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La taverna del portoghese

NOTE DI FINE ESTATE (10)

di Donato Salzarulo

                                                                                               Chiunque voglia far opera di sogno
                                                                                               deve mescolare tutto insieme.

                                                                                                                    Albrecht Dürer

É un box. Quando sulla soglia d’autunno, riprende l’aereo per atterrare a Lisbona e raggiungere Costa de Caparica, al di là del Tago e alle spalle di Cristo Rei, sistema dentro la Ford Fiesta, utilitaria con cui ha fatto nei mesi estivi su e giù e giù e su dal paese nuovo a quello vecchio, e chiude il locale.
«La taverna è aperta!…» annuncia a parenti e amici intorno al tredici giugno, giorno della festa di Sant’Antonio, patrono di Lisbona, di Padova e di Bisaccia.
Con Padova Peppino non ha nulla da spartire, ma a Lisbona e Bisaccia è di casa. Il santo patrono deve, però, festeggiarlo qui, al paese d’origine.
O sant’Antonio a Vesazz o vesazz ‘ncuodd. Tradotto: o trascorri sant’Antonio a Bisaccia o metterai la bisaccia sul collo. En passant: il detto pare abbia origine dal particolare contratto che i salariati bisaccesi facevano coi latifondisti pugliesi. Se non veniva consentito loro di recarsi al paese per la festa del patrono, avrebbero raccolto le scarse masserizie in una bisaccia e sarebbero andati via.
Comunque, ora Peppino non ha più padroni e il detto può onorarlo senza grandi complicazioni.
Così il locale – sei metri e sessanta per tre e novanta – , pensato da chi progettò la stecca di case nuove, dopo il terremoto dell’Ottanta, per custodire e riparare da vento e intemperie una macchina, per la solenne occasione viene aperto e adibito a taverna. Per la precisione: TABERNAE ROMANORUM, come si può leggere sulla bianca tavoletta appesa ad una sorta di trave in legno leggero, installata al soffitto per nascondere i tubi di scarico provenienti dai piani superiori della casa. Accanto alla scritta, a destra sono appese cinque spighe di granturco, a sinistra una damigiana di cinque litri, uno spolverino bianco, un mazzo di rametti di alloro, una falce insieme alle canne con cui i mietitori proteggevano le dita e, infine, un’altra spiga.
Sul soffitto, a questa trave finta succede quella vera, la colonna portante, il cordolo orizzontale in cemento armato, che sostiene le parti superiori dell’abitazione. É una colonna dipinta in blu mare e decorata con facce di mezze lune nascenti e cavallucci marini.
La scritta TABERNAE ROMANORUM prosegue con l’indicazione della data di apertura: A.D. MMIII. Anno del Signore, 2003. Sono già trascorsi sei anni, quindi, dalla data della inaugurazione con relativa cerimonia e inviti personali. Sei stagioni di ordinaria e straordinaria gestione, di accoglienze calorose, con andirivieni di ospiti bisaccesi e non, in arrivo da paesi e città italiane, ma anche stranieri (soprattutto Svizzera e Portogallo). Sei stagioni di fuoco con quotidiana preparazione di pranzi e cene e di realizzazione, per così dire, del sogno di Peppino. Un sogno detto a chiare lettere, raccontato in mille modi, mostrato a tutti gli eventuali ospiti, agli occasionali passanti e agli incontenibili ficcanasi del paese.
Sul retro, sempre in lingua latina, la tavoletta insiste: TABERNA PATRICII ET PLEBEI OPTIMAE LIBAGIONES. Insomma, che sia patrizio o plebeo, alla tavola di Peppino, nella sua taverna, almeno una volta bisogna sedersi. Chi non lo fa, sappia che perde prelibatezze raffinate.
Il portoghese emigrò ancora minorenne in Svizzera. Nato nel 1943, prese il treno per Zurigo, alla fine degli anni Cinquanta. Non ricorda più se accadde nel ’58 o ’59. Di certo v’è che non aveva ancora fatto il soldato, né aveva mai esercitato il diritto-dovere del voto. Atti che allora si potevano compiere soltanto a 21 anni, col raggiungimento della maggiore età. Non avendola raggiunta, per emigrare, ricorda che fu necessaria l’autorizzazione dei genitori con relativa firma. Cosa che non gli fu negata. Il padre era già a Ginevra, la madre andava a zappare terre occupate, in affitto o in proprietà, oppure andava a prestare o a restituire giornate. Peppino allora era figlio unico. Ma come prendersi cura di lui? Con quali risorse?
Alla noia di diciotto mesi trascorsi in una camerata, a saltare dal letto per l’alzabandiera o, magari, subendo gli insulti e le reprimende del solito caporale di giornata, sfuggì ben volentieri. Meglio guadagnarsi da campare che servire una patria soddisfatta di mandare in giro per il mondo milioni e milioni di persone come lui. Al diritto di voto, invece, per quanto gli è stato possibile, non ha mai rinunciato. Anzi, le votazioni a volte potevano costituire l’occasione per un rapido rientro al paese.
La prima volta che lasciò la casa della Cupa e i sedili di piazza Duomo, Peppino arrivò, lo dicevo prima, nei dintorni di Zurigo; ma lavare piatti in una cucina di ristorante non gli andava a genio e si spostò rapidamente a Ginevra, in una macelleria e sotto gli occhi discretamente vigili del boss, come affettuosamente chiama il padre ora morto. Dalla città sede del Palazzo delle Nazioni – per inciso: nei prati circostanti per qualche anno mio padre vi ha pascolato le mucche – a Losanna ci si arriva con mezz’ora di treno. Nell’ottobre del ’64 la sede centrale della macelleria venne chiusa; per non perdere quel lavoro che gli piaceva, il taverniere fu costretto a trasferirsi nella città sorta sulla riva del Lago Lemano. Qui è rimasto per 36 anni: a consumare giovinezza, maturità e tarda maturità. Qui incontrò la prima Candida con cui si sposò, da cui ebbe una figlia e si separò. Qui incontrò anche la seconda Candida, la donna di Lisbona, con cui attualmente vive.
Avendo sempre lavorato nel reparto carni di un grande centro commerciale, ha imparato il mestiere di macellaio alla perfezione e può disquisire con cognizione di causa sui vari tagli di una bestia. Può disossarti un coniglio con tale abilità che non trovi più un ossicino neanche a pagarlo oro. Così bravo, col passar degli anni, la direzione pensò bene di affidargli compiti di responsabilità.
Oltre al macellaio, ha servito nei ristoranti e imparato a cuocere su una vampata i gamberoni flambé. Ha appreso inoltre il segreto per una buona marinatura delle alici e per mettere in tavola un piatto di cozze alla vinaigrette. Insomma, grazie anche alla frequenza di un corso di formazione professionale, è diventato un ottimo cuoco, particolarmente esperto nella cottura del pesce e in molte altre ricette il cui successo è collaudato. Allorché le libagioni dai piatti si trasferiscono nelle bocche degli ospiti, i complimenti al cozinheiro, come lo chiama la compagna lusitana, non si fanno attendere. Io, che non disdegno la buona tavola e non mi faccio mancare un po’ di pinguedine, sono, fin dalla sua apertura, uno degli ospiti d’onore della taverna.
In questi giorni, che come dice il poeta ne ricapitola altri mille, mi siedo spesso a capotavola e gusto le prelibatezze dello chef.
Ma non è di questo che vorrei parlare. Non ho nessuna intenzione di seguire Peppino ai fornelli, mentre intonando Nessun dorma affetta carne o mescola sughi. Ho accennato all’aria di Puccini perché, oltre che macellaio e cuoco, mio cugino è un melomane entusiasta. Il faut savoir, come direbbe lui, che possiede una voce da tenore amatoriale e per un certo periodo ha cantato nella corale italiana di Losanna… Aggiungo che parla, per quanto io ne possa capire, un buon francese e un altrettanto buon portoghese. Non scherziamo, l’irpino è poliglotta.
Tornando alla taverna: è di questo locale che mi piacerebbe raccontare, dell’ambiente in sé, di questo suo palpabile desiderio, realizzato con una certa cura e attenzione. Avere a disposizione una taverna: questo mi è sembrato col tempo il suo vero sogno e il suo grande oggetto d’amore. «Peccato che sia un po’ piccola!…», si rammarica ogni tanto, «Ci fossero stati altri due metri, sarebbe stato un vero carnozet…Eppure qui dentro abbiamo mangiato fino a trenta persone!…»
Alla richiesta di farmi capire cosa sia un carnozet, risponde che Williams, un buon uomo che abitava in una villa e dal quale andava a lavorare extra, ogni volta che terminava l’attività, lo portava in visita a farglielo vedere; ed era una specie di taverna col camino, l’angolo bar, il tavolo lungo, ecc. Il carnozet c’era in tutte le ville. E lui, mentre lo ammirava, sognava di possederne uno.
«Ho capito!…» gli dico e penso che anche al Nord, dalle mie parti, dove Berlusconi ha installato la torre di Mediaset, chi compera o si costruisce una villa o villetta, il primo ambiente che vorrebbe far visitare all’eventuale ospite è la taverna. Anzi, la tavernetta con camino e legna da bruciare, molle e griglie su cui arrostire bistecche, cosce di pollo, salsicce, puntine di maiale o costine di agnello. Non so perché, ma quello di Peppino è un sogno diffuso. Come se il massimo della vita fosse quello di trascorrere ore ed ore su una panchetta o su una sedia a dondolo vicino al camino. Oppure star lì a girare pezzi di carne o pollo allo spiedo.
Mariella, sua unica figlia, è venuto a trovarlo a sant’Antonio; è rimasta contenta della taverna e pare che gli abbia detto: «Vedi, papà, hai realizzato il tuo sogno…»
Devo essere sincero: il fatto un po’ mi sconcerta. Ma non ha senso mettere piedi e becco nei sogni di ognuno di noi.
Poi, sono ancora sincero, ora che il sogno ha preso forma e corpo, mi sembra di poter dire che la taverna di mio cugino è una specie di camera delle meraviglie, una sorta di museo domestico permanente. Oltre che degli artisti, meriterebbe l’attenzione di un antropologo o di un etnografo. Molti mi sembrano gli aspetti culturali da evidenziare. Di cultura materiale e non solo.
Meriterebbe, credo, anche i flash di un ottimo fotografo per poterne ricavare un catalogo alfabetico o tematico dei pezzi presenti. Non si aspetti di avere tra le mani o sotto gli occhi delle rarità. Niente cranio, ulna e tibie della Principessa di Bisaccia, ma non mi appare culturalmente e, starei per dire artisticamente irrilevante, il riprodurre per una cartolina il ceppo nodoso e a uncino di un vitigno o la scultura del pappagallo verde brasiliano, il bianco vaso da notte dei nostri nonni o l’antica lucerna romana.
Una visita alla taverna è consigliata. Insieme alle ottime libagioni, è possibile assicurarsi sguardi freschi e di prima mano sui gusti estetici di un illustre rappresentante dei nostri ceti popolari. In fondo interessa capire cosa sia “bellezza” tanto nelle case di chi sta in alto quanto in quelle di chi sta in basso. Non è escluso che i confini non siano poi così rigidi – culturalmente parlando, non economicamente – e che le contaminazioni siano molte di più di quanto si creda.

L’entrata è quella tipica di un garage. Ma non c’è saracinesca da tirar giù o su. La porta, in vetro e alluminio verniciato di bianco, è ampia e suddivisa in tre parti. All’occasione si può aprire tutta o soltanto nella zona centrale. All’ingresso, in alto, sulla parete esterna, è disegnata una meridiana.
Mettendo naso ed occhi dentro, ci si accorge subito di avere a che fare con un ambiente non di ordinaria amministrazione: a destra, la serie dei mobili tipici di una cucina (lavandino, fornello, piano cottura, frigorifero…) e in fondo l’angolo col camino. E che camino! Più simile ad un forno che ad un normale camino, con l’apertura ai propri piedi. Qui la grande bocca si trova nella zona centrale. Sotto c’è un’altra grande apertura in mattoni rossi, diventata al momento una sorta di ripostiglio. Prima di regalarla ad un amico, all’imbocco c’era anche una cancellata, non ho capito bene se di finestra o di porta. Peppino l’aveva recuperata in qualche casa abbandonata dopo il terremoto. Così come ha recuperato due piccoli rettangoli in ceramica bianca e bordi blu. Antichi numeri civici crollati insieme alle facciate e alle porte.
L’angolo camino o forno non l’ho mai visto acceso. Perciò, non saprei dire nulla sul suo effettivo funzionamento. Il taverniere assicura che funziona alla perfezione ed io mi fido di lui.
L’altra zona che salta subito all’occhio è l’angolo bar, in fondo a sinistra. Una soluzione ingegnosa per offrire agli ospiti il drink prima o dopo il pasto. Ogni taverna che si rispetti ce l’ha e in un pranzo i momenti dell’aperitivo e del digestivo vanno tenuti in debita considerazione.
Mentre s’ingeriscono liquidi alcolici o analcolici, fluiscono parole cerimoniali, tic comportamentali, modalità d’aggancio o di sgancio. Mio cugino, ad esempio, è un patito dell’entrée consumata non a tavola, comodamente seduti, ma nell’andirivieni dei commensali da un punto all’altro del locale.
Tornando alla descrizione della taverna, alla visita guidata a questa sorta di wunderkammer bisaccese, dopo il colpo d’occhi sugli angoli, mi sembra opportuno procedere con alcune osservazioni, spero non banali, ordinate per filoni tematici. Come se in ogni tema fosse possibile leggere o intravedere un volto o un’anima di Peppino. Allora, di seguito, è possibile individuare:

a) Il Peppino figlio di una cultura contadina, verso la quale conserva un particolare amore, attestato dagli attrezzi raccolti e messi in mostra. Entrando, è così possibile ammirare sulla parete sinistra: un’accetta, una zappa, una zappetta, un piantatoio, una forca e una sega da falegname; appesi alla finta trave del soffitto, ci sono, come ho già detto, le spighe di granturco, la falce da mietitore con le canne per proteggere le dita, la damigiana di cinque litri con la protezione in vimini, il mazzo di foglie secche di alloro.
Sulla parete di fondo, la sezione di una botte, tagliata verticalmente, poco più in là del primo cerchio, con la spina ben in mostra, come se girando la vite, fosse possibile spillare vino; due spine attaccate una sull’altra e la sezione di una botticella.
Il fiore all’occhiello della taverna è, lo dicevo poco prima, l’angolo bar, ricavato tra la parete di fondo e quella a sinistra. É un rettangolo di due metri o poco più per un metro, costituito da una tettoia ricoperta di tegole, sistemate ora in un verso ora nell’altro e tenute ferme da pietre. Sotto si trova l’apertura in legno e sotto ancora il muro ricoperto di pietre irregolari miste a qualche conchiglia a pettine. Appese alla tettoia due brocche di terracotta smaltate e decorate, un cicino, ossia un recipiente in terracotta proveniente dall’Alentejo e una fiaschetta. Sul piano di servizio una caraffa di vetro e una bottiglia incastonata in un portabottiglie di ferro.
Ma il portabottiglie più in mostra è quello sulla parete di fondo, a sinistra del camino. Si tratta di un vero e proprio scaffale ricavato da cilindri di terracotta in serie: sei per sette, quarantadue potrebbero essere le bottiglie di vino pregiato dormienti nella fresca cuccia. In realtà diversi cilindri sono vuoti e Peppino preferisce il vino di Montemarano a quello doc. A sinistra di questo scaffale ce n’è un altro, più basso ma simile in tutto.
L’angolo bar, tra il muro e la parete, diventa ripostiglio. Lì dietro il taverniere conserva pacchi di pasta, damigiane piene di vino, bottiglie e via di seguito.
Sullo scaffale portabottiglie si trova il bassorilievo in gesso dorato di una pigna d’uva.

b) Il Peppino innamorato di Roma e dell’Impero Romano. Roma caput mundi, è scritto all’interno di un’ostrica, una delle tante bivalvi esposte sulla sporgenza della parete sinistra della casa e incollate ai muri un po’ dappertutto. “Roma capitale del mondo” non è frase detta così tanto per dire, magari vera un tempo ed oggi soltanto fonte di nostalgie e passatismi. Non scherziamo: per Peppino Roma è la città eterna e resterà eternamente capitale del mondo. Vuoi mettere a confronto Roma con Lisbona o con Losanna?…Neanche a dirlo. La superiorità della culla dell’Impero romano è per lui schiacciante su tutti i piani: dei monumenti, degli edifici, della cultura. L’amore per la storia di Roma, soprattutto della Roma di Cesare e Costantino, è nell’animo di Peppino sviscerato. Non so come si sia acceso e perché, ma è un fatto indiscutibile. Se non bastassero le scritte latine, è sufficiente dare uno sguardo alla taverna per capirlo. Oltre all’antica lucerna già citata, subito all’entrata, alla parete sinistra, sopra un bassorilievo di gesso raffigurante due cavalieri probabilmente ellenici, ecco, ben esposte, due teste dorate di pretoriani col classico elmo e cimiero; e più avanti, ecco la grande planimetria di Roma al tempo di Costantino.
«Colosseo, Fori Imperiali…C’è tutto, non manca nulla…» Continua a dire Peppino.
Io mi limito al gesto affermativo della testa. Evito qualunque discussione. Mio cugino è preparatissimo in storia romana e non vorrei fare la figura di chi, dopo anni e anni di frequenza delle aule scolastiche, prenda solenni cantonate. É vero che sono laureato in pedagogia e la storia romana mi puzza un po’, ma che penserebbe di me mio cugino se sbagliassi l’anno di morte di Cesare Augusto e i piani di attacco delle più importanti battaglie ingaggiate durante la prima, la seconda e la terza guerra punica? Una volta a bruciapelo mi domandò chi era quel tizio che si mise nella botte e si fece rotolare giù da un monte. Biascicai una risposta; per fortuna, corretta.
Sempre sulla parete sinistra, in fondo, subito dopo la gigantesca planimetria, è esposta una ceramica a forma di piatto con le più importanti vedute della Roma odierna. Sopra, invece, una tavoletta bianca con la scritta in pennarello nero: CARPE DIEM QUAM MINUM CREDULA POSTERO. Peppino sa che è tratta da un’ode di Orazio e la sbandiera come una sua possibile filosofia di vita, soprattutto quando porta in tavola, in bella mostra e magnificandone il profumo, piatti di spaghetti alle vongole o di faraona ai funghi porcini. Lo chef preferisce le linguine agli spaghetti, ma Sandro, il fratello nato quando lui stava già per sposarsi, è affezionato ai bastoncini lunghi e sottili inventati dai cinesi. E lui, quando può o gli va a genio, l’accontenta.
Peppino è nato durante la seconda guerra mondiale ed è andato a scuola verosimilmente nei primi anni Cinquanta. Non credo che abbia imparato in aula e sui banchi tutto ciò che sa di storia romana. Anche perché non è andato oltre la licenza elementare. Credo che sia autodidatta e che l’amore un po’ gli venga dal clima culturale dell’epoca fascista.
Sempre all’entrata, sulla parete destra, questa volta è esposto un attestato, firmato B. Mussolini, conferito a suo padre. Recita: Al soldato Solazzo Antonio autorizzato a fregiarsi della medaglia commemorativa con gladio romano per le operazioni militari in Africa Orientale. Decreto 27 aprile 1936 XIV.  Sotto la firma del Ministro B. Mussolini, si può leggere, tutta in stampatello, la seguente esortazione: LEVATE IN ALTO, LEGIONARI, LE INSEGNE IL FERRO E I CUORI A SALUTARE DOPO QUINDICI SECOLI LA RIAPPARIZIONE DELL’IMPERO SUI COLLI FATALI DI ROMA.
Prima di prendere il treno alla stazione di Foggia per Zurigo o per Ginevra, probabilmente Peppino avrà vista la medaglia col gladio conferita al boss e avrà letto le frasi altisonanti dell’attestato. Così nel momento in cui, emigrato, ha sentito sul corpo le parole offensive e minacciose o gli sguardi di disprezzo razzista di qualche crucco o di qualche cittadino di Losanna – tutti gli emigrati sono oggetto di queste forme di razzismo come l’Italia di oggi dimostra a menadito – ha provato a difendersi esibendo i propri quarti di nobiltà. «Ignoranti voi non conoscete la nostra storia!… Noi siamo i figli della lupa, i pretoriani dell’Impero Romano alloggiati un tempo in tutta la penisola iberica e anche al di là delle Alpi…Molte vostre città le hanno costruite i nostri padri e se sapete qualcosa dovete ringraziare noi…».  Non so se Peppino abbia mai realmente fatto un discorso simile. Per quanto mi riguarda ho l’impressione di sì e sono anche convinto che da proposizioni così congegnate pensava di ricavare una certa forza. O, per lo meno, cercava di contenere la superiorità di chi offrendoti un lavoro e un letto pensa di poterti rendere schiavo. Questo è una faccia della medaglia. L’altra è il sogno che lo sbandieramento delle insegne imperiali porta con sé.
Una volta gli chiesi, se gli sarebbe piaciuto vivere nell’epoca della Roma dei patrizi e dei plebei, dei Cesari e degli imperatori. Mi rispose di sì. Ovviamente avrebbe voluto essere un patrizio che gusta leccornie sul triclinio e che si fa servire da uno stuolo di belle schiavette. La Roma su cui Peppino fantastica è quella della gloria e, nello stesso tempo, della dissolutezza e della decadenza. Ama la Roma dei principati e quella del Satiricon di Petronio, la forza conquistatrice dell’Impero e il carpe diem di chi sa che su questa terra tutto è provvisorio. Mussolini e persino il nostro ben amato Presidente del Consiglio.

c) Il Peppino esterofilo, amante dell’ordine svizzero ma mai disposto a viverci lì.
In alto sulla tettoia dell’angolo bar sventolano due bandiere: una – è banale persino dirlo – italiana e si trova a sinistra; l’altra, quella svizzera, sventola a destra. Quasi sulla parete di fondo, appeso alla tettoia, un lampione con la croce elvetica comperato il primo agosto, giorno di festa nazionale.
Della Confederazione, il taverniere esalta soprattutto l’ordine: puntualità dei treni, pulizia delle strade (se sbadatamente ti accadesse di buttare un pezzo di carta per terra, troveresti qualche sguardo pronto a fartelo notare), sorveglianza efficace della polizia, ecc.
«Agli svizzeri puoi dire tutto, ma su queste cose sono cento volte più avanti di noi…»
«Perché, allora, non hai mai pensato di comperare una casa a Losanna?…» gli domando io, «Perché non ti sei proposto di risiedere lì?… Perché sempre ‘sto Bisaccia in testa?…»
La risposta è facile da immaginare ed è tutta un’esaltazione di radici come se le persone fossero alberi, invece che nuvole. Le radici poi sono i genitori un tempo anziani ed ora morti, gli zii, i cugini, la tribù famigliare.
Gli emigrati che non hanno attraversato l’oceano vivono o hanno vissuto tutti col pensiero del ritorno: anni ed anni a Losanna, Zurigo, Francoforte sempre con l’attesa di rimettere le valigie nel bagagliaio della macchina o di prendere il treno.
Peppino è uno di quelli che ha fatto doppio e triplo lavoro, che ha comperato, come forma di investimento, un appartamento a Torino. Quando poi ha scoperto che l’amministratore lo fregava e che i soldi dell’affitto non bastavano neanche a pagare le spese condominiali, l’ha rivenduto. Ha comperato in seguito due appartamenti nel paese d’origine della prima Candida, ecc. ecc. Voglio dire che nelle mani del portoghese i franchi sono girati e avrebbe forse potuto acquistare una casa a Losanna. Ma o non ci ha pensato o non faceva parte dei suoi progetti di vita o le case nelle città svizzere hanno costi proibitivi.
Se ci pensa su, sostiene che è stato sfortunato. I soldi, dopo tanto lavoro, sono sfumati ed ora deve contarli con attenzione.
Comunque, Peppino ogni tanto torna a Losanna. Mariella, la figlia, vive lì. 

d) Il Peppino portoghese. Quando si separò dalla prima Candida – un lungo allontanamento cominciato anni prima e trasformatosi nella fase finale in un tormentone giuridico tortuoso e costoso – incontrò la seconda, una simpatica e bella signora proveniente da Lisbona, a sua volta separata e con un figlio.
La incontrò nel centro commerciale dove lui lavorava. Candida era in ferie dalla sorella emigrata (molti portoghesi erano e sono emigrati in Svizzera) e si trovava occasionalmente lì per comperare il formaggio. Si innamorarono, unirono felicemente due solitudini e progettarono un’età della pensione da trascorrere un po’ in Portogallo, un po’ in Irpinia.
Ciò che attualmente sta accadendo.
La taverna è impregnata di quest’aria portoghese, di queste passeggiate oceaniche tra le calette e la banchisa di Costa De Caparica.
C’è, innanzitutto, ben esposto, sulla parete destra, dopo gli stipetti e le mensole della cucina, un brandello di rete da pescatori, un’ampia fascia trapezoidale, ritaglio probabilmente di una paranza a cui sono appesi alcuni galleggianti, quattro grandi bivalvi nere, a pinna, un gasteropodo a spirale (murice forse) e la corazza rosea di un granchio. Zapateira lo chiama Peppino e lo immagino in grembiule da cucina, mentre con coltello e martello taglia zampe, spacca chele e corazza per cavarne polpa da cuocere; mescolata a maionese, whisky ad altri ingredienti che non saprei più elencare, ottiene una salsa davvero squisita.
Vinta la mia iniziale diffidenza (non sopporto la maionese), l’ho assaggiata nel mio primo viaggio in Portogallo e posso testimoniarne la bontà.
A sinistra della rete, verso il camino, sistemate orizzontalmente, due gigantesche bivalvi a pinna. Nella parte a punta sono nere, in quella larga sul grigio-marrone e con una superficie tutt’altro che liscia: aspra e scabra. Una meraviglia, davvero una meraviglia! Un mio racconto mi piacerebbe così.
Bivalvi anche sulla parte alta del camino. Appiccicate all’intonaco due file di datteri di mare, tre di sassolini – di quelli che i bambini si divertono a raccogliere sulle spiagge – e cinque file di conchiglie a pettine.
Bivalvi e sassolini, poi, a metà, lungo tutta la sporgenza della parete sinistra. Non mancano tre o quattro gasteropodi a spirale. É possibile, inoltre, ammirare anche un’ostrica con su scritto CAPARICA, dei santini di Sant’Antonio da Padova, dei ceri sempre del santo e un cero del noto santuario di Fatima.
Ci sono, in aggiunta, due ceramiche a forma di piatto, una più piccola ed un’altra più grande. Ambedue tra il marrone lucido e il senape con su scritto, sulla prima, PAO MILHO, sulla seconda ALGADA CHURRASCÃO. Quest’ultima sembra essere il ricordo-ringraziamento di un ristorante. Me l’ha anche detto, ma non ricordo dove il portoghese ha comprato il piattino con la scritta “pao milho” che forse significa “pane di miglio”. “Algada churrascao”, invece, significa “cantina o taverna di carni grigliate”. Il piatto, decorato con fiorellini bianchi e con una scritta sul fondo, viene dalle parti di Odivela. Peppino lo ricevette in occasione di un pranzo che Manuel, suo cognato, nato il 28 maggio come me, pagò ad un vigile. Gli aveva fatto una multa abbastanza pesante. Gliela tolse e allora per sdebitarsi andarono da Algada Churrascão. Ogni mondo è paese. La corruzione, come dicono gli esponenti del partito delle libertà, c’è dappertutto. Un amico poeta, compagno di scuola, l’altra sera ha detto che c’è persino nei tanti osannati paesi scandinavi. D’accordo, gli ho detto: ma quali livelli raggiunge? Ma lasciamo stare questi discorsi in cui tutte le vacche sono nere.
La scritta sul fondo del piatto coi fiorellini recita: Espero che tenha /Desta boa refeição/Pao os votos da Gerencia / Da Adega Churrascao. Traducendo a occhio e croce: Spero che conservi / di questo buon piatto / il pane con gli auguri dalla Gerenza / Taverna di carni alla brace…
E dopo il piattino con la scritta, ancora conchiglie a pettine o gusci d’ostriche a far da intonaco, insieme a lastre di pietra irregolari, sulla fascia bassa delle pareti: sia a sinistra che sulla zona dell’angolo bar.
Ma i pezzi forti di chiara matrice portoghese sono i due quadri esposti sulla parete sinistra dopo la forca: il primo è un azulejo raffigurante una corrida, il secondo è un’immagine di Sant’Antonio proveniente da Lisbona. Il santo, col suo saio marrone, occupa sei piastrelle quadrate e sulla sua testa ha una lampada votiva.
Altri pezzi interessanti di provenienza portoghese sono due ciotole di sughero dell’Alentejo. Afferrandole per il manico, è possibile attingere acqua da bere da un pozzo.  A sinistra della ciotola più grande, appesa sulla parete di fondo, si trova quella che Peppino chiama una cataplana. Parola inesistente nel vocabolario italiano. Probabilmente è lessico lusitano. Ma non saprei dirlo con certezza. Quando andai in Portogallo, Peppino mi incoraggiò: “Imparare a parlare il portoghese è facile. Parla in dialetto bisaccese e vedrai che ti capiranno!…” Aveva ragione. Sua madre, zia Maria, rigorosamente analfabeta e capace di espressioni verbali unicamente in dialetto, s’intendeva prodigiosamente con la nuora In effetti la menina è molto simile alla nostra menenna, la ciucolatera  è la caffettiera  che anche noi chiamiamo così. Ma, come si sa, parlare una lingua non è soltanto un problema di lessico. Si tratta di impadronirsi di un accento, di un ritmo, di una melodia, di un giro sintattico, che forse è il più difficile da apprendere. Soprattutto se si hanno orecchie resistenti agli altrui idiomi. Evidentemente, la zia non le aveva.
Tornando alla cataplana è una padella di rame con doppio fondo per permettere una buona cottura del pesce.
Anche i due colombi di terracotta sistemati sugli angoli della tettoia provengono da Lisbona, il pappagallo verde scolpito magistralmente nel legno è, invece, brasileiro. Dall’Alentejo arriva, invece, il già menzionato cicino, recipiente di terracotta ad uno o due boccagli a seconda che sia riempito d’acqua o di vino.
Ultima curiosità portoghese è la targa che Peppino ha esposto sullo scaffale del portabottiglie. É quella della sua macchina rossa fiammante con cui venne i primi anni a Bisaccia e che poi ha venduto. Ricordo un viaggio con lui verso Rodi Garganico. Le curve gli davano le vertigini. Sensazione di cui soffre profondamente fino alla paralisi. In Portogallo, andammo al castello di Sintra e lui per passare da un muraglione all’altro si teneva appiccicato al muro. 

e) Il Peppino turista non per caso. Da sempre il taverniere ama viaggiare. Comodamente. In alberghi a tre, quattro e cinque stelle. Ai tempi della prima Candida, la riviera adriatica è stata spesso la sua meta; ma poi ha fatto anche puntate in Francia, in Germania, in Austria, in Grecia, in Sicilia, in Algarve, sulla costiera amalfitana, ecc. Di quest’ultima ha due ostriche-ricordo con su scritto AMALFI e POSITANO.
Sull’asse di legno dell’angolo bar, c’è veramente anche una bella ceramica a piatto con la città di Gerusalemme. Non mi risulta che sia andato, ma è indicativa della sua voglia di girare il mondo, di conoscerlo. Ai viaggi a caso, antepone quelli organizzati. Al nomadismo delle roulotte, preferisce la prenotazione e l’invio della caparra all’hotel che lo ospiterà. É chef, non servitore. E’ responsabile del lavoro, nom de dieu!, non cameriere.
É un cinema essere in sua compagnia al tavolo di un ristorante. Legge e rilegge il libretto del menù. Sceglie con oculatezza. Si fa spiegare. E se la malcapitata, invece, del lombo vuole rifilargli un pezzo delle prime costole, stai sicuro che si alza e protesta energicamente.
Due episodi ricordo. Ambedue accaduti in Portogallo. Il primo in un ristorante di Penacova. Eravamo lì, ospiti di un parente. Per onorarci ci portò in un locale specializzato in ricette a base di lampreda. All’entrata c’erano le vasche in cui questa specie di anguille fluttuavano. Quando ci sedemmo, il mio caro cuginetto fece finta di scegliere, poi disse che preferiva al pesce, la carne. E ordinò la picanha. Mi misi sul chi va là. Perché mai?, pensai, lui esperto in ricette ittiche, perché mai non sceglie questo pesce, che pur agli occhi dei portoghesi è una vera specialità. Trovai la risposta poco dopo, appena mi vidi recapitare al tavolo un piatto annerito dal sugo della lampreda, mentre lui gustava dalle mani di una signorina pezzettini di carne di manzo infilzata in uno spiedo che veniva ogni volta riportata sul fuoco. Per fortuna me la fece assaggiare. Io sono un amante del pesce, ma quella era una vera leccornia.
Il secondo episodio mi è capitato in un ristorante dell’Alentejo. Io stavo consumando del baccalà, piatto nazionale, come si sa, dei portoghesi. Lui ordina della carne di vitello. La signora gli recapita un pezzo non proveniente dalla spalla piuttosto che dalla coscia. Apriti cielo!…Dovetti calmarlo. Non si può sfidare impunemente la sua competenza. Per fortuna, alla fine si calmò e la signora gli chiese scusa e lo baciò sulla guancia.
Ovviamente nella taverna sono esposti tutti gli attrezzi che fanno riferimento a questa sua arte della cucina: da una lunga fila di coltelli, al camino, alle pentole, al passatutto, ecc.
Non so se ho dimenticato qualcosa; ma questi mi sembrano gli angoli e gli oggetti essenziali della taverna del portoghese, un locale di sogno, chiaramente specchio stratificato e prismatico della cultura e della storia di Peppino. Come definirla una taverna così? Come caratterizzarla?
Alcuni giorni fa, mi è capitato di entrare dentro la cantina antica di un vecchio contadino. Ogni oggetto al suo posto, ma tutti oggetti che avevano a che fare con la destinazione e la funzione del locale: dalle damigiane ai tini, dalle bottiglie agli imbuti di varia grandezza, dalle giarle alle botti. Neanche un quadro o una conchiglia a pagarla oro, neanche un santino o un souvenir. Un ordine semplice e una corrispondenza tra bellezza degli oggetti e destinazione che definirei perfetta.
Quando questo legame si sia rotto non saprei dire. Ciò che mi sentirei di sostenere è che tra il noto blob televisivo e la taverna di mio cugino esista una relazione neanche tanto segreta, una connessione esplicita. Il che mi fa propendere per l’ipotesi che l’ordine delle cose sia andato in frantumi insieme al racconto.
Se questo è vero, la taverna del portoghese è qualcosa di più di un sogno realizzato da un emigrato. Forse l’Italia è questa taverna postmoderna, una bellezza babelica e caotica, un insieme di culture esposte fianco a fianco senza dialogare.

Agosto 2009

Fortini, la guerra, la pace

di Ennio Abate

Chi sta in alto dice: pace e guerra

sono di essenza diversa.
La loro pace e la loro guerra
sono come il vento e la tempesta.

La guerra cresce dalla loro pace
come il figlio dalla madre.
Ha in faccia
i suoi lineamenti orridi.

La loro guerra uccide
quel che alla loro pace
è sopravvissuto.

(Bertolt Brecht, Poesie di Svendborg)


La Seconda guerra mondiale e Foglio di via La guerra entrò nella vita di Fortini  con il suo richiamo alle armi nel luglio 1941. Nei mesi seguenti egli riuscì ancora ad alternare servizio militare e studi universitari, ma lo sfascio dell’esercito italiano (8 settembre 1943) lo spinse a raggiungere con altri dispersi la Svizzera. Internato nel cantone di Zurigo con centinaia di fuggiaschi italiani ed europei, vi conobbe esponenti dell’immigrazione antifascista, lesse per la prima volta alcuni scritti di  Lenin, aderì al Partito socialista e incontrò Ruth Leiser, che diventò la donna della sua vita. Partecipò anche alla repubblica partigiana formatasi in Valdossola, che però era già in fase di ripiegamento.

I versi di Foglio di via, scelti tra i moltissimi scritti degli anni  ’40-‘44, sono il primo risultato poetico di Fortini giovane. Ricevettero poche recensioni (di Calvino e Ragionieri in particolare), ma scarsa attenzione da parte dei suoi amici letterati fiorentini.

Anni dopo, nella Prefazione del 1967 alla nuova edizione di Foglio di via e in alcune interviste, Fortini sottolineò quale forte cesura la Seconda guerra mondiale aveva segnato nella sua esistenza, sebbene gli eventi più tragici del conflitto mondiale l’avessero soltanto sfiorato e giudicasse ora (un po’ mortificandosi, come nel suo stile) quella sua esperienza “assolutamente trascurabile” se paragonata alle sofferenze di tanti coetanei deportati in Germania, in Africa o in India.

Lo stacco fra  il prima (adolescenza all’insegna dell’elegia, passione per l’arte e la letteratura, partecipazione sia pur diffidente e scalpitante ai Littoriali del regime fascista) e il dopo (servizio militare, sbando, internamento in Svizzera) fu netto e duro. I rapporti che stabilì, da isolato, con militanti politici antifascisti e formazioni partigiane non furono privi di esitazioni e il contatto con soldati e civili nelle caserme o per le vie delle città bombardate gli svelò l’insufficienza della sua cultura “piccolo borghese”. «Che cosa gli poteva servire aver letto Proust, Joyce, Rilke o Gide?», scriverà nella Prefazione del 1967; e in un’intervista aggiungerà poi: “È solo con l’esperienza del servizio militare, l’incontro con i contadini italiani vestiti da soldati, da fanti, che ho cominciato a capire qualcosa” (Fortini, Un dialogo ininterrotto, p.511).

Nella crisi, quel “qualcosa” affiorava a fatica dal populismo tipico dell’epoca. Era sì sufficiente a staccarlo definitivamente dall’ambiente letterario fiorentino in cui s’era formato e ad unirsi a Elio Vittorini, che stava per fondare Il Politecnico, ma tenui sono le tracce  di una visione politica di classe del fascismo e della guerra. Essa maturerà negli anni successivi e, del resto, era quasi assente allora; e non solo fra i suoi coetanei intellettuali. Se rileggiamo, infatti, Agli italiani (8 febbraio 1944), una conferenza tenuta in Svizzera ai connazionali internati come lui in “quarantena” nel campo di Adliswill (cantone di Zurigo), notiamo che la denuncia dell’avventura fascista e la volontà di reagire si appellano soprattutto  ai valori della  patria distrutta.

Nella presentazione alla recente pubblicazione dei Saggi ed epigrammi di Fortini, Rossana Rossanda ha ricordato  i tanti tratti culturali che il giovane Fortini aveva in comune con tutta la generazione degli anni Venti: “stesse letture, stessi interrogativi, stesse frequentazioni, stesso fastidio per il fascismo, stesse incertezze a impegnarsi fino all’occupazione tedesca”. E Fortini, quasi a conferma, così aveva da parte sua rievocato quel clima culturale:

“L’antipatia nei confronti del regime fascista era strettamente collegata con gli atteggiamenti  intellettuali ed estetici di un giovane che allora si interessava soprattutto di arte e di letteratura. Ma questa non era soltanto la mia posizione. Era quella di tanti giovani di estrazione piccolo borghese o borghese che nella Firenze di allora amoreggiavano con la cultura d’avanguardia e con la poesia, amavano il cinema populista francese [...] e trovavano il fascismo soprattutto maleducato e volgare, banale e culturalmente rozzo. [...] L’antifascismo nostro di allora era un antifascismo che potremmo oggi chiamare di destra, cioè un antifascismo  che trovava ridicolo ed insopportabile il fascismo per i suoi atteggiamenti plebei”. (Fortini, Un dialogo ininterrotto, p. 609)

La guerra gli si presenta, dunque, innanzitutto come viva esperienza del mondo dolente e confuso dei rifugiati conosciuti a Zurigo. Di questa realtà insospettata parla come di una “rivelazione”, sottolineando – e qui ha un peso coglie l’impronta fortemente letteraria della sua formazione – che quel periodo fu l’unico della sua vita in cui non avvertì più “nessuna differenza fra la parola stampata e quella detta”. Gli parve che una fluidità sorprendente si stabilisse fra la parola meditata  nell’assenza fisica di interlocutori, propria della poesia e della letteratura, e la parola più immediata e corporea della comunicazione orale con gente in situazioni materiali durissime o sfuggite allo sterminio nazista allora quasi inimmaginabile, come quel gruppo di ebrei dell’Europa orientale che in una cantina recitava preghiere “intollerabili come urla di gente che fosse tormentata e battuta”.

Fra 1944 e ’45, sempre a Zurigo, lesse anche alcuni testi dalla Resistenza francese, ricevendone un ulteriore incoraggiamento a compiere scelte radicali, come affermò nell’intervista del 1993 a Jachia (Fortini,  Leggere, scrivere).

Berardinelli, in uno dei primi studi sistematici dell’opera fortiniana (Berardinelli, Fortini), ha visto in quegli anni un passaggio del giovane scrittore da un “antifascismo dell’anima” ad un “antifascismo politico”, che riguardò le scelte morali e politiche, ma anche lo stile della sua scrittura; ed in   Foglio di via ne abbiamo la prima registrazione.

Nella raccolta, infatti, troviamo da una parte poesie dai toni duri e realistici e un linguaggio che mira all’oggettività e alla coralità e, dall’altra, la persistenza del clima assorto dell’educazione ermetica fiorentina.

 Sul piano letterario il realismo delle scelte linguistiche e stilistiche, spia di una forte tensione verso  l’impegno politico e storico,  è  tipico di quegli anni di guerra, alla cui durezza il giovane scrittore s’impone ora di non sfuggire più nemmeno in poesia, ma l’impronta della precedente educazione, classica ed etico-religiosa, s’interseca ora con i motivi resistenziali e non come elemento inerte; e si presenta – come ha visto acutamente Lenzini – sia come «momento ‘nichilistico’,  di deiezione e angoscia» sia – dialetticamente – come attesa e  speranza.

Fortini non passa, cioè, dalla precedente formazione al neorealismo che dominerà in vari modi dal ’45 fino agli inizi degli anni Cinquanta. Resta più isolato. E basti confrontare il populismo di  tanta letteratura della Resistenza (Pratolini, Viganò, ecc.)  con la ritrosia pensosa (non ostile) verso il “popolo”, evidente nel suo romanzo, Giovanni e le mani, pubblicato nel ’48.

Foglio di via  e Giovanni e le mani  passarono presto sotto silenzio. Non rientravano soprattutto nella retorica tutta «patriottica» della Resistenza, che, surrogando  presto la sconfitta reale dei partigiani, la presentò come lotta di tutto un popolo contro un’invasione straniera, cancellandone  gli aspetti più controversi di lotta di classe e di “guerra civile”, messi poi problematicamente in luce dallo storico Claudio Pavone. E il mutamento del clima politico negli anni Cinquanta portò in letteratura ad una svolta formalistica (la parabola di Vittorini  e il successivo neoavanguardismo  sono in proposito illuminanti), che svalutò la direzione di ricerca imboccata da Fortini, lontana dall’oleografia neorealistica e nazional-popolare eppure in contrasto con l’”americanizzazione” che poi ha trionfato in Italia e in Europa. Fortini dovrà proseguire sulla sua strada in un relativo isolamento e guardando altrove (verso Francia e Germania prima e poi verso la Cina).

L’esperienza della guerra e della Resistenza restano per lui fondamentali sul piano politico, etico ed estetico. Su di esse il suo marxismo si consolidò restando “critico” e il rapporto scoccato in quegli anni fra letteratura e storia non fu mai più sciolto.  Lo testimoniano tutte le sue opere successive e la prontezza con cui reagì alle prime avvisaglie del “revisionismo storico”. Ancora nel 1993, in alcuni incontri organizzati all’università Statale di Milano, Fortini, relazionando su Letteratura e Resistenza, nel suggerire ai giovani le prove letterarie più alte di quegli anni, ricordò ancora con nostalgia l’attenzione dei letterati a quella sorta di “letteratura orale” che nasceva sui treni, allora tanto lenti da facilitare i racconti delle proprie vicissitudini da parte di ogni viaggiatore ad altri sconosciuti.

Primo intervallo: sulla “compresenza conflittuale di storia e trascendenza” in Fortini  Già  in Foglio di via emerge una feconda contraddizione, che agirà in tutta la laboriosa carriera dello scrittore e che maturerà attraverso scelte politiche e di studio.  Berardinelli ha parlato in proposito di “compresenza conflittuale di storia e trascendenza”. È una formula che mette in luce l’inquietudine mai placata della ricerca di Fortini fra le polarità della cultura occidentale cristiano-borghese (materialismo/idealismo, mondanità/religiosità).

Questa sua inquietudine è stata spesso ricondotta al facile luogo comune di un Fortini tormentato, oscuro, intollerante e ha legittimato riserve o giudizi contrastanti su di lui anche da parte di amici e studiosi importanti. Timpanaro, ad esempio, lo considerò solo “un religioso sia pure tormentato”(Luperini, Ricordando Timpanaro, in L’ospite ingrato 2001-2002) e mai un pensatore veramente materialista, mentre Ranchetti ha visto invece in lui “un’etica… non religiosa ma ricca di affetto struggente per le cose reali” (L’ultimo saluto, in Testimonianze 372 febbraio 1995).

La stessa Rossanda scorge nel suo “essere stato mezzo ebreo, mezzo protestante, mezzo antifascista, mezzo resistente” la probabile origine di un’intolleranza verso se stesso e gli altri  più che la molla di un suo orientamento comunista radicale, fertile specie nel panorama della cultura italiana ed europea del secondo Novecento, prima irrigidite dalle contrapposizioni della Guerra fredda e poi acquietatesi nei compromessi della “coesistenza pacifica”.

Isolato da tanti suoi coetanei, più tranquillamente calatisi negli schemi atei, illuministi, marxisti e cattolici (o in soluzioni eclettiche), che la storia dal ’45 in poi ha istituzionalmente offerto, è stato lo stesso Fortini ad esasperare spesso un suo sentimento di esclusione in modi quasi disarmati, come quando in un’intervista per Il messaggero del 7 gennaio 1984, confidò a Renato Minore:

“Pochi giorni fa mi sono trovato di fronte due persone della mia stessa età, fiorentine: una è stata medaglia d’oro della Resistenza; l’altro un vero fascista, molto importante. Queste persone erano cambiate come cambiano tutti negli anni. E io mi sono trovato nello stesso stato d’animo che avevo tra il ’38 e il ’41. Ho avuto un attacco d’angoscia, ero uno che si sente ancora escluso...” (Fortini, Un dialogo ininterrotto, pag 344).

Ma, evitando sintesi e sublimazioni, Fortini ha avuto il merito di affermare verità lucide e radicali su questioni (le sue “questioni di frontiera”!)  cruciali ma di solito ipocritamente stemperate dell’ebraismo, del protestantesimo, dell’antifascismo, della resistenza. E la sua verifica dei poteri è stata continua e rigorosa negli anni (non solo il titolo di un suo libro del 1965). Poche “trascendenze”, insomma, appaiono, come la sua, tanto calate  nella materialità degli eventi storici e capaci di non appiattirla positivisticamente.

La formula della “compresenza conflittuale di storia e trascendenza” se non resta un’astrazione, ma aiuta ad  indagare le prese di posizione concrete, sempre chiarificatrici, di Fortini di fronte agli eventi quotidiani e storici e, nel nostro caso, di fronte alla guerra e alla pace, può, dunque, essere accettata. Fortini non ha mai smesso, infatti, di misurare il proprio sentire, la sua fede cristiana e la sua borghese “coscienza infelice” con il dramma storico e materiale, senza farne un alibi.

E perciò non “ha elevato in tutta la sua opera un altare di lugubre e tormentosa devozione barocca alle idee di guerra, guerra di classe, antagonismo, conflitto, contraddizione”  come scrisse Berardinelli, in Stili dell’estremismo (Diario 10 1993), iniziando, con un infelice autodafé, una revisione riduttiva non solo della figura di Fortini, ma della stessa formula di cui stiamo parlando, coniata tra l’altro dallo stesso Berardinelli. Quel suo saggio affronta temi psiconalitici interessanti da indagare (come aveva già fatto Remo Pagnanelli in Fortini), ma scolla completamente il fondamento psichico  della biografia e dell’immaginario di Fortini  dalla  storia sociale e politica del Novecento.

Eppure il costante ripudio della guerra (altro che “devozione barocca” ad essa!) da parte di Fortini non pare affatto originato da voglia di un interiore quieto vivere né da pulsioni inconsce di cui sia impossibile cogliere le radici storiche. L’inconscio di Fortini, per dirla con Jameson, è politico e   le metafore, che il poeta vi attinge e che Berardinelli giudica “ossessive”, si precisano meglio proprio alla luce di fatti reali e storici.

Una tale rimozione della realtà della violenza nella storia, ridotta da Berardinelli ad immaginario quasi privato poteva aver breve credito, assieme alle teorie della “società trasparente” e di un nuovo ordine imperiale pacificato e quasi augusteo, soltanto all’indomani della caduta del Muro di Berlino del 1989 e dell’implosione dell’ex Unione sovietica.

Ma tutto il “secolo breve” e il ritorno, nel suo scorcio, della guerra come mezzo normale di soluzione dei conflitti internazionali o come risposta ottusa ad oscuri terrorismi, smentiscono l’ottimismo frettoloso di una variegata generazione, comprendente sia Berardinelli  sia il Revelli di Oltre il Novecento e, per certa fiducia in una postmodernità imperiale dai tratti esageratamente progressisti, anche Negri e Hardt.

 Il vecchio Fortini, con la sua  inquietudine mai conciliata e la sua attenzione alla storia e per la volontà di tenere assieme le radicalità di due tradizioni (la cristiana e la marxiana), non ha sottovalutato l’aspetto tragico presente anche nella possibile (“il socialismo non è inevitabile”!) rivoluzione  socialista.

La guerra nel tempo della pace: Fortini e il Vietnam Il tema della guerra ritorna incessantemente in numerose poesie scritte da Fortini negli anni successivi alla Liberazione, quelli “di pace”, del “boom economico” e della falsa “coesistenza pacifica”.

Provando a scegliere dall’indice di Una volta per sempre (ediz. 1978, che raccoglie le poesie di Fortini fino al 1973) solo i componimenti in cui il tema della guerra è più esplicitamente trattato, troviamo l’attenzione al nemico che muore nel pieno della liberazione di Parigi (Quel giovane tedesco, pag. 75), alle stragi (Sono morti ormai,  pag. 126),  alle “notizie divine della guerra” (Science  fiction,  pag. 139), alla confusione e all’ansia dell’8 settembre del ‘43 (Una sera di settembre), alla tragedia  del corpo di spedizione italiano in Russia (Ai nostri caduti in Russia, pag 150).

Col tempo nelle poesie le tracce della guerra  sembrano diradarsi (Dalla mia finestra  pag. 215). Ma essa non è scomparsa, avviene  lontano ed è comunque spiata dalla gabbia della routine quotidiana occidentale (Primo riassunto, pag. 226) o attraverso  notizie filtrate da una sensibilità solitaria, che interiorizza senza false mediazioni partitiche  lo scontro politico altrove ancora armato (4 novembre 1956, pag 230).

La guerra è sottofondo che persiste,  ora in sordina ora minaccioso. Anche in un presente che concede  al poeta la confidenza amorosa e nostalgica (1944-1947 pag. 241) o  in qualche fugace immagine  di gioia, non casualmente legata alla figura femminile (Alla stazione di Minsk,  pag. 245). Per tornare ad essere rivissuta come incubo gelido e mortuario (La linea del fuoco,  pag. 275), attraverso la lettura delle pagine di scrittori amati (Dopo una strage da Lu Hsun, pag 285) o in incontri quasi onirici con una sorta di alter ego fantasmatico (Ricordo di Borsieri, pag 310).

Negli anni Sessanta, dunque, la guerra è in Italia e in Europa un ricordo sempre più rimosso. Si è trasferita nei paesi del Terzo Mondo. Là solo è tragedia quotidiana. Qui è oggetto di controversie politiche o  notizia da manipolare. Essa ridiventa però un punto di alto di contesa politica internazionale con l’aggressione americana al Vietnam.

       Fortini, intervenendo ad una manifestazione per la libertà del Vietnam, tenuta in Piazza Strozzi a Firenze il 23 aprile 1967, prova a scalfire la rimozione collettiva. Il marxismo gli mostra che la vicenda del Vietnam è “una metafora dei conflitti di classe nazionali” e  che un filo stringe quella  guerra lontana alla pace opulenta e falsa dell’Occidente: una medesima violenza di classe si esercita in Vietnam  nella forma della guerra e in Occidente nelle forme dello sfruttamento capitalistico del lavoro.

            Con un breve comizio in dodici punti ribalta l’opinione, prevalente  anche nella Sinistra, che i Vietnamiti  fossero delle vittime e che la “coesistenza” inaugurata dal rapporto di Kruscev fosse davvero “pacifica”. Paradossalmente a trovarsi in una situazione migliore sono proprio i vietnamiti, che almeno lottano apertamente, rischiando la morte, contro l’aggressione americana, e non gli italiani che hanno  accettato la servitù dagli Usa.

     I punti sono trattati con un massimo di assertività;  e più tardi, ritornando anche sugli aspetti formali del comizio, dirà che aveva voluto costruire l’intervento “in forma modulare con variazioni su di un numero definito e ricorrente di frasi” (in forma ampia il ricordo del 1971 è trattato in Memorie per dopo domani, Quaderni di Barbablù Siena 1984).

Quel comizio è rievocato anche nei suoi risvolti politici in un’intervista a “La stampa” del 13 sett. 91:

“Una piazza di Firenze nell’aprile del ’67, dove si tiene una manifestazione per il Vietnam, con Lelio Basso e Giorgio La Pira tornati dall’Asia. C’era un’aria di melassa, con tutti gli interventi ufficiali. Ma era avvenuto il colpo di Stato dei colonnelli greci e a Berlino uno studente era stato ferito dalla polizia. I gruppi maoisti cominciarono a contestare. Io ho letto il mio testo, concepito come testo letterario, ma che ha avuto un effetto opposto. Voglio rileggerne qualche passo. “Sul Vietnam non ci si unisce. Sul Vietnam ci si divide”. “Tra Usa e Vietnam non è solo un film dell’orrore: è un conflitto fra due classi di uomini”. “Non basta dire americani a casa: perché gli Usa se ne vadano dall’Asia devono sapere di avere popoli nemici in Europa”. Claudio Petruccioli, su  Rinascita parlò delle mie “locuzioni deliranti”. In perfetta continuità con la vera tradizione stalinista del Pci, che era l’opposizione a qualunque forma di sovversione marxista, o non, che non passasse per i corpi istituzionali”

Nell’intervista non sfugge alla domanda provocatoria del giornalista, che gli chiede se quel discorso lo riscriverebbe tale e quale dopo i massacri di Pol Pot in Cambogia. Fortini chiarisce che no, non riscriverebbe negli stessi termini quel discorso:

“Certo che no. Assolutamente oggi non lo riscriverei così. Tuttavia, attenzione, non per Pol Pot, per la Cambogia, per le altre cose tremende che sappiamo. Neppure perché è venuto meno il comunismo sovietico. Ma perché è caduta l’altra grande ipotesi antimperialista: quella di un accerchiamento delle città da parte delle campagne, dei paesi sviluppati da parte dei sottosviluppati. È venuto meno, cioè, il mito della Cina. I sottosviluppati si sono trasformati anch’essi in consumatori. Il grado di unificazione del mercato mondiale è incomparabilmente superiore a quello che prevedevamo” ( Fortini, Un dialogo ininterrotto, p.622).

Non dobbiamo ridurci, sembra dire implicitamente, a ragionieri dell’orrore, né a scegliere il regime  in cui l’orrore è minore o meno appariscente (l’orrore americano al posto di quello vietnamita o sovietico o cinese?). Dobbiamo scegliere ipotesi politiche che mirano alla libertà e a conflitti più alti fra gli uomini contro ipotesi politiche che vogliono conservare privilegi antichi e moderni e abolire ogni conflitto. Questo è il senso della sua risposta, in aperto contrasto con l’”aritmetica dell’orrore” che purtroppo, sulla scia del revisionismo storico, si è imposta in questi nostri anni recenti (e di cui il “Libro nero del comunismo” è un esempio).

Secondo intervallo: il professore marxista e i “nipoti felici di verità tranquille” degli anni Sessanta Fortini cala spesso in poesia gli eventi storici da lui vissuti. In una poesia intitolata Vietnam, italiano e storia. 1966 (in  L’ospite ingrato primo e secondo, pag. 126) il presente – che vede la resistenza del Vietnam, il poeta che la segue attraverso le immagini televisive, facendo l’insegnante e chiedendo “un filo di consenso alle orde/ dei nipoti felici di verità tranquille” – è raccordato al passato: “Ricorda il Trentacinque le rose del liceo/ il professor Ugolini che non aveva la tessera.”

Il professore Ugolini di questa poesia sembra un autoritratto per interposta persona o comunque un’immagine di fermezza morale paterna e solitaria. E può  far riflettere un riscontro empirico, raccolto a distanza di tempo, all’indomani della morte dello scrittore. Esso chiarisce a sufficienza quanto fosse arduo recepire la sua pedagogia non neutra, da professore di lettere marxista, da parte di studenti degli anni Sessanta, che pur si risvegliarono nel ’68 dal loro torpore.

Trascrivo perciò alcuni brani della testimonianza-ricordo di un ex studente di  Fortini, Franco Romanò. Essa combacia quasi perfettamente con la situazione delineata nella poesia Vietnam, italiano e storia. 1966 e ci dà,  per così dire, il punto di vista dei «nipoti felici» di quegli anni:

“Conobbi Franco Fortini nel lontano 1965. Ero iscritto all’ultimo anno di ragioneria al Mosè Bianchi di Monza e lui era il nostro professore di lettere. Quando entrò in classe il primo giorno, lo sguardo era serio e severo; aveva una brutta borsa di pelle, identica a quella che gli avrei visto portare venti anni dopo. La mise sulla cattedra e poi, invece di sedersi, scese dal predellino e stando in piedi davanti a noi, ci guardò un po’ e poi iniziò un discorso che per quegli anni si può senz’altro definire memorabile:

“Mi chiamo Franco Lattes, sono di origine ebraica, durante la guerra fui costretto a riparare in Svizzera, tornai a Firenze con la liberazione. Poiché io voglio che ci si conosca bene senza sotterfugi vi dirò che sono marxista, sono stato iscritto al Partito socialista ma oggi non lo sono più, sono un poeta e uno scrittore, mi occupo di letteratura ma conosco anche l’industria. Ho stimato molto un grande industriale italiano, Adriano Olivetti, ho lavorato in quell’azienda, fui io a dare il nome alla prima macchina da scrivere, la lettera elle: il nome lexicon lo suggerii io.”

Dopo aver detto questo si sedette tranquillamente in cattedra. Tutti noi eravamo allibiti, ci lanciavamo occhiate perplesse, interrogative [....]

Altre volte si sedeva in cattedra e non parlava, se ne stava cupo e raccolto in sé; sapevamo, allora, che era successo qualcosa di grave nel mondo, da qualche parte. Fu così, per esempio, quando fu giustiziato da Franco l’anarchico Grimau; a Milano il giorno prima c’era stata una manifestazione credo anche con scontri, lui vi aveva partecipato. In questi casi al silenzio di una  decina di minuti seguiva una rapida spiegazione dei motivi della sua indignazione, poi la lezione cominciava” (in Testimonianze per Franco Fortini, Cologno Monzese 1966)


La contraddizione nelle proprie radici: Fortini e la guerra dei Sei giorni (1967)  Nel giugno 1967 le truppe israeliane e quelle egiziane si scontrarono nel deserto del Sinai; e in Italia e in altri paesi occidentali l’opinione pubblica si schierò subito con Israele, accettando la versione  che la guerra era stata una  risposta ad un’aggressione araba.

Fortini scrisse in quell’occasione I cani del Sinai. Il titolo  del libro derivava da un inesistente proverbio arabo: “Fare i cani del Sinai”, un’espressione che significa “correre in aiuto al vincitore”, “stare dalla parte dei padroni”, “esibire nobili sentimenti”.

Si tratta di un saggio composto di note politiche a caldo sugli eventi di quell’anno in aperta polemica verso i simpatizzanti dello Stato d’Israele, e di un austero resoconto autobiografico sulle proprie ascendenze di ebreo italiano, nel quale si sofferma su vicende di parenti e sulla sua stessa storia familiare e personale (i rapporti con i valdesi, la sua conversione).

 I cani del Sinai sottolinea che, con quella guerra contro gli arabi, “ebraismo, antifascismo, resistenza e socialismo”, fino ad allora pensabili come  “realtà contigue”, non lo sono più.  La guerra ancora una volta ha stravolto l’identità culturale del paese che la fa. Israele  è diventata altro da quello in cui si era sperato al momento della sua fondazione. È ora complice e punta avanzata in Medio Oriente dell’imperialismo statunintense.   E, quando la guerra dei  Sei giorni è diventata notizia, la sua manipolazione e  la sua sterilizzazione a chiacchiera da salotto è talmente imponente che gli stessi amici ebrei di Fortini,socialisti e comunisti, si mostrano sconcertati, indulgenti verso Israele e restii a prendere atto del cambiamento avvenuto. Solo lui insiste, isolato e malvisto, a trovare intollerabili le accuse rivolte agli arabi con argomentazioni – scrive – che trent’anni prima  erano state  usate dai nazisti contro gli ebrei. E mostrerà anche in seguito amicizia e solidarietà attiva verso i palestinesi, come provano le sue accorate riflessioni di un viaggio in Israele del 1989, raccolte in Un luogo sacro di Extrema ratio.

In un’intervista di Gad Lerner  del 1982 a Radio popolare (L’ospite ingrato, 2, 2003), che aveva come sfondo le stragi  israeliane in Libano di quell’anno (Sabra e Chatila, operazione “Pace in Galilea”), ritornano, filtrati dalla memoria e dalla meditazione su tante altre sconfitte, i temi politici de I cani del Sinai: la critica all’opinione democratica e colta, schierata comunque con Israele (“si pensa che gli israeliani esagerano; ma in sostanza, nel profondo, si pensa che sia meglio, possibilmente, cancellare i palestinesi”), quella alla funzione de-realizzante della comunicazione massmediale (“l’occhio dei mass-media è un occhio incaricato di non far vedere, quello che fa vedere viene  nello stesso tempo assorbito e annullato”), la presa d’atto che l’immensa tradizione culturale ebraica è ormai esaurita e che la storia e le vicende dello Stato di Israele nulla hanno più a che fare con essa.

Lerner vorrebbe vedere nel conflitto in Israele una “nuova grande ondata di irrazionalismo”. Ma Fortini gli ricorda che  esistono due razionalità, una cosciente, una meno cosciente, “ma che non per questo è meno razionale, e cioè meno adeguata ai fini che si vogliono raggiungere”.

 Per lui la classe dirigente israeliana strumentalizza le minoranze religiose estremiste, abbastanza esigue in Israele su una popolazione sostanzialmente laica e spesso atea. E respinge pure la tendenza, che in quegli anni di “crisi della ragione” si faceva strada da noi, ad abbandonare ogni lettura degli eventi storici basata sulla descrizione dello stato dei rapporti socio-economici; il che – aggiunge – “costituisce la riprova di una condizione di guerra: come quando nella guerra contro l’hitlerismo e il fascismo vi fu un momento in cui l’interpretazione canonica di tipo marxista venne omessa completamente […] per sottolineare la figura del cattivo, del non-uomo, del mostro”.

Terzo intervallo: la “regola del morto-vivo” in arte Anche se non si sofferma su una propria opera, ma sulla versione cinematografica del libro,  il film Fortini/cani, girato da Jean-Marie Straub e Danièle Huillet nel 1976, in cui lo scrittore  legge  brani del suo stesso libro, la Nota 1978  all’edizione in francese de I cani del Sinai torna utile per chiarire come Fortini passa dalla riflessione politico-autobiografica su un evento storico  alla sua resa artistica (o più in generale alla poesia).

Siamo in tutt’altro clima rispetto a Foglio di via. Lì scelte linguistiche e stilistiche  tendenti al realismo. Qui, invece,  i fatti  trattati nel libro del ’67, pur giudicati indispensabili (“in loro assenza non si fa nulla”)   vengono allontanati e sono affrontati  come fossero spoglie che hanno perduto ogni passione  e immediatezza. La polemica politica ha ceduto il passo alla meditazione: “Fra qualche anno”, egli afferma, “nessuno comprenderà più che cosa sono stati la guerra in Vietnam e il conflitto arabo-israeliano”.

Gli eventi storici vengono guardati “come beni perduti per sempre e non a noi  destinati”. Ora interessano soprattutto “le lacune del reale” o “un reale senza fantasmi di consolazione”, senza lirismo e senza autobiografia.  Perciò sottolinea: quando nel film parlo di “realtà”, la mia voce si fa stridula, è “soverchiata dall’assenza” di realtà.

Solo così  le parole, dice, diventeranno “cibo di molti”.  È una visione dell’arte (e non solo del cinema, spunto della riflessione in questo caso), che Fortini deriva “da alcuni pochi e assoluti maestri” e si fonda sulla “regola del morto-vivo, dello zombie”. Un’immagine dell’artista che pare quasi modellarsi sul Cristo dell’ultima cena, la cui figura ben si concilia con le regole che qui Fortini sostiene.

Fortini e la prima Guerra del Golfo Sulla Guerra del Golfo del ’90, “operazione di polizia internazionale avallata dall’ONU” subito dopo la caduta del Muro di Berlino dell’anno prima, Fortini scrisse su il manifesto vari articoli.

Lo scritto più elaborato è Otto motivi contro la guerra (9 settembre 1990, ora in  L’ospite ingrato, 2, 2003). È un bilancio epocale dell’atteggiamento tenuto dai marxisti contro la guerra. E viene scritto in una situazione politicamente disastrosa, non dissimile da quella creatasi alla vigilia della Prima guerra mondiale: la maggioranza della Sinistra italiana – portavoce più autorevole Bobbio – è per la “guerra giusta” contro l’Irak di Saddam. L’unica debole opposizione è morale e proviene soprattutto dagli ambienti cattolici.

Il disastro è riconosciuto. A questo punto della storia del Novecento, che ha visto sconfitte le guerriglie terzomondiste e  il crollo della stessa Cina di Mao, Fortini ritiene davvero esaurite le risposte elaborate dalla tradizione socialista, che si aspettava il cambiamento dei rapporti di forza fra gli uomini dal lento evolvere dei meccanismi, e da quella comunista, per la quale la modificazione sarebbe avvenuta per via di coscienza ed organizzazione. E lo dice  nei suoi consueti modi drastici e senza rinunciare a testimoniare anche l’impotenza della sua generazione:

“Quello che è  crollato non è soltanto l’impresa comunista, l’Est, il muro: ciò che è crollato sono due secoli di cultura occidentale. Ciò che è stato demolito non è il comunismo, casomai è il comunismo come parte dell’eredità dell’illuminismo […] Al momento del “crollo” (partiti comunisti ufficiali, muro, Urss) e della “apocalisse”, ossia del discoprimento di ciò che avremmo dovuto vedere anche prima (guerra del Golfo, mutamento delle procedure internazionali) i ventenni andarono in cerca degli ultrasessanteni per farsi spiegare che cosa fosse successo. E abbastanza rapidamente, noi vecchi abbiamo esaurita la sequela delle spiegazioni e dei ricordi, perché il mondo era troppo mutato sotto i nostri medesimi occhi [...] Certo il marxismo di “Quaderni rossi” di trent’anni fa può aiutarci a capire il Giappone, la Corea, il Brasile, la ex Urss e gli stessi Usa, meglio dello pseudolaburismo [...] Ma in queste materie non basta capire [...] Bisogna avere tempo e forza di agire [...]  C’è stata una frattura, un mutamento dei codici [...] e siamo entrati in una situazione mondiale di autodistruzione, dei corpi e degli spiriti, degli equilibri fisici e mentali che unifica il pianeta” (Fortini, Un dialogo ininterrotto, pp. 709-711).

 Che fare, allora, contro questa guerra? I mutamenti indotti dalla superiorità tecnologica e militare degli Stati Uniti hanno svuotato l’indicazione leniniana: trasformare la guerra imperialistica in guerra civile è possibile, sottolinea Fortini,  “solo al di sotto di un certo livello di tecnologia degli armamenti”, ampiamente superato oggi.  E, commentando  il verso di una canzone anarchica (“La pace fra gli oppressi, la guerra agli oppressori”), lo aggiorna: quella pace non è più esente da contraddizioni e conflitti fra gli stessi oppressi e “quella guerra non è necessariamente da combattersi con le armi”.

Non siamo però, come potrebbe sembrare, all’accettazione del pacifismo o della non-violenza. Da marxista, Fortini al pacifismo continua a rimproverare una disattenzione verso “gli effetti distruttivi del modo presente di produrre e consumare” e la svalutazione della “mediazione politica”.

Il pacifismo, scrive, “non mi persuadeva allora [si riferisce agli anni  ‘50] né oggi” e ripubblica come se fosse ritornata attuale una sua lettera a Capitini di quarant’anni prima (1950), alla vigilia della guerra di Corea.

Fin troppo convinto forse che, se una grande confederazione sindacale fosse stata capace di proclamare lo sciopero generale contro la guerra americana, avrebbe avuto il consenso necessario, contrappone la scelta religiosa, morale o filosofica  contro la guerra a quella pratico-politica, per lui indispensabile. Bisogna “uscire dalla morale verso la politica”, scrive, sostituire alla morale dell’intenzione una morale del risultato, scegliere di “combattere politicamente l’impero del mondo”.

 Il bene, dunque, anche in questa situazione catastrofica per la sinistra, non sta nella non-violenza, nel rivendicare una impossibile assenza di conflitto, nel chiedere solo che tacciano le armi. E persino in alcuni passi, dove sembra avvicinarsi a quanti intendono la non-violenza come lotta e non arrendevolezza, ribadisce che la non-violenza può essere presa in considerazione soltanto se è un’arma contro la guerra, magari simbolica come l’Intifada.

L’accento è posto ripetutamente sul valore fecondo del conflitto e sul legame dialettico, anziché di netta separazione, tra conflitto e pace: “senza conflitto non si dà riposo o “pace””. I “facitori di pace” non sono quelli che negano o mistificano i conflitti, ma quelli che “spostano la frontiera degli inevitabili  e fecondi conflitti”. E non smette di  ricordare, contro ogni facile illusione, che il conflitto è sempre un “male” per ottenere un “bene”, il cui raggiungimento però non è garantito.

La sua visione delle cose resta radicale anche in una situazione  in cui non s’intravvede la via d’uscita politica da lui stesso auspicata. Fortini non distoglie la mente dalla tragicità dell’esistenza umana e ripete con altre parole verità scritte già in altra occasione, nel 1985,  ben prima della guerra del Golfo del ’90:

“A me è stato insegnato, e lo insegno, che la vita di ogni uomo, di ogni essere umano è un valore infinito perché è la mia medesima vita, e perché è un progetto, un futuro, una possibilità di tutti. E, nel medesimo tempo e non in contraddizione con questo, mi è stato insegnato, e lo dirò adesso con le parole di Lenin ‘che quando decine di milioni di uomini vengono mandati ad uccidersi sui campi di battaglia per sapere se questo o quel mercato debba appartenere ad un bandito francese o ad un bandito tedesco, può essere necessario sacrificare una generazione, e prima di ogni altro se stessi, nel tentativo di fermare quei massacri e di distruggere quei banditi” ( Fortini, Non solo oggi, p.303)

L’assenza di conflitto non equivale, dunque, alla pace. La storia è conflitto. Compito politico non è sedare i conflitti, ma promuovere quei conflitti che facciano crescere gli uomini e trasformino il nemico prima in avversario e poi in collaboratore necessario e prezioso. E il nemico  che va trasformato oggi è quello “che propone false mete, false coscienze, false solidarietà, false paci”. Questo nemico era nel ’90, più che in passato, rappresentato per lui dagli Stati Uniti (Egli, in altra occasione, li definì un “regime abietto…da quarant’anni nemico del genere umano”).

 La sua critica coinvolge ora anche le posizioni di sinistra che considerano azione politica valida solo quella che si svolga nella metropoli, al “massimo livello di sviluppo produttivo”; e quindi dove la “realtà tecnologica del capitale internazionale che si esprime essenzialmente nella forma che noi chiamiamo americana” si è già affermata.

 Queste posizioni, secondo Fortini, accolgono senza andare per il sottile il “progresso tecnologico con tutte le sue conseguenze anche quelle che si possono prevedere aberranti o pericolosissime”, perché condividono con il nemico una morale “da signori”, basata sull’accettazione della “virile durezza della realtà” e, come i signori, disprezzano quanti nel mondo “non tengono il passo”, rimangono indietro, sono schiacciati dalla macchina” (vivono nella morale “del servo”).

Egli fa i nomi di Tronti, Asor Rosa, Negri e Cacciari e collega questa tendenza al trotzkismo.  Contro di essa scrive un articolo fortemente  polemico (Filoamericani di sinistra: colonizzati  e contentiil manifesto 3 mag. ‘91) respingendo l’illusione di una “superiorità della cultura e della tradizione occidentale”, dannosa e  facilmente, come possiamo vedere, preludio a soluzioni belliche.

Altri interessanti spunti sono sparsi in due recensioni: una a Türke, Nel sottoscala del diritto, la violenza della ragion di stato (il manifesto 21. giu. ‘91), la cui meditazione sulla violenza affrontava la “verità insostenibile del fondamento violento di ogni ordinamento civile”, compreso quello democratico; ed una ad un libro di sociologia delle comunicazioni (Rossella Savarese, Guerre intelligenti) dove  veniva denunciata la complicità inconfessata fra i consumatori e i produttori di informazioni e l’apoteosi del processo di de-realizzazione, che nella guerra del Golfo del ‘90 aveva raggiunto una “limpidezza iperrealista  o postmoderna”.

Ma ci sono anche altri interventi chiarificatori. In particolare ne La guerra in Europa (1993), pubblicato postumo in Jugoslavia perché, Gamberetti, Roma, 1995, ora in L’ospite ingrato, 2, 2003, Fortini  riassume e sembra condividere una serie di tesi  in circolazione  a partire dalla guerra del Golfo: fine delle guerre fra stati sostituite da operazioni di polizia, nascita di un “Impero unico e onnipotente”, svuotamento degli organismi internazionali divenuti agenti dell’unica potenza statunitense, rischi di distruzione fisica ed economica di una “parte anche grande del genere umano”, gestione dei mezzi d’informazione in modo da persuadere “una buona parte del mondo che una guerra del Golfo non c’era mai stata”. Ed arriva ad affermare “la fine tendenziale della nozione di imperialismo” e la costruzione di un potere distruttivo e coercitivo che “non si era mai dato nella storia del genere umano”.

Quarto intervallo: l’”ironia lacrimante” delle Sette canzonette del Golfo      Anche in occasione della prima guerra del Golfo, la riflessione di Fortini sugli avvenimenti è passata in poesia. Ne sono nate Sette canzonette del Golfo, una sezione di Composita solvantur, ultima raccolta edita dal poeta in vita, nel 1994, anno della sua morte. Ne vorrei parlare confrontandole con  la sua prima raccolta, Foglio di via, per cogliere il contrasto fra gli inizi e la conclusione della sua produzione poetica.

Si nota subito che gli elementi elegiaci di Foglio di via, come abbiamo visto, erano immersi in un contesto tragico ma carico di speranze collettive e fraterne, mentre quelli delle Sette canzonette del Golfo trovano intorno una situazione di solitudine e  di  sgomento e Fortini deve affidare all’ironia la sua non rassegnazione e la sua più solitaria speranza.

    Ne Il poeta di nome Fortini, Lenzini ha messo in vista tale contrasto. Una “situazione d’attesa”,  la tendenza alla “coralità”, la presenza esemplare dell’immagine femminile – si tratta di una donna proletaria (A un’operaia milanese), una sorta di “angelo–nunzio della prossima liberazione”, accostabile anche al fanciullesco ladro di ciliegie  di Brecht e alla quale viene attribuita una funzione catartica e salvifica – caratterizzano Foglio di via: “un’umanità nuova” sembra annunciarsi.  Temperie storica e prospettiva “trascendente” si compenetrano. Brecht e Noventa, due degli autori di riferimento di Fortini,  si danno la mano. Tutta al singolare invece, calata in un privato di solitudine carico di sarcasmo, è la vena poetica delle Sette canzonette del Golfo. Assente ogni figura femminile, qui si ironizza amaramente sulla pace del vecchietto, una pace tra l’altro non conquistata, ma concessa dagli dei e che può  allietare solo chi si contenta di poco.

Questa falsa pace, contro la quale il Fortini “terzomondista” mosse tante volte le sue critiche, si consuma mentre “lontano lontano si fanno la guerra» e il «sangue degli altri  si sparge per terra”. Ma ora  questa lontananza sembra insuperabile dagli apatici occidentali: allarmati, essi si succhiano il dito che si sono punti durante qualche faccenduola casalinga, concedendo un pensierino alla guerra che li coinvolge quanto una storia a fumetti.

Una sproporzione abissale si è imposta fra fatti quotidiani e fatti storici. La “derealizzazione” è compiuta. Quel filo rosso che legava negli anni Sessanta la lotta del Vietnam alla possibile lotta di classe in Occidente si è spezzato. Fra socialismo e barbarie sembra abbia vinto proprio quest’ultima.

E la poesia? Essa non soltanto ha perso la benefica figura proletaria dell’operaia di Foglio di via, rimpiazzata dalle immagini scostanti di adolescenti ben nutriti e gaudenti di Aprile torna (“Godono pepsi cola ignude gole”), ma anche il ritmo percussivo e corale della prima raccolta.  Quello qui dominante sembra farsi “ninna-nanna per l’addormentamento, narcosi e ebetudine procurata” (Lenzini).

Come può un poeta ormai isolato, che vive in Occidente, indirettamente complice e beneficiario della “vittoria democratica” armata conquistata in Irak, piangere i morti arabi fatti da Usa e alleati occidentali, se nel suo paese contro le “guerre umanitarie” è venuta meno un’opposizione politica e la maggioranza dei suoi concittadini è favorevole alla “guerra giusta”? La sua poesia ormai non serve neppure come guanciale per i morti (“Potrei sotto il capo dei corpi riversi / posare un mio fitto volume di versi?”).

Vale la pena di notare, per contrasto, che di fronte alla prima guerra del Golfo uno scrittore arabo, sia pur molto “occidentalizzato”, come Ben Jalloun riconosceva ancora un alto valore civile alla poesia. Nel presentare un suo poemetto proprio su quella guerra del ‘90, Dalle ceneri, egli scrisse infatti: “La poesia s’intestardisce a dire. Il poeta grida o sussurra: sa che tacere potrebbe sembrare un delitto, un crimine”. Per Ben Jalloun la poesia, prendendo la parola “per gli insepolti, gli scorticati, gli impiccati, quelli gettati nelle fosse comuni”, ancora serve.

Il confronto non suoni irriverente verso Fortini:  egli fissa lucidamente come si è ridotto  nella gabbia del privato l’uomo occidentale post-comunista in questo fine secolo, qui, da noi. Una poesia epica o una poesia “civile” non ha senso dove l’epos e la civiltà vengono meno. E forse, dai tempi bui che stiamo vivendo, possiamo solo guardare altrove, come  il giovane Fortini guardava a “una folla di sconosciuti fratelli maggiori” nell’Europa sconvolta dal nazismo.

     Le Canzonette del Golfo sono pienamente integrate nei componimenti di Composita solvantur? O svelano sotto la loro ”ironia lacrimante” (l’espressione è di Fortini stesso) elementi più amari e pessimistici rispetto agli Otto motivi contro la guerra visti sopra o, in generale, rispetto alla visione marxista della storia?

L’ultimo Fortini suscita ancora una volta giudizi contrastanti. Luperini, ad esempio,  ha visto nelle Canzonette del Golfo o, più in generale, nella posizione di Fortini su questa guerra un abbandono del suo ottimismo storico sociale e un suo  finale accostamento a motivi ricorrenti e addirittura portanti del discorso di Sebastiano Timpanaro (Luperini, Ricordando Timpanaro, in L’ospite ingrato 2001-2002).

Per Lenzini invece, proprio nel momento più tragico, Fortini è ancora capace  di “ricerca e slancio utopico”, perché il suo pensiero dialettico sa che all’aumento della negatività e dell’oppressione corrisponde sempre lo sviluppo di “altro”.

Edoarda Masi ha ricordato che Fortini (come Lu Xun) ha sempre ironizzato sulla poesia, anche se per lui era in realtà la cosa più importante; e ritiene che  le Canzonette non siano affatto in contraddizione con il suo “proteggete le nostre verità”.

E Composita solvantur, anche secondo il parere di Rossanda, è una  piccola summa del pensiero fortiniano: “è come se avesse voluto tenere assieme una parte delle avanguardie del passato, il meglio del ’68 e il soldato sovietico che, sotto l’avanzata tedesca, grida ai compagni: non possiamo arretrare” (Rossanda, Ospite ingrato 1, pag 169)

Anche per me le Canzonette del Golfo  non sembrano una caduta dell’ultimo Fortini e stanno sullo stesso piano di Composita solvantur . Eppure mi pare che resti il problema d’intendere meglio l’accento in qualche modo diverso non solo  delle Canzonette ma di Composita solvantur rispetto alla precedente produzione. La poesia, anche in questo caso, aggiunge o toglie qualcosa alla prosa.

Non posso che riecheggiare dubbi e impressioni non solo miei e indagare con cautela. Si tratta solo di finzione poetica che, quasi temendo di essersi lasciato troppo andare,  Fortini  in un’appendice autocritica (Considero errore) metta sotto accusa la propria “complicità con avversari e interlocutori” delle Canzonette?

E se davvero la poesia è stata per Fortini la cosa più importante, come trascurare la sua tenacia per tanti anni a «mostrare a dito i limiti della poesia» o dichiarazioni come questa:«Non posso sapere quanto l’esitazione fra i due fantasmi del sé – quello che si rappresenta nell’atto poetico e quello che si figurava in un modo di essere piuttosto che in quello dello scrivere – abbia leso uno dei due o tutti e due» (Memorie per dopo domani, pp. 27-28) ?

A me pare che la coincidenza  fra la malattia che portò alla morte lo scrittore e l’esaurimento della prospettiva comunista in cui aveva lavorato per tutta la sua vita gli imposero quasi contemporaneamente un alt. Composita solvantur mi pare che registri quest’ultima cesura individuale e collettiva assieme: il futuro per la prima volta nella vita di Fortini era da affidare completamente e soltanto ad altri. I progetti che aveva composto per una vita erano minacciati. Non una “svolta”, dunque, non un ripiegamento sul materialismo timpanariano e tantomeno un abbandono nichilistico. Ma neppure più la presenza di un’inalterata “ricerca e slancio utopico” o l’idea della trasfigurazione o della rinascita.

L’inquietudine fortiniana si arrestava. La morte imminente e personale,  sentita più che pensata, mi pare preponderante in tutta la raccolta. Essa disfa le cose composte (dal poeta, dagli uomini in lotta nel tempo storico) e questo scioglimento delle cose personali e collettive va accettato (sopportato). Ma da qui anche l’allarme, la raccomandazione data dal moribondo in punto di morte ai vivi. La sua opera personale è compiuta. Il nuovo ordine sociale è più che mai a venire. Possibile ancora? Impossibile? Non so pronunciarmi. L’appello “proteggete le nostre verità” consegna ai vivi quello che è da salvare, quello che ha contato per l’individuo e per la storia  degli uomini con cui ha vissuto, compresa la verità del comunismo. Ma solo, ancora più drammaticamente, come possibilità.

Concludendo: nella “guerra permanente” a dieci anni dalla morte di Fortini  Nel percorso che abbiamo compiuto abbiamo visto la costanza del ripudio fortiniano della guerra (inconciliabile con l’idea di rivoluzione socialista) e la varietà di toni che esso ha assunto nel tempo: speranzoso e corale nel 1946; assertivo e tendente all’estremo (dire estremista sarebbe una concessione imperdonabile agli avversari di allora e di oggi di Fortini) nel 1967  di fronte all’aggressione americana al Vietnam o a quella israeliana contro gli arabi; allarmato e sempre più amaro nel ’90 davanti alla Guerra del Golfo.

Si delinea così nelle sue opere quasi una parabola che va dalla fine della Seconda guerra mondiale all’attuale precipizio della “guerra permanente”  con in mezzo il picco alto di speranze degli anni Sessanta (Cina,’68-’69).

Dieci anni dopo la morte di Fortini, la nostra rilettura dei suoi testi viene a coincidere con l’acutizzarsi della tragedia di un Medio Oriente sempre più divorato dalle bombe. Gli Usa continuano pervicacemente ad imporre il loro monopolio militare e la guerra “è tornata al centro di uno scenario mondiale che non ha precedenti nella modernità” (Rossanda). Persino i giornalisti più filoamericani avvertono: l’incubo della terza guerra mondiale “è già in corso” (Pirani). E sempre più drammatica è diventata l’assenza di un’opposizione non puramente simbolica alla guerra, mentre  il dibattito politico si è arenato proprio su quelle posizioni  pacifiste, combattute dall’ultimo Fortini. Per lo più, infatti, viene teorizzato il “grande rifiuto della politica”: la politica è “figlia della guerra» ha sostenuto la filosofa Cavarero; è “un fallimentare rimedio al disordine del male” aggiunge Revelli.

Ora chi rileggesse il recente dibattito di LIBERAZIONE, La politica della non-violenza, dovrà ammettere onestamente che alla domanda posta da Ingrao alla sua apertura (“Come si risponde all’aggressione armata? Che cosa si fa contro la violenza armata dell’aggressore?”), le risposte, pur risalenti al ‘90 desumibili dalle posizioni di Fortini, specie dagli Otto motivi contro la guerra sono ancora oggi più lucide e meno elusive di quelle dei tanti intervenuti. (Anche se, personalmente, non mi sento di tacere dei dubbi:  ad esempio, cosa intendere in concreto per “una violenza con altri mezzi e senz’armi” o una “non-violenza eversiva”? In cosa essa si distingue dalla non-violenza attiva, di cui parla almeno una parte dei pacifisti? E ancora: d’accordo sull’”uscire dalla morale verso la politica”, ma oggi in concreto dove e come fare politica? Edoarda Masi, intervenendo su il manifesto, ha negato che la via da imboccare sia quella della politica in senso tradizionale. Bene. Ma il contributo di pensiero innovativo da lei auspicato da quali  soggetti   prevedibilmente potrebbe venire?)

Come mai, allora, tanto silenzio e disinteresse verso questi testi fortiniani e verso posizioni odierne (penso a Rossanda, alla Masi, a Tronti stesso) accostabili a quelle degli Otto motivi contro la guerra ?

 Si dirà che forse è sbagliato chiedere ai testi di Fortini del ’90 o  precedenti delle indicazioni politiche concrete e per una situazione ancora più deteriorata. O che egli non fu un politico puro.  Ma di sicuro in quei testi ci sono antidoti validi contro la cancellazione  della memoria storica di qualsiasi tradizione del comunismo, contro la sua riduzione a pura aspirazione o nostalgia o contro l’annebbiamento ideologico del capitalismo, che sarebbe diventato soltanto un «enorme guazzabuglio» e   si sarebbe «annullato diventando tutto» (Sofri). E anche contro la riduzione della politica a «militarizzazione o ceto politico autoriproducentesi»  (Rossanda).

Dobbiamo sapere che tanto silenzio non è legato a fattori contingenti. Quello calato su di lui è in buona parte lo stesso silenzio che incombe oggi sulle “rovine” del socialismo/comunismo, di cui egli chiese invano negli ultimi anni di vita un “buon uso” da parte della Sinistra italiana.

E proprio perché “lo scandaloso Fortini è così intrecciato con la storia – non solo culturale e non solo italiana – del Novecento” (Bonavita) e la storia del Novecento è stata scossa dai tentativi comunisti, a cui egli legò le sorti della sua persona e delle sue opere, dobbiamo anche sapere che quel silenzio non si romperà, se  non si riporranno in forme nuove e per il momento incognite quei problemi affrontati nelle esperienze comuniste.

Nel frattempo le nostre riletture dell’opera di Fortini dovrebbero evitare le  trappole dell’imbalsamazione o dei dissezionamenti. Non mi pare possibile ritagliare la sua figura dal difficile ripensamento della storia del comunismo.

Qualcuno, però, potrebbe obiettare col cinismo oggi di moda: “Ma dai, Fortini sarà stato comunista, ma il comunismo è morto, quindi anche una parte di Fortini è morta. Salviamo il poeta, il saggista intelligente, il polemista acuto; e lasciamo da parte il suo comunismo, il suo abbaglio, la sua fede. Viva è la sua poesia, come viva ancor oggi è la poesia di Dante.  Morta è la sua ideologia, come morto è il cattolicesimo di Dante”.

Direi  che bisognerà respingere questa semplificazione: troppo essenziale è, a mio avviso, quel legame fra Fortini e la vicenda comunista del Novecento, pur da lui declinata esistenzialmente in modi particolari. Un Fortini poeta e basta, un Fortini senza la sua volontà di essere comunista, da collocare in un contesto modernizzato e ipertecnologico  sarebbe  una decorazione, come lo è stato Dante in epoca moderna.

Meglio, allora, che resti anche lui un marziano: inattuale,  classico, ecc. piuttosto che alloggiato nei loculi predisposti per i “cattivi maestri” su Internet. Se arriveranno dei marziani comunisti, lo riconosceranno e tornerà a parlare.

Ennio Abate 6 settembre 2004