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Fra la terra e il cielo della lingua

Storie e meditazioni

di Andrea Nuti

Come si legge nella quarta di copertina, La memoria delle piante di Velio Abati [cfr. anche qui] è un romanzo che recupera e intreccia storie di un’umanità prevalentemente contadina, sfruttata e sconfitta ma mai rassegnata, sempre descritta nella inscindibile relazione con la terra e gli animali. L’autore racconta di questo mondo perché a questo mondo appartiene per ragioni biografiche e di questo mondo intende cogliere le relazioni fra le varie generazioni. Le storie dei personaggi del Podere del Diavolo, di Ruffilla, di Camara, di Lorediano, di Sapìo e Catalina, sono recuperate nella profondità di differenti epoche attraverso un lavoro di scavo insieme storico, antropologico e quasi archeologico. Lo scrittore le fa riemergere, vuole in ogni modo farle uscire dall’evanescenza del sogno per proporle al lettore nella loro concretezza simbolica di cui sono fatti i nostri pensieri e i nostri corpi e lo fa attraverso la lingua, vera protagonista del romanzo.
La voce dell’io narrante utilizza registri linguistici molto differenti che vanno dalla dimensione popolare e terrigna, sempre altamente nobilitata e amata, fatta di arcaismi, dialettismi, fino a quella alta ed erudita con richiami letterari, momenti lirici e meditazioni. La mutevolezza e pluralità dei registri linguistici e l’intreccio delle varie storie fanno sì che la lettura non sia di immediata fruibilità e che anzi richieda di essere lettori attenti, desiderosi della relazione e della partecipazione all’avventura creativa. D’altra parte questo è un tratto stilistico di Abati che ritroviamo anche nelle sue opere precedenti, ma è anche il fascino maggiore del romanzo. Il sedimento linguistico e culturale che riemerge ha una profonda connotazione etica è come un mosaico o un dipinto riportati alla luce, che ci interrogano sul rapporto col passato e sul valore, la cura delle parole, soprattutto in una fase storica, la nostra, in cui la decadenza sembra esprimersi soprattutto nella povertà linguistica del presente, fatta di slogan, acronimi, inglesismi, cui si unisce la manipolazione e strumentalizzazione della storia schiacciata sul presente.
La partecipazione attiva del lettore è reclamata dallo scrittore anche dai particolari movimenti dell’io narrante. L’autore mette insieme in questo romanzo, caratterizzato come il precedente Domani da una forte e orgogliosa sperimentazione linguistica, un io narrante e la narrazione collettiva. L’io narrante cambia però frequentemente punto di osservazione; questo fa sì, come bene scrive Walter Lorenzoni che, “chi legge debba sempre sorvegliare l’atto della lettura e debba mutare costantemente il punto in cui collocarsi perché chiamato di continuo a prendere una posizione morale” rispetto agli ultimi di cui si parla. D’altra parte proprio questa costante ridefinizione del punto di vista di chi legge sembra permettere, come suggerisce Mario Fraschetti, una nuova particolare possibilità, quella cioè di leggere il testo partendo da differenti punti e intrecciando le parti in modi di volta in volta differenti.
Col titolo La memoria delle piante non ci si riferisce dunque solo alla ormai effettiva consapevolezza scientifica della presenza di una memoria nelle piante, ma anche e soprattutto alla stretta dipendenza e corrispondenza fra uomo e natura, alla profondità e complessità delle radici delle piante che si intrecciano e in virtù di questo intreccio e di questa profondità restano vive. La memoria, nel romanzo, non è rievocazione, non è celebrazione, non è pathos emotivo ma radicamento storico intellettuale pensato, rielaborato, conosciuto e fatto riemergere attraverso la lingua. La memoria è la connessione delle generazioni unica possibile base di partenza per una nuova consapevolezza sociale. Come non cogliere la inscindibile relazione temporale fra il futuro di Domani e il passato di La memoria delle piante. In questo senso lo scrivere di Abati è sempre atto insieme etico e politico. La presenza delle radici diventa tanto più esplicita in considerazione di una forte presenza di positive figure paterne, tanto che la parola “babbo” è forse la più utilizzata di tutto il romanzo: “Quali facce, dico, qui con me, mute. O forse il nome sento. Celso?”
Se nel romanzo Domani si apprezzava soprattutto la straordinaria coralità, che, a fronte di un tempo frammentato, emergeva dalla trama linguistica dei suoni e delle voci dei contadini, si godeva di una struttura simbolica che riusciva ad anteporsi alla definizione degli stessi personaggi, diversamente, in questo la Memoria delle piante si impongono i momenti di riflessione e meditazione, come quando l’autore riflette sulla verità: “la verità non è docile […] la verità non è pietra, è un fuoco […] la verità ogni verità è storica […] la verità non è un dato è il prodotto della lotta […] Se prendiamo, non dico la storia umana ma l’essere umano, anzi un essere umano, in lui o in lei una mirabile stratificazione dei tempi ci toglie il respiro. Le verità loro proprie hanno durate assai diverse, ma nessuna è fuori del suo tempo”. Lo stesso registro lo si ritrova quando Velio si confronta col tema della libertà, della guerra, della memoria.
Alcune parti poi sono liriche di grande bellezza, soprattutto gli inizi e le conclusioni dei vari capitoli. “Invece il sole è signore del giorno. Asciuga la fronte, fruga i cretti della terra, assalta i sassi dei fossi. L’aria tremola i campi e sbianca le ombre, ma non una cicala, non un filo d’eco dai corpi degli olivi, dal folto dei grani. Nemmeno il mio grido esce di bocca”. L’autore intende provare che lirica, dialoghi, meditazione possono stare insieme, uniti dall’esperienza umana e intellettuale dello stesso scrittore. Le mani della zingara del Caravaggio in copertina sembrano proprio richiamare allo stesso tempo la grazia della scrittura quale lavoro intellettuale, ma anche la parte più concreta e pratica del lavoro della terra, richiamano la capacità di intuire il futuro attraverso le tracce e i solchi del passato; se le mani michelangiolesche della “Creazione di Adamo” non si toccano perché l’alto e il basso restano inesorabilmente separate, qui invece alto e basso si accarezzano e si sostengono.

 

Ancora la grande infatuazione: Franny Glass e il libro russo

Potrebbe essere un'immagine raffigurante il seguente testo "D.SALINGER FRANNY E ZOOEY"
di Angela Scarparo
Tra gli altri, grandi infatuati della letteratura russa, oltre che della letteratura in generale, c’è Franny Glass. Anche lei, una delle protagoniste di “Franny e Zooey” (Franny and Zooey) di Salinger, perde la testa a causa di un libro, un libro russo.
La passione irragionevole, quella che allontana dalla via prescelta, nel suo caso assume proporzioni enormi durante un incontro, al ristorante, con un coetaneo, studente anche lui, tale Lane Cautell, uno che sulla carta sarebbe pure di suo gradimento. Tanto è vero che ci ha preso un appuntamento.
Il racconto è la storia di questo appuntamento mancato, meglio ancora sarebbe dire fallito. E chi legge vede bene quanto la colpa sia del libro, quel “Racconti di un pellegrino russo” che Franny ha con sé.
“Franny e Zooey”, un romanzo diviso in due lunghi racconti – usciti per la prima volta, rispettivamente, nel 1955 e nel 1957, sul New Yorker – sarà pubblicato in volume nel 1961.
Chi è Franny Glass, fanatica meravigliosa per eccellenza, e come si manifesta, in cosa consiste la sua infatuazione? Di che cosa parla il libro che le ha fatto, letteralmente, perdere la testa?
Uscito nel 1881, “Racconti di un pellegrino russo” narra la storia di un anonimo contadino russo di poco più di trenta anni che, dopo aver perso la moglie, non solo se ne va in giro senza una famiglia e senza lavorare, pellegrinando per tutta la Russia, ma ha anche deciso di sondare i poteri della “preghiera incessante”.
Che cosa è, e in che cosa consiste questa pratica?
Si tratta di una forma di raccoglimento, una preghiera senza interruzione, un po’ come certe forme di devozione, in cui il pregare, proprio come è per il respiro, diventa qualcosa di indipendente dalla volontà.
Ma, religione a parte, in che modo l’infatuazione di Franny le stravolge la vita e con la sua quella di chi le sta attorno? Cosa succede il giorno dell’appuntamento?
Siamo a tavola, al ristorante: c’è Lane, da una parte. Seduto a tavola, mangia le rane. Seziona la carne e intanto si autoincensa per la brillantezza di un suo saggio su Flaubert, un autore di cui ha appena criticato la scarsa virilità nella scrittura. Dall’altra parte c’è lei, Franny. Che si mette a parlare di egoismo, della bruttezza della società in cui sono costretti a vivere, di quanto faccia schifo l’establishment, quello statunitense, del 1955, che si lamenta e dice quanto non ce la fa più.
“Sono stanca di tutti questi io, io, io. Il mio e di quello di tutti gli altri. Mi hanno rotto quelli che vogliono arrivare da qualche parte, fare qualcosa di fondamentale, eccetera; essere un tipo interessante. Fa schifo, fa schifo e basta. Me ne strafotto di quello che pensano”, dice.
Chi, se non “I racconti del pellegrino”, le ha messo in testa quel tono, tutta quella roba?
Togliamo il fatto che chi legge l’ha vista andare in bagno e, subito dopo le lacrime, stringersi melodrammaticamente al petto quel libricino con la copertina “verde pisello”, proprio come se fosse stato un amuleto o un animalino.
Ancora, proprio come è in Virginia Woolf, la lettrice Franny, tramite un libro della tradizione russa, sembra credere a una possibilità di accesso alla “vita vera”, la vita “autentica”, “rivelata”, contrapposta alle convenzioni e al conformismo dell’epoca.
Ma lui, Lane, non la segue. E dove lei avverte una liberazione, lui fiuta un pericolo. Si chiede, e chiede a lei, il perché di tutta quell’agitazione, quel modo di fare.
Invece di smettere, Franny insiste, inserisce anche se stessa nella ruota: “Tutto quello che la gente fa è così… non so. Non sbagliato, no. Neppure stupido e neppure meschino. Solo così insignificante, minuscolo… così deprimente. E il peggio è che se ti metti a fare il bohémien (… ) sei conformista lo stesso”, dice. Poi, mentre sta per prendere il fazzoletto dalla borsa, la apre, involontariamente troppo: abbastanza perché lui veda il libro.
Sarà questa identificazione della ragazza nel pellegrino che prega, nella sua mentalità mistico cristiana, anche lei, come altri, nel vortice dell'”anima russa”, a farla considerare, per sempre, una delle grandi possedute della letteratura, oltre che una che si rovina la vita appresso ai libri. Meglio sarebbe dire, ai libri russi. Sarà proprio questa identificazione ad allontanarla da Lane Coutell.
Il libro, la storia, le religioni, la ricerca della verità a qualsiasi costo, anche se di verità non ce ne sono, come autoconsolazione, risarcimento e amuleto. Il classico della letteratura mistico cristiana dell’ottocento, per Franny, è la risposta che chiude un cerchio. Se è vero che Lane ha deciso, anche lei, inevitabilmente, saprà cosa fare. Non c’è posto per lui nella sua vita.
Qui c’è un altro tema interessante che riguarda la letteratura. Quello del testo come chiave per nascondere un segreto. L’opera che dà, o meno, la possibilità di accedere a una vita più eminentemente privata, e quindi oscura.
Quando lui chiede: “Da dove viene quel libro?” lei risponde di averlo preso in biblioteca. Ma non è vero. Apparteneva a suo fratello, Seymour, morto suicida. Cosa che si scoprirà nel seguito del romanzo. Chi è Seymour?
Vale la pena dire due cose sui Glass. Giovane studentessa intelligente, Franny Glass è, subito dopo lo Zooey del titolo, la minore di una famiglia decisamente particolare. Una famiglia che ha, in qualche modo, segnato anche la storia della letteratura e del cinema, non solo statunitensi.
I Glass: due genitori di mestiere attori, Les e Bassie, e sette figli.
Dei ragazzi, il maggiore, Seymour, è morto suicida durante una vacanza in Florida, sette anni prima. Avrebbe trentotto anni, se fosse ancora vivo all’epoca della storia di cui stiamo parlando.
Poi ci sono Buddy, un giovane scrittore (l’alter ego dello stesso Salinger), e i gemelli: Walt, morto anche lui, dieci anni prima, in guerra, ucciso in Giappone da una bomba, e Waker che invece è vivo, e di lavoro fa il prete gesuita. La sorella Boo Boo, sposata, è madre di tre bambini.
Infine Zachary, anche lui attore, e poi Franny.
La giovane Franny come punto di incontro, meglio sarebbe dire di deflagrazione: un punto che lega il fratello Seymour, l’autocoscienza portata a un grado impossibile di sopportazione, a Lane Coutell, la più spettrale e manifesta forma di esaltazione dell’esteriorità.
Quello che la ragazza vuole, davanti all’ego-ego-ego di Lane, è dissolversi, sparire, e far sparire, pure: tutto. Anche il ragazzo che le sta davanti.
Se il suo atteggiamento sia davvero distruttivo e non riguardi invece una sorta di faticoso cambiamento, Salinger non lo dice. Si limita piuttosto a registrare i fatti.
E così, quando lui le chiede: “Ma tu ci credi sul serio a tutta quella roba?”, lei gli risponde che quella forma di preghiera è patrimonio comune di tante religioni.
Sembra, cioè, tornata in equilibrio.
Come si sa, però, le parole, e i sentimenti che le attraversano, quasi mai percorrono le stesse strade, e anzi, molto più spesso divergono. Vediamo Franny che si alza e si allontana. La vediamo raggiungere il bar, per poi svenire davanti al bancone.
E cosa c’è, di più assimilabile a una scissione interiore, a una deflagrazione, di uno svenimento?
Qualsiasi cosa troverà al momento in cui si riprenderà, ed è giusto che sia chi legge a scoprirlo, sappiamo per certo che “le sue labbra presero a muoversi, formando parole senza suono, a muoversi, senza smettere più”, proprio come il pellegrino, dalle pagine del libro, sembra averle insegnato.
Testi, quindi, volumi: non solo come oggetti che interrompono la tranquillità amicale, oltre che quella familiare, ma libri come risultato ultimo di una tradizione che sta a rappresentare una ricerca continua, costi quel che costi. Non c’è libro importante senza grande infatuazione, e spesso fra i libri importanti ci sono testi della tradizione russa.
Interessante la modalità di cui Salinger si serve per narrare della famiglia Glass: disperde i fatti dei protagonisti in più storie, moltiplica i punti di vista, e così facendo li rende, protagonisti e fatti, potenzialmente infiniti.
“Nove racconti” (Nine Stories), raccoglie le storie dell’autore statunitense dal 1948 al 1953, è uscito in italiano nel 1962.
“Alzate l’architrave, carpentieri. Seymour, introduzione” (“Raise High the Roof Beam, Carpenters and Seymour: An Introduction”) è del 1955, in italiano nel 1965.

J. D. Salinger, ‘Franny and Zooey”, tr. R. C. Cerrone e R. Bianchi, To, 1963

Nota

L’articolo è ripreso dalla pagina FB di Angela Scarparo (qui) con la sua autorizzazione.

La letteratura è una menzogna che dice la verità

IL MANZONI DI FORTINI (I)

di Donato Salzarulo

É di notevole interesse la nota manoscritta di Fortini aggiunta, la sera del 22 maggio 1973, al testo della conferenza, tenuta all’Istituto Italiano di Cultura di Città del Messico, in occasione delle celebrazioni per il centenario della morte di Alessandro Manzoni. Continua la lettura di La letteratura è una menzogna che dice la verità

Totalitario Marx? Eh, no!

di Ennio Abate

Sul blog di Elena Grammann  nell’articolo da lei pubblicato l’11 dicembre 2021 (qui) leggo con rammarico:

Un po’ più di un anno fa ho iniziato a collaborare col sito Poliscritture. È stata un’esperienza impegnativa e piuttosto faticosa, ma molto proficua. Purtroppo l’impossibilità di ammettere che il marxismo possa sfociare in qualcosa di diverso da un regime totalitario – così come un’istintiva e radicata diffidenza nei confronti di organismi spontaneamente collettivi (e ancor più, s’intende, di organismi coercitivamente collettivi) – mi costringono a defilarmi. Pubblico quindi qui l’ultimo articolo che avevo preparato. Fa parte di una sottorubrica pomposamente intitolata “Prontuario tascabile di letteratura francese” che magari, se c’è interesse, continuerò qui Continua la lettura di Totalitario Marx? Eh, no!

Piazza Fontana

PiazzaFontana #strategiadellatensione #12dicembre

Con questo primo video prende le mosse la mia nuova serie dedicata alla strage di Piazza Fontana. In sei episodi cercherò di portare alla luce gli aspetti ancora oscuri e inediti della vicenda, attraverso l’analisi comparata delle testimonianze che i protagonisti dell’epoca ci hanno lasciato all’interno di diari, memorie e articoli di giornale. Insieme scopriremo come il dossier Piazza Fontana sia tutt’altro che chiuso.

Dei valori positivi in letteratura

di Elena Grammann

Se c’è qualcosa di Hegel e di quelli che lo hanno messo in piedi che mi è passato nella carne e nel sangue, è l’ascesi contro l’affermazione immediata del positivo.
                                                            (Th.W.Adorno)
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Percorsi comunisti. Franco Fortini

a cura di Samizdat
AI TANTI CHE IN QUESTI GIORNI CADRANNO NEL GORGO DELLA CELEBRAZIONE DEL CENTENARIO DEL “COMUNISMO ITALIANO”, E SI TROVERANNO – INCONSAPEVOLI O IN MALAFEDE – AD ADORARE IL FETICCIO DELLA CONTINUITA’ GRAMSCI-TOGLIATTI-BERLINGUER (E MAGARI ZINGARETTI).

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