E distolse gli occhi

 

di Arnaldo Éderle

E distolse gli occhi dalle care immagini
della parete sinistra e li rivolse
all’armadio grande che sta di fronte al letto.
Quella era la posizione che teneva sdraiato
com’era nel suo ampio letto con la testa appoggiata
a due cuscini. Da lì poteva guardare tutta la
camera e, come un immobile, godere della sua
ampia visuale.
Questo accadeva durante la gravissima malattia
che lo riduceva nel suo comodo letto
come una pera staccata dal suo ramo
dopo una fetta di convalescenza senza forze
sufficienti ad accendere un accendino e tirare
una soave boccata della sua amata sigaretta.
Succedeva una tristissima sera di Maggio.
Ero solo, senza la mia amatissima Tommasina
rimasta a casa sua a causa della sua povera
gambina,
non poteva camminare, era segregata
nella sua ampia casa da sola, poverina.
Io ero qui altrettanto povero e solo con i miei
poveri talloni piagati dalla orribile degenza
nel letto dell’ospedale.
Che disgrazia! Dio solo sa come me la potrò cavare
io, no di certo.
Ma lei cosa c’entrava con le mie malefatte?
Nulla, mi sembra, nulla. Ma vada se le
disgrazie non arrivano mai da sole, almeno
una coppia.
Diranno che è una prosa camuffata da poesia,
ma a me che m’importa, questo è il fatto
del resto non me ne frega niente.
Ogni tanto guardo il mio nuovo orologio da polso,
me lo regalò Tommasina, è bellissimo e della misura
del mio polso rinsecchito.
E’ il fatto e del resto, ripeto, non mi frega
niente.
Io scrivo in versi, il resto nulla nulla di nulla,
che si facciano benedire i ciacoloni, gli scemi,
i regolari, a me interessa scrivere e se io scrivo
in versi, e sia! Vuol dire che chi mi legge andrà
a capo più volte, che importa? Una fatica in più,
io non ho fatto nessuna fatica, anzi per me
è stata una gioia.

Ecco che dico: una gioia come tutte
le volte che scrivo, quando una lucciola
si accende nella mia povera testa
e la illumina parsimoniosamente e la fa
gioire di gioia e illustra il circostante.
Sì, è una vera festa qualunque sia la cosa
che devo narrare nei miei versi.
Tommasina mi dice: scrivi e io allora
scrivo, ma a lei non importa se scrivo
in versi o in prosa, lei vuole
solo che scriva e le passi poi una copia
di ciò che ho scritto. Che donna,
un po’ pesante talvolta ma sempre
immensa nella lingua e nella parola.
La parola…L’avevo quasi dimenticata
nella mia malattia, grave, lo dico ancora
l’avevo quasi dimenticata. Ah parola
parola, che sei! Un apostrofo
un punto esclamativo, non so, un punto
che ne aspetta un’altra come lei
una compagna di festa un’altra gioia
un suo completamento un’altra ghirlanda
a completare la corona di fiori
appena in via di composizione come
un fioraio che la compone con tutto
l’amore che ha.
come ho fatto a dimenticarla?

La mia testa non c’era più e neanche
il mio cuore. Povero me! Ma che c’era?
So che mi hanno tagliato un pezzo di
stomaco. Chissà come me l’hanno riattaccato
alla pancia. Non lo saprò mai, d’altra parte
non mi interessa neanche un po’, m’interessa
che la testa sia dov’era prima, con il suo
cervello e le sue luci ed ombre e il suo
flusso informatico e variopinto:
la sua lanterna magica.
Che bell’orologio che ho al polso,
Tommasina me lo ha regalato, ricordate?
Che bel regalo! Lo guardo sempre anche quando
non mi interessa l’ora. Ma ora sono stanco,
tornerò.

Sì, volevo tornare alle mie strane
allucinazioni, credevo d’essere volta a volta
in un luogo diverso, diverso in tutto
la stanza i pochi pazienti che vi giacevano
qualcuno urlante gli altri no e io che volevo
scendere dal mio letto e andarmene, senza sapere
che le mie gambe non mi avrebbero sostenuto,
senza conoscere i passi della mia esistenza,
senza sapere che gli uomini passano giornate
nei letti degli ospedali come povere pere
staccate dal ramo e lì soffrono incoscienti
le pene dell’inferno con poche decine
di chirurghi che si danno d fare
per salvar loro la vita, ma che importa
sapere queste cose! Quando sei via di testa
non sei più nulla se non uno strano
oggetto disteso in un chirurgico letto
nelle mani, spesso sante, di altri uomini
che hanno pietà di te, preda involontaria
dell’assalto dei microbi che fanno festa
a tue spese e ti riducono come uno
straccio incapace d’essere più un uomo,
solo un uomo com’eri qualche minuto prima.
Che importa s’eri bravo o incapace,
la carne sta lì priva di volontà di
voglia di vivere, e il vivere non lo ricordi
più. Oh, mio povero vivere, come
ti sei ridotto, sembri un lurido

verme bianchiccio senz’anima né corpo
senza occhi senza lingua senza battito alcuno
dentro il torace o in qualsiasi altra
sezione del tuo corpo, come un uccello mal
nato che a terra sbatte senza alcun risultato
le povere ali nella polvere. E ci sono solo
due cose che potresti fare. O lasciarti
morire o lasciare che i chirurghi
facciano il loro dovere e poi ricominciare
tutto d’accapo. Che nausea questo concetto.

Ma devo farmi fare almeno la barba,
forse risulterò meno simile all’orribile uomo
delle nevi. Almeno la mia faccia
somiglierà più
all’uomo che ero prima.

8 pensieri su “E distolse gli occhi

  1. …in effetti uno scritto “meticciato” questo di Arnaldo Ederle, tra poesia, prosa e drammaturgia. Alla lettura mi è giunto come il lungo soliloquio di un uomo malato in un letto d’ospedale, quando il corpo diventa un universo esigente ed escludente e il senso di impotenza come l’autocommiserazione e la rabbia si fanno facilmente strada nei pensieri…Ma si manifesta forte anche il desiderio di ripresa, un istinto di sopravvivenza automatico: la volontà di radersi per rendersi presentabile, l’attaccamento all’orologio per il suo valore affettivo…E resta il poeta di fondo, quello che fa pensare : “Ecco che dico: una gioia come tutte/ le volte che scrivo, quando una lucciola/ si accende nella mia povera testa/ e la accende parsimoniosamente e la fa/ gioire di gioia e illustra il circostante”, come una piccola fiaccola irriducibile…

  2. Sei favoloso, Arnaldo! E scrivi in prosa, ma non te ne frega niente perché scrivere è gioia, una parola alla volta “un punto
    che ne aspetta un’altra come lei
    una compagna di festa un’altra gioia
    un suo completamento”
    Perché interessa la testa, che sia dov’era prima, che riassume e prescinde dal corpo che la assale.
    Quindi auguri di guarire presto!

  3. Questo testo mi tocca personalmente in modo molto profondo: la malattia, da un lato, l’ospedale e tutto quello che comportano, come nel mio caso, cure benedette e insieme devastanti di cui pago ancora il prezzo. E dall’altro, scrivere, perché è il gioco delle parole, e le parole sono la nostra vita, e non ce ne frega niente per davvero che sia o non sia poesia, eppure ogni tanto sentirsi dire “tu scrivi pensieri”, come se i pensieri fossero una cosa senza valore. E magari i miei a volte lo sono pure, ma lasciatemi, lasciateci. pensare e “giocare” in pace.
    Grazie.
    luciana riommi

  4. Grazie Luciana per il tuo bel commento amico. Sono pienamente d’accordo con la
    tua idea che “i pensieri” siano una cosa importantissima nella testa di un uomo. E
    perciò non mi tiro indietro nell’esprimerli, siano essi poesia o prosa. L’importante è
    esprimerli, siano o no “creazione”, siano o no “poesia”. Grazie ancora Luciana e a risentirci presto. Arnaldo Ederle

  5. Cara Luciana, ti ringrazio ancora per le tue belle parole. Scrivi, scrivi ancora. Le tue parole rinfrescano il cuore, le leggo ogni volta che apro il computer. Ne sono entusiasta.
    Ciao Luciana e altrettanto auguri per te. Ti saluto ancora con u abbraccio. Ciao, ci sentiamo ancora. Arnaldo

  6. Decisamente più prosa che poesia, malgrado la forma. E’ possibile che, come ha osservato Annamaria Locatelli, la componente drammaturgica faccia la differenza: pensare questo testo teatralizzato, potrebbe conferirgli un valore aggiunto.

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