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A guerre, zi Rafiluccia, a nonna

Narratorio 8

di Ennio Abate

A Casalbarone c’erano le grotte dint’o vallone. La gente del paese vi si era rifugiata durante i bombardamenti. E il soldato tedesco sbandato che poi era rimasto a  vagabondare per le campagne, dormendo sui fienili e vivendo con l’elemosina delle famiglie contadine che ormai lo conoscevano e l’accettavano?
La  seconda guerra mondiale era passata come una tempesta e aveva lasciato una montagna di morti. La più sfortunata tra i parenti di Chiero era stata
zia Rafiluccia.  S’ere spusate nu cugine, che si chiamava Pietro Triggiano ed era morto nella guerra 1915-1918  ma nessuno dei parenti ricordava più  in che anno e dove.  Poi, durante la Seconda guerra mondiale, aveva perso anche il figlio che aveva avuto da lui:

O figlie, Tanine, murette vicino o ponte e fierre sotto o prime bumbardamente. Ere o 21 giugne 1943, o iuorne e San Luigie. Chille e facettere ascì ra caserme sott’e bombardamente. Ca ere muorte, zi Vicienze o sapette pe case. Steve cercanne ospedale dopp’ospedale. Po truvaie une ncoppa a nu trene e chiste dicette: Tenite na fotografie? Zi Vicienze ngia facette verè e remanette accussì. Zi Rafiluccie nun putette avè manc’o cuorpe ro figlie. Ie, a notte, me l’ere sunnate. Me riceve: nun cercateme chiù. E me faceve verè tutt’o sanghe ca asceve ra spalle sinistre. Quanne zi Vicienze arrivaie all’obbitorie, nunn’o putette manche riconosce, pecché e surdate erene scappate da caserme senza numere e matricole. E pò e cadavere s’erene già gonfiate.[1]

E adesso campava in casa del fratello, zi Vicienze, in Via Pio XI a Salierne, dove, lasciando la casa di Casebbarone, s’erano sistemate lei e nonna Fortunata. In una stanzetta. C’erano due lettini, due comodini, due sedie e un armadio. Tutte e due vestivano a lutto. Zi Rafiluccia di tutte le sorelle era quella con l’aria più timida e triste. Parlava poco e sempre con la voce bassa e tremolante. Era molto religiosa, come quasi tutte le donne che Chiero conobbe a Salerno da ragazzo. Andava a messa la domenica nella chiesa di San Francesco vicino al liceo Tasso.  Ogni tanto usciva per far visita alla sorella Nannìne in via Sichelgaita e portava sempre o regaline per Chiero e Eggidie: qualche caramella, dei cioccolatini. La nonna invece – l’appartamento era al terzo piano – non usciva mai a causa delle scale che avrebbe dovuto fare.

[Una volta questa zia aveva fatto in segreto un regalo a Chiero. Successe quando aveva cominciato la scuola media in via Fieravecchia, dietro il Magistrale di piazza Malta. Lui se ne stava tornando a casa  verso il tardi pomeriggio – allora c’erano i doppi turni –   per Via Velia e incontrò zia Rafiluccia vicino agli archi dell’acquedotto medievale, o ponte ro riavule [2]. Era sola, gli domandò dei libri, dei compiti.  E, parlando, Chiero le disse che non aveva ancora la penna stilografica. Oltre ai libri, ai fumetti,  alla bicicletta, che mai ebbe e – otto Natale – i pastori di gesso o infrangibili da mettere nel presepio, quella era allora una delle poche cose da lui più desiderate. Zitta zitta, zi Rafiluccia l’aveva accompagnato nel negozietto che stava lì vicino, dove in vetrina erano esposte delle stilografiche. Gliene aveva fatto scegliere una tra le più belle. E nel consegnargliela, gli raccomandò di non far sapere di questo regalo agli altri due nipoti, Antonio e Fortunatina, i figli di zi Vicienze.]

Nonna Fortunata ere nate o 1864 e murette a 99 anne. Parlave e Garibbalde, ve raccuntave o cunte ro cece. [3]   O nonne, Antonio, ere nate nel 1867. Ere cape d’arte cu Angrisani e cummannave 50-60 persone. Avevene avute sei figli. O primme ere Filippe. A seconde ere Rafiluccie. A terze ere Teresine. Quarte Nanniìe. O quinte ere zi Vicienze. E l’urtima ere Assuntine. A nonne a chiamavane “a maestre”. Ere sarte e teneve e figliole ca mparavene o mestiere. Veneva ra famiglie Barone. Erene tutte signuri, pariente e De Donato. Nunn’erene gente e terre. E pure e figlie. Zi Filippe ere ‘ntagliatore. A nonne l’aveve mannate a scola a Napule, mica a Salierne. Chille faceve cert’i porte ca parevene merlett’. [1]

[Raccontarono: la nonna, non volendo, ti ferì al dito col suo ferro da maglia. Giorni dopo quel dito fu ancora colpito da una martellata per un  attimo di disattenzione di Chiero o di un cugino. Ne venne un’infezione con pus, curata per giorni con impacchi di lattuga cotta senza che guarisse. Nannìne –  si erano nel frattempo già trasferiti a Salerno nella casa di Via Sichelgaita? – lo portò alla Clinica Laurenzi, che era il figlio chirurgo della sua madrina di cresima. Il medico suggerì un’incisione, ma lei – in accordo con Mìneche? – rifiutò per paura.  Bianco volto, nero grembiulone, intoccabile corpo, che donava confetti d’anice, ahi, quanto amari! Ahi, nonna nonna, non m’infilzare! Ahi, mamma mamma, non farmi cadere! Ahi, moglie moglie, guarirmi non puoi! Ahi, madri grandi, querce di frutti spoglie e rinsecchite! Salto giù dall’albero, ché sono cresciuto. Veleno di allora non mi scorre più dentro. Ma perché ancora cado pallido, riverso sul tavolo, a fissare la morte? ][4]

 

 Versione dei brani in dialetto

Il figlio, Tanino, morì vicino al ponte di ferro nel primo bombardamento [su Salerno]. Era il 21 giugno 1943, il giorno di San Luigi. Quelli [i comandanti della caserma] fecero uscire [i soldati] mentre [gli alleati] bombardavano. Che [Tanino] fosse morto, zio Vincenzo lo seppe per caso. [Lo] stava cercando ospedale per ospedale. Poi incontrò uno sul treno e questo gli chiese: Avete una foto [di vostro nipote]? Zio Vincenzo gliela mostrò e [alla conferma da parte di quella persona che Tanino era morto] rimase impietrito. Zia Rafiluccia non poté avere neppure il corpo del figlio. Io la notte me l’ero sognato. Mi diceva: non cercatemi più. E mi mostrava il sangue che usciva in gran quantità dalla spalla sinistra. Quando Zio Vincenzo arrivò all’obitorio, non riuscì nemmeno a riconoscere [la salma], perché i soldati erano scappati dalla caserma senza il numero di matricola. E poi i cadaveri si erano già gonfiati.

Nonna Fortunata era nata nel 1864 e morì a novantanove anni. Parlava di Garibaldi, vi raccontava la fiaba del cece [3]. Il nonno, Antonio, era nato nel 1867. Era capo d’arte con Angrisani e comandava 50-60 operai. Avevano avuto sei figli. Il primo era Filippo. La seconda era Rafiluccia. La terza era Teresina. Quarta Nannìne. Il quinto era zio Vincenzo. E l’ultima era Assuntina. La nonna la chiamavanola maestra”. Era sarta e insegnava quel mestiere alle ragazze. Veniva dalla famiglia Barone. Erano famiglie di signori, parenti dei De Donato. Non erano di origini contadine. E pure le figlie [non lo erano]. Zio Filippo ere intagliatore [in legno]. La nonna l’aveva mandato a scuola a Napoli, mica a Salerno. Quello faceva certe porte che parevano dei merletti.

Note

[1] Dalla testimonianza di  zia Rina.
[2] La tradizione narra che quest’acquedotto, denominato “i Ponti del diavolo”, fu costruito dal mago salernitano Berliario, in una sola notte tempestosa, aiutato da forze malefiche.
[3]  Una versione qui: https://www.liberoricercatore.it/o-cunto-cecere/
[4] In corsivo versi tratti da E. A., Donne seni petrosi, 2010.

Foto di copertina. Nonna Fortunata seduta a sinistra e zia Rafiluccia in piedi in primo piano a destra.