palazzi, il cielo e gli alberi già visti. La luce è tenue, verde e rosa del primo mattino. L’aria è tersa. La ragazza rimane nella stessa posizione, inginocchiata, immobile. Profondo è il silenzio.
Non accade nulla.
Nell’aria si leva un singhiozzo sommesso. Come una preghiera, lenisce l’immobilità.
A poco, a poco al posto della finestra, appare una splendida, candidissima chioma di mandorlo in fiore.
La ragazza si scuote. Si alza lentamente. Il singhiozzo sfinito continua sommesso.
Si avvicina stupita. Il richiamo dell’usignolo inizia tenue gli avvii lenti e lunghi. Guarda ammirata.
Quasi senza avvertirlo, il singhiozzo si smorza. Il canto si fa più alto, più ricco, nei languori e poi nelle impennate, nei gorgheggi. Il singhiozzo è scomparso. La ragazza ascolta. Riesce a piangere, in silenzio. Mentre si asciuga pacata gli occhi, sorride.
La luce, nella stanza e all’orizzonte, è ora quasi chiara.
Nota al testo
C’è qui la sofferenza per lo sperpero della devastazione di energie e di vite umane consumata intorno a noi, ad opera di altri uomini. C’è anche amarezza per la mia generazione, che tante colpe porta. C’è lo sbigottimento per le scelte di volta in volta da noi insegnanti compiute, quanto incredibilmente ipocrite, meschine e distanti dalle necessità, dalla funzione alta e insostituibile che la società, anche a nostra e sua insaputa, ci assegna.
Vista da questa parte, dal verso del foglio, la poesia, la letteratura ha una misteriosa necessità e insieme una non meno imprevedibile casualità: tutto è determinato, nulla lo è. Si tratta di un tratto per cui essa somiglia davvero, sfrondate le tentazioni imbonitorie del decadentismo, alla vita. Che cosa c’è infatti di più terribilmente ingovernabile della vita, almeno nelle nostre società? Ingovernabile perché imprevedibile; ma ingovernabile anche perché sovradeterminata rispetto alla nostra capacità di scegliere, tanto che più d’uno ha detto alienata la nostra condizione. Per questo, malgrado tutto, resta insopprimibile l’impulso a conseguire una società, un sistema di relazioni di sé con gli altri, con la natura, una vita quotidiana, ove ciascuno possa davvero comprendere e decidere il destino comune, almeno quel tanto umanamente possibile.
Per me – ma forse anche per altri, meglio: forse per l’arte dell’epoca moderna – la scrittura nasce da una impotenza. È un grido di dolore, di rabbia, di speranza malgrado tutto, certo di piacere; e anche di colpa, perché non mi scordo che il tesoro, con cui posso pensare e scrivere queste stesse parole, si regge sull’afasia di moltissimi altri. L’accumulo di cultura non è affatto diverso da quello della ricchezza (non si chiamano entrambi patrimonio?): chi possiede tanto capitale, lo ha solo per averlo sottratto a chi ne è privo. La produzione di ricchezza e di cultura è sempre più collettiva, la loro appropriazione rimane invece privata. So bene che negli ultimi trent’anni è stato fatto di tutto per nascondere l’uno e l’altro punto, come se tutti, più o meno, si fosse ricchi, tutti, più o meno, si fosse colti. Ma vedo che la crisi mondiale in cui il trentennio triste si decompone porta di nuovo a nudo quello strazio, ineliminabile in ogni società classista. Lo fa anzi con tale violenza rinnovata, con siffatta insistenza da fa dire ai più attenti di essere a un passaggio d’epoca. Gli eventi ci chiariranno se e come l’umanità (il 99%, dice Occupy Wall Street) intenderà affrontarlo, diversamente dal secolo scorso. Per me scrivere, nel modo assai ambiguo precipuo dell’arte, è sempre un gesto di condivisione, di denuncia – io non ci sto! -, d’investimento libidico, di scommessa per il futuro.
Continuo il recupero degli articoli dei vecchi siti di Poliscritture non più accessibili on line e ripubblico questo di Velio Abati comparso sul n. 9 cartaceo del gennaio 2013. [E. A.]
di Velio Abati
Quand’ebbe detto ciò, con li occhi torti
riprese ’l teschio misero co’ denti,
che furo all’osso, come d’un can, forti.
Il realismo furente di Dante ha incrinato per qualche terzina il silenzio glaciale della palude. L’orrore indicibile si squaderna ora in un esserci eterno. Il passato non muore e ha annientato di colpo il futuro. Tutto l’universo infernale è infatti un viaggio alle radici della selva dove ’l sol tace, al fermentare d’un passato che divora chi vive. La terzina conclusiva incardina l’incubo nella posa definitivamente animalesca della vittima-carnefice, “occhi torti”, e nella fissità d’una coazione senza fine: “riprese ’l teschio”.
Il lettore sa che l’emersione del rimosso, il vis à vis con il suo carico paralizzante d’angoscia è la costanza di ogni scena espiativa, offerta al pellegrino sotto la mediazione vigile del maestro. Così come pervasivo è l’assillo politico che l’accompagna e che l’artificio del viaggio collocato alla vigilia della catastrofe umana – cioè politica, etica, estetica, filosofica ed esistenziale – dell’esilio, rende incombente, ad ogni passo ravvivata da profezie ora stizzose, ora neutre, ora intenzionalmente consolatorie.
Ogni dannato ha la propria fissità e ognuno diversamente rifrange la biografia del pellegrino. Mille sono i modi con cui ciascuno, per dirla con Pirandello, rimane agganciato al proprio assillo.
Quando s’accorse d’alcuna dimora
ch’io facea dinanzi alla risposta,
supin ricadde e più non parve fora.
——-Ma quell’altro magnanimo a cui posta
restato m’era, non mutò aspetto,
né mosse collo, né piegò sua costa.
Può, tra le mille, assumere la postura nobile quanto marmorea dell’assillo pubblico, oppure il patetismo trepido e cieco della passione familiare. Ma ciò che inficia alla radice e quindi scaraventa nella discarica infernale energie e sforzi vitali della miriade di dannati è stata l’incapacità di ciascuno di trascendere l’immediato, di allungare lo sguardo verso il futuro: dilettoso monte, da cui solo si può decifrare il passato e vedere il presente.
Fortini conosceva bene questo punto della nostra umana condizione, quando ripeteva: ogni immediatezza, ossia ogni rifiuto della mediazione, è intimamente reazionaria.
Credevo che la mia generazione, esclusi i cinismi e i rampolli dominanti, avesse scoperto per tempo –ai primi anni Ottanta, ricordo – la lezione eroica del prigioniero comunista Antonio Gramsci. Ma non ho mai immaginato che avrei dovuto insegnare la speranza ai miei alunni, che il mio compito sarebbe stato formare alla speranza. Fortini, a un giovane che nel 1993 lo interrogava su che cosa debba fare, come debba vivere la propria quotidianità chi s’affaccia alla vita adulta, rispondeva: “io domando ai giovani con cui lavoro, se vivono con i soldi di papà, se vivono con i propri, quanto guadagnano”. La risposta presuppone una condizione oggi lunare, vivendo i giovani la corrosione, di giorno in giorno maggiore, delle possibilità di lavoro, di sostentamento, di relazione. Nella selva non c’è luce, i sentieri sono false piste.
Gli alberi sembrano identici,
la specie pare fedele.
E sono invece portati via
molto lontano. Nemmeno un grido,
nemmeno un sibilo ne arriva.
Non è il caso di disperarsene,
figlia mia, ma di saperlo
mentre insieme guardiamo gli alberi.
È in tale immobilità che germina la disperazione. Non c’è, in se stessi, nell’hic et nunc circostanziale possibilità di lume. Questo è l’acheronte per chi si trovi oggi ad apprendere e a insegnare. Perché la speranza, se è una necessità primaria, non vive senza alimento. Il sapere di cui Fortini parla alla figlia, nelle circostanze date, viene solo da fuori; meglio: dai tempi lunghi.
Da questa béance, prima di tutto esistenziale, in cui insegnante e alunni sono presi, proprio da questa assenza d’ossigeno che grava nell’aula e nelle case, trova vita e scopo la potente lingua dantesca. Il piacere del testo è per il lettore la messa in esperienza dell’uscita da sé, quella che il pellegrino compie con lui. Il lettore, alunno-docente, passo dopo passo, impara a riconoscere con Dante che il male, con la paura che esso genera, non è assoluto, ma ha un’origine e ha una fine.
Ho detto esperienza, perché di essa vive la fatica del concetto, non della spiegazione astratta. Fortini aveva un amore sconfinato per il conversare, come sa chiunque l’abbia incontrato. Le sue lezioni pomeridiane a Lettere in via Fieravecchia si protraevano indefinitivamente. Arrivava con la cartella, elegante, sorridente, bello nella sua capigliatura candida e iniziava la lezione. Ho imparato dalla sua lettura perché un poeta va a capo prima della fine del rigo.
Non c’era un termine formale alla sua lezione, a un certo punto si trasformava in altro. Via via gli studenti si alzavano dalle sedie fino a che rimanevamo i soliti quattro o cinque. Oramai parlava del mondo. Solo quando l’anziano custode – si chiamava Dante, mi ricordava la figura d’un carraio della mia infanzia – suonava la sirena, egli si decideva ad alzarsi, prima che le luci spente ci chiudessero dentro. Nella mesta spensieratezza del Settantasette si leggeva nei muri di Via Fieravecchia una scritta; girava voce che ne fosse autore Gianni Scalia: Franco Fortini, il Lattes a lunga conversazione. Una volta – eravamo già al secondo anno – ci confidò perché non faceva precedere nessuna introduzione al suo corso. Solo la strada percorsa fino alla fine avrebbe potuto spiegare gl’inizi.
“Essere figlio” scrive l’Istat “di un avvocato (cioè avere un’origine borghese) oppure di un operaio non è affatto la stessa cosa: le probabilità di diventare un libero professionista, imprenditore o dirigente – ossia di accedere alle posizioni di vertice della gerarchia sociale – nel primo caso sono relativamente alte, mentre nel secondo sono decisamente più contenute. I figli della borghesia sono in netto vantaggio sui figli degli operai dell’industria e dei servizi anche nelle competizioni per l’accesso alla classe media impiegatizia. Ciò significa che le diseguaglianze di classe continuano a trasmettersi di padre in figlio”. Credo che pochi ragazzi conoscano questi dati che li riguardano. Anche Lettera a una professoressa suona inoffensiva come una carta medioevale; troppo grande è il velo sia dell’ideologia dominante, sia delle apparenze arcaiche di cui quel testo si veste. Credo anche che generalmente sfugga loro, per quanto rapido e imponente sia il fenomeno, il degrado dell’istruzione pubblica, cioè l’aggressione alla forza emancipativa della scolarizzazione di massa dei trenta gloriosi, breve tempo di cui ha beneficiato la mia generazione. Non lo sanno, perché il passaggio dalla condizione di fatto alla sua consapevolezza ha bisogno del rischiaramento della coscienza.
Non sfugge però loro una verità della propria condizione, ovvero la sostanziale impotenza dell’istruzione a modificare il destino già iscritto nella carne della loro famiglia. Solo che ne rimangono atterriti, proprio in conseguenza della loro cecità circa le cause e la natura storica, ossia mediata, di quel destino. Quando domando per quale motivo andare a scuola, mi si risponde “per socializzare”. Per socializzare è di sicuro la constatazione di un’azione positiva esistente. Per socializzare è però anche la verbalizzazione d’un bisogno autenticamente vissuto. È il grido di uno spavento, d’un vuoto: se parli è meno buio, invoca un certo paziente di Freud.
Sono partito militare il primo aprile del ’78, pochi giorni dopo il rapimento di Moro compiuto dalle Brigate Rosse. Ero laureato da qualche mese. Fortini, seppi poi, era corso via dall’Italia, per cercar scampo dall’oppressione. Dalla rabbia, immagino, e dall’impotenza insopportabili. I trenta gloriosi si chiudevano nella tragedia farsesca, nell’imbecillità.
Quando sono tornato dal congedo, ho seguito altre strade, da lontano. Ho incontrato Fortini a intervalli radi. Ogni volta, ricordo, con festoso slancio paterno, a Milano, a Montemarcello, al mio podere. La presenza del suo insegnamento è maturata lentamente, quasi inavvertita. So che se qui davanti avessi i miei primi alunni e quelli attuali farebbero fatica a riconoscere la stessa persona.
[…] Celeste è questa
corrispondenza d’amorosi sensi
Con altro orecchio leggo oggi, scartando la magniloquenza che da noi puzza da lontano di ridicolo, di fetidume nazionalista, scovando invece e invitando a una verità più mite, fraterna e semmai indomita. Lavorando con i ragazzi, ho scoperto quanto a lungo il ramingo bordeggi rive di morte, dai Sepolcri alle Ultime lettere, fino alla Sera e a In morte del fratello. C’è ben poco di eroico, molto di bisogno di fratellanza, entro cui cercare ostinatamente un orizzonte di senso comune per il quale vivere e soffrire.
Trascinato via dalla risacca – era solo gl’inizi – che scomponeva e ora travolge destini e istituzioni, persi tutti i contatti. Non fui ai funerali di Fortini.
Fu Ruth a ricordarsi di me, di noi, dopo che era rimasta sola. Venne a trovarci. Facevamo delle passeggiate non distratte, quasi serene. Le piaceva ascoltare i canti e la fisarmonica, si cercavano i profumi della macchia. Tornò più volte. Ricordo le giornate piene di sole.
Dice Sartre da qualche parte che se le rivoluzioni costituiscono i momenti in cui i gruppi sociali sono in fusione, l’immobilismo è delle società fredde. Ma la restaurazione capitalistica che è seguita dopo i Settanta e che oggi giunge forse al suo culmine – che è sempre marciume, pestilenza sociale, devastazione di corpi e di anime – è ancora diversa: non c’è alcuna fusione visibile, né staticità, piuttosto un precipitare disperato, perché impotente. La distanza tra ciò che è necessario e ciò che ciascuno di noi può è tale da atterrire le energie più agguerrite, le menti più lucide.
Non si tratta di disperarsene, ma di capirlo.
Oh dei giorni mie fatiche, oh sorrisi
muti scavate e fidi nell’ordito:
– Dov’è l’inferno? dove i paradisi?
Dentro tremo, se fuor v’appaio ardito
che forti e fragili son i cuori e i visi
ma ultima la risposta che v’addito.
Per questo, punto tutte le mie forze a scartare l’erudizione e a coltivare intensa la critica. Mi tornano in mente le riflessioni di Fortini, lo scopro e lo coltivo maestro: agire perché si trovi e si manifesti più verità politica (dico “politica” e subito sbalordisco per la spaventosa distanza dell’odierna pratica posticcia dal suo significato) in una poesia sulle rose che in un documento politico e viceversa. Attivo con pazienza le verità che ho imparato, filtro le antiche sapienze, le metto ogni volta alla prova con le domande mute dei miei alunni, con le loro fatiche, le loro rabbie.
Ruth, dopo che la sua malattia precipitò, non volle più che andassimo a trovarla. La voce ferma e amica al telefono ci ripeteva che avrebbe deciso il tempo.
Ci chiamò in autunno inoltrato, invitandoci per il febbraio. Teneva sotto controllo il dolore con la terapia. Nelle poche ore che stemmo in via Legnano, dalla finestra dove si scorgevano gli alberi, era come sempre energica e determinata. Il non detto non tradiva pressioni sulla sua voce. A metà visita, chiese solo di farle un’iniezione. Spiegò tranquilla il modo a mia moglie, che non osò dirle di non averlo mai fatto. Tutti i pacchetti erano stati preparati, con i foglietti e le istruzioni di chi trasloca.
Sarà per la fiducia nella vocazione dell’uomo al bene, di cui parlava Brecht, o forse per il necesse della speranza, che soprattutto mi capita di ricordare il Fortini ‘cinese’. In un luogo riferisce l’insegnamento del saggio taoista al giovane andato a chiedergli d’istruirlo. Vuoi scoprire il segreto di fabbricare l’oro?, gli risponde press’a poco, comincia a percorrere tutte le mattine dieci chilometri a piedi. Oggi comprendo che la cosa più difficile, ma quella decisiva, non è la meta, bensì la direzione. Oggi comprendo la conseguenza suprema dell’umana condizione: nemo enim nostrum sibi vivit, et nemo sibi moritur. So e scopro ad ogni passo e insegno e comprovo che il futuro è la nostra realtà, è la verità del nostro presente, il senso del nostro passato; che quel futuro è intimamente, appassionatamente di parte. Non qualunque parte. Solo quella degli sconfitti, solo la parte di noi debole e oppressa detiene la ragione e la forza del futuro comune:
“Oppressori e sfruttatori con la non-libertà di altri uomini si pagano l’illusione di poter scegliere e regolare la propria individuale esistenza. Quel che sta oltre la frontiera di tale loro ‘libertà’ non lo vivono essi come positivo confine della condizione umana, come limite da riconoscere e usare, ma come un nero. Nulla divoratore. Per dimenticarlo o per rimuoverlo gli sacrificano quote sempre maggiori di libertà, cioè di vita, altrui; e, indirettamente, di quella propria. Oppressi e sfruttati (e tutti, in qualche misura, lo siamo; differenziati solo dal grado di impotenza che ne deriviamo) vivono inguaribilità e miseria di una vita incontrollabile, dissolta ora nella precarietà e nella paura della morte ora nella insensatezza e non-libertà della produzione e dei consumi. Né gli oppressi e sfruttati sono migliori, fintanto che ingannano se stessi con la speranza di trasformarsi, a loro volta, in oppressori e sfruttatori di altri uomini”.
È un giornalista dell’“Unità” a raccogliere nell’agosto, a due mesi dalla morte, le ultime riflessioni, che il quotidiano titolava E se il marxismo fosse il futuro? Più il tempo della mia vita scema, più insegno la passione, la fatica e la forza dei tempi lunghi. In quella primavera Fortini aveva scritto che quanto di te rimane, di tutti rimane, non sono i libri, non sono nemmeno gli affetti, nemmeno l’insegnamento, ma ciò che la tua vita ha cambiato nel rapporto con gli altri uomini.
Quando, di rado, mi capita di andare a tenere qualche discorso pubblico, apro l’armadio. Prendo un morbido sacchetto celestino d’altri tempi, con una grande scritta in nero, Furla. Si chiude con una filza di cordino nero. Appena lo apri, si spande il profumo di cuoio. La cartella marrone sembra appena uscita dalle mani dell’artigiano. Ha un solo graffietto sotto la piega che la chiude. Non una cucitura è strappata. All’interno vi sono tre scomparti per pochi fogli, giusto di formato A4. Su quello anteriore è cucita, a reggipenne, una striscia di vacchetta. La cinghia che sorregge la cartella è lunga e comoda, può essere indossata senza impaccio anche con la giacca blu con cui arrivava a lezione fresco e furioso.
Ci dispongo il foglietto d’appunti, controllo che vi sia un lapis, ripasso a memoria la scaletta. Il borsellino di cuoio nero, fermato su tre lati con la cerniera, lo lascio invece chiuso nello scomparto. So che all’interno porta stampigliato in caratteri gialli una parola, “mundi”.