di Arnaldo Éderle
La tremenda storia della Russia invasa dalle divisioni di Hitler viene narrata attraverso un duplice filtro: il racconto di una donna russa, Anastasia, e la rielaborazione dell’autore italiano, che la riporta incantato come un bambino-poeta. Veniamo a sapere della bella, piacevole e pacifica vita di ricchi contadini e dell’orrendo spettacolo di cadaveri tra la neve. Il prima, il poi…Le ragioni della guerra? Questa poesia non le sfiora. [E. A.]
Mi diceva Anastasia che i suoi parenti
siberiani erano molto ricchi,
russi con tanti rubli che investivano in
elargizioni volontarie alle loro famiglie che
spesso vivevano in Moldavia e lì passavano la loro
pacifica esistenza in grandi gruppi con
sette otto figli e case grandi e qualche volta
difese da forti e pacifici cani come il suo
che era anche vecchio e buono e si muoveva piano
nei loro caldi giardini pieni di fiori
e succulente piante che dentro casa friggevano
e mangiavano di gusto.
Nei loro grandi quartieri nei loro proletari
palazzi i figli non erano mai meno di sette
otto e il nonno era il padrone di casa, alto
e pieno di buon senso, e avevano cantine immense
colme di fiaschi di ottimo vino rosso come
il sangue.
Mi diceva Anastasia che erano
nate queste famiglie russe in Siberia,
ma non erano prigioniere erano RUSSE,
e loro, liberi proprietari terrieri e di grandi
case larghe, con stanze dai soffitti
alti affrescati, che troneggiavano
su enormi pareti ed enormi finestre e porte-
finestre con tendaggi damascati.
Rossi.
Che meraviglia! Che meraviglia! Che grandi
opere, e tutti i membri delle famiglie
collaboravano a renderle felici
e facevano tante risate dopo un buon
bicchiere di rosso con gran manate sulle
spalle. Erano grandi combriccole allegre.
Che buona pasta i russi che cordialità
che gaudio campagnolo!
Il padre raccontava le sue imprese guerresche
i suoi lunghi viaggi a piedi per le lande
prima di giungere nelle sue terre. Quella
volta erano in due che fuggivano dai tedeschi
in un viaggio di numerose verste per
raggiungere le loro grandi case e famiglie
con l’enorme volontà di rivederli. Una volta
il padre giunse con un compagno, tutti e due
condannati dai tedeschi a morire nel
nome di Hitler nella tragedia che coinvolgeva
migliaia di soldati russi. Ma loro
la scamparono e di notte arrivarono
nella loro grande casa e lì finalmente
riposarono. I piedi erano tormentati da forti
dolori quasi insopportabili. Alla fine finirono
la loro interminabile giornata sdraiati
nei loro letti e non si alzarono che la sera
del giorno dopo.
Ora tenterò di raccontare la loro vita
pacifica in queste grandi case dove abitavano.
La sveglia dei grandi era all’ora del gallo,
ancora con gli occhi rossi di sonno
andavano nell’enorme giardino e lì controllavano
le sementi piantate tempo prima e raccoglievano
i loro primi risultati nei fiori appena
fioriti e nelle bacche che crescevano
rosse sotto grandi foglie d’un verde
corallino, e noci dalle querce per frantumarle
nei vasi di pietra posati su tavole di legno
che ornavano le capienti cucine.
Tutti lavori da contadini svolti da signori
in marsina con copricapo da principi o, di sicuro,
da dignitari di corte. Che strano paese la
Moldavia. Quella era una sottocapitale
una lontana Mosca vista con un cannocchiale
moldavo.
I piccoli correvano attorno agli alberi
e giocavano ai guerrieri con piccole lance
e spade di legno gridando i loro “Avanti!”
Piccoli grandi rappresentanti delle provincie
Moldave, erano i figli della grande piccola Moldavia,
la nazione unita nella loro costante
pace che onorava il comandamento di Dio
e costantemente pregava per la pace continua
che le persone in buona fede onoravano
costantemente.
Nessuno aveva optato per la sanguinosissima
guerra, nessuno l’aveva pregata. Hitler
l’aveva invasa, la Russia, per il solito vizio
dell’Impero e lì aveva seminato i cadaveri
con i suoi micidiali cannoni e le infilzanti
baionette. Ma la neve russa era finalmente arrivata
a imbiancare le sue enormi lande, e il suolo
piano piano era divenuto bianco e il bianco
lasciava già spuntare alla sua superficie
elmi lucidi e punte di baionette tedesche
che punteggiavano il suolo come cimeli
di un terreno minato di cadaveri che avevano
ancora in bocca le sillabe della Deutscheland uber
alles. Lo spettacolo era a dir poco orrendo
e le armate rosse avanzavano ora tra le buche
dei cadaveri tedeschi.
Chi restava in quei paraggi, mi diceva
Anastasia, erano i resti
delle armate tedesche con gli occhi
bucati dei loro scheletri, niente più.
I due russi di cui parlavamo prima erano
dovuti passare da questo pietosissimo
cimitero prima di affrontare il calvario
della fuga. Poi, alla fine, dopo verste
di estenuante cammino, erano giunti
alle loro case.
La Moldavia era rimasta quasi inoffesa,
ma Mosca… già, era la Capitale!
Poi il sole russo ricominciò a splendere
sulle sue province e i loro abitanti
ripresero a vivere.
Molto bella. In quanto al fatto che non spiega le ragioni della guerra… non è detto che sia compito della poesia
La poesia non ha *compiti*, ma guarda caso certi poeti volgono lo sguardo altrove e c erte cosucce non le vedono.
Crederci fino alla fine.
Molto bella
Crederci? Ma ogni credo è anche accecamento.
Grazie a Marisa, le “ragioni della guerra” non le ho narrate, le lascio agli specialisti. Ho
parlato, nel poemetto, di ciò che mi aveva impressionato nel racconto di Anastasia.
Mi è bastato. Grazie ancora, cara Marisa. Arrivederci presto. Arnaldo Ederle
Il guaio è che gli specialisti certe cose non le vedono. E se non le vedono neppure i poeti, siamo combinati male.
Grazie Emilia! Arnaldo
…la narrazione poetica dell’antica Moldavia presentata da A. Ederle mi colpisce per il sapore favoloso, come spesso assumono i ricordi nella tradizione orale, quando ogni volta riferiti si arricchiscono di nuovi straordinari particolari: i signori contadini si dedicavano alla cura della terra in marsina e con copricapi principeschi…una Terra prospera e sacra, degna solo delle mani di re…Nella tradizione popolare contadina, penso, sia presente questo tratto comune, visto che mia nonna pugliese nata nell’ ‘800 parlava della “sua” terra, ma anche del “suo” mare negli stessi termini favolosi. In genere racconti di persone che poi conobbero miseria e fame, migrazioni e sconfitte, ma conservavano una sorta di mito delle origini…A. Ederle non parla delle cause della guerra, ma forse li sintetizza quando scrive: “Hitler/ l’aveva invasa, la Russia,, per il solito vizio/ dell’Impero…”
Toh, persino Linguaglossa si sveglia dal torpore heideggeriano e si pone la domanda che i poeti rifuggono:
La decadenza dell’Italia. Che Fare?
https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/12/10/il-mattino-dellacmeismo-nel-1919-viene-pubblicato-il-terzo-manifesto-dellacmeismo-scritto-da-osip-mandelstam-1891-1938-prima-traduzione-integrale-in-italiano-a-cura-di-donata-de/comment-page-1/#comment-44303
Il recentissimo Rapporto del Censis descrive l’Italia come un paese affetto da «sovranismo psichico, incattivito» e in via di impoverimento. Ho scritto a mio fratello stamane una risposta in 10 punti della situazione del Paese.
caro Sergio, ecco i mali di cui è afflitta l’Italia in 10 punti:
1) Ascensore sociale bloccato
2) Ricchezza diseguale
3) I poveri sempre più poveri e i ricchi sempre più ricchi
4) Stagnazione endemica, o peggio, recessione economica stabile
5) Scarsissimo senso della comunità e dello Stato
6) Individualismo sfrenato
7) Scarsissima educazione civica
8) Tribalismo sociale
9) Tribalismo totemico verso il Potere
10) Servilismo sociale
A questo punto, non posso che prendere atto della decadenza economica, culturale, sociale, valoriale del Paese che dura almeno da quaranta anni ma che in questi ultimi anni sembra essersi aggravata. In questa situazione, la poesia italiana non sembra in grado di dire nulla di significativo, e infatti produce una poesia ombelicale almeno da cinquanta anni a questa parte, anch’essa riflette il degrado economico, civile e valoriale del Paese. Gli ultimi dati statistici ci consegnano un Paese in recessione economica, talmente sfibrato e disilluso che qui da noi non è neanche immaginabile una rivolta popolare come quella dei Gilet gialli avvenuta in Francia. E allora, Vi chiedo: Che fare?
[…]”la nazione unita nella loro costante
pace che onorava il comandamento di Dio
e costantemente pregava per la pace continua[…]
Nessuno aveva optato per la sanguinosissima
guerra, nessuno l’aveva pregata. Hitler
l’aveva invasa, la Russia, per il solito vizio
dell’Impero[…]
Meglio e più icasticamente non può esser detta la antichissima lotta fra carnefici e vittime, fra aggressori e aggrediti. Ederle ha fatto perfino di più: prende congedo definitivo dalla poesia-racconto in ciò che ancora si dice ‘stile novecento’, supera le strettoie del tempo pre-moderno pavesian-pasoliniano e giunge in punta di piedi a questa epoca in forma di favola, senza sottrarsi alla crudeltà della Storia emergente in tutta la sua portata di tragedie e nefandezze, come si gusta leggendoli e rileggendoli i versi riportati nell’incipit del mio commento. Ederle poi con una lingua sua, unica e inimitabile, ci fa tornare in questa sua prova al piacere della leggerezza, ma della leggerezza del colibrì e non della leggerezza vacua della piuma.
Il poemetto epico di Ederle è nitidamente introdotto dalla freschissima nota a firma e. a. (immagino che le iniziali stiano per ennio abate). Un ottimo lavoro poetico, bel confezionato peraltro e ripeto ben introdotto, senza ridondanze e parole superficiali.
Una lettura finalmente davvero arricchente. [scrivendo estemporaneamente domando perdono per eventuali refusi..]
Gino Rago
Invito alla lettura di una mia nota sul libro di Sabino Caronia La consolazione della sera,
nota nel corso della quale tento di far emergere l’importanza (decisiva?) dell’incipit come “scossa elettrica” verso il lettore. L’incipit cui sia Arnaldo Ederle, sia Ennio Abate, annettono l’importanza che esso merita
ecco link
https://lapresenzadierato.com/2018/12/05/sabino-caronia-tra-filocalia-e-misticismo-della-perfezione-nel-suo-addio-al-novecento-in-la-consolazione-della-sera-schena-editore-2017-a-cura-di-gino-rago/#comments
Grazie,
Gino Rago
Caro Gino Rago, la ringrazio molto del bel commento dedicatomi e mi auguro di rileggerla presto. Un caro saluto. Arnaldo Ederle
Non mi piace che una poesia sia dichiarata da chi la legge (o la scrive) bella o molto bella (giudizio sempre soggettivo) se ci si rifiuta di motivare il proprio giudizio.
Non mi piace che alle mie contro-obiezioni (a Marisa, a Emilia, a Arnaldo) segua il silenzio.
Non mi piace che i poeti scantonino di fronte alla realtà ( la crisi, le guerre). O che i lettori giustifichino il loro vizietto di scantonare. (Come fa anche Annamaria scrivendo: « Ederle non parla delle cause della guerra, ma forse li sintetizza quando scrive: “Hitler/ l’aveva invasa, la Russia,, per il solito vizio/ dell’Impero…”»).
Non mi piace che Gino Rago:
– scriva che: « Meglio e più icasticamente non può esser detta la antichissima lotta fra carnefici e vittime, fra aggressori e aggrediti» citando versi di Ederle, in cui io scorgo approvazione del nazionalismo («la nazione unita nella loro costante/ pace») e del connubio perverso tra religione e potere («onorava il comandamento di Dio»);
– squalifichi «la poesia-racconto» affibbiandole l’etichetta di «stile novecento» o confinandola in supposte «strettoie del tempo pre-moderno pavesian-pasoliniano»;
– sorvoli diplomaticamente sul tono critico della mia veloce introduzione a questo poemetto; o mi annetta alla schiera degli apolegeti dell’ importanza dell’«incipit» su cui non mi sono mai pronunciato.
Dichiarato il mio dissenso, fatevi pure tra voi tutti i complimenti che volete.
P.s.
Resto convinto che la poesia non abbia compiti prestabiliti ma le sue parole, sia quelle riferite alle cose belle che agli orrori e alle tragedie storiche, vanno commisurate a bellezze ed orrori .( Nel caso della seconda Guerra mondiale e allo scontro tra nazismo e comunismo sovietico trovo del tutto generico l’accenno:“Hitler/ l’aveva invasa, la Russia, per il solito vizio/ dell’Impero…”»).
Lo scontro tra noi è tra una visione della poesia (apparentemente) senza vincoli o senza “compito” ( o col solo compito di essere poesia o di seguire la cosiddetta “ispirazione”) e una che dichiara e approfondisce i problemi che nascono dal riconoscersi vincolata (alla storia, alle tradizioni, ai poteri, alle ideologie, ecc.).
caro Ennio, senza alcuna pretesa di rispondere ai problemi ( corretti ) che tu sollevi allego questa mia lettura sul tema, frutto di diverse visite di circa 15 anni fa.
Moldavia
A tratti piove sopra lo struscio cittadino
nelle provincia di confine a est, e palpi
nell’aria la mestizia delle donne accovacciate
sui gradini, l’abbandono dei vecchi appisolati
accanto alle catene delle scarnite vacche
al pascolo su terreni rasati dalla capre
e dai cavalli dalle zampe impastoiate.
Nella domenica la strada si distende piana
tra le querce , sotto nuvole alla Constable
s’allarga una pianura dove l’occhio annega
fluttua dentro lo spazio e poi fonde l’infinito
con lo sfarzo dei girasoli che sfumano
nel grigio perla dell’orizzonte basso
e poi carri, carri dalle ruote disassate
che ondeggiano nell’occhio che le osserva
portando in viaggio un mondo al quale
stanno murando i più sperduti accessi
ove la povertà nasconde dietro un velo
i molti desideri indotti e insoddisfatti.
Nella regione più a est del vecchio impero
consuma la sua vendetta, l’Occidente,
dentro questo anfiteatro commerciale di cemento,
di vetri e riflettori da Yankee Stadium o Coliseum
mentre lungo le spiagge di quel mare che ascoltò Ovidio
scavallano miriadi di push-up a balconcino
che sognano lussi sardanapaleschi
per essere affrancate da salari da Bangla-Desh.
La capitale ( Mall )
.
E’ questa la rivalsa per gli anni del silenzio
dietro il MURO, per le merci un tempo inesistenti,
i cessi in comune coi vicini, le notti oscurate
all’imbrunire, e per quella gioventù pioniera
a lungo offerta in olocausto all’IDEA.
Tracima il lusso da dietro le vetrine lampeggianti
e si dimena la cantante dal nome verginale
dentro una MTV che scivola ininterrotta
e fascia il mondo di bisogni mai avuti.
Qui la tigre asiatica nasconde l’antica nostalgia
di convertire al credo ma senza le guardie rosse,
offrendo merci prodotte da salari a costo zero,
e piega adulti e adolescenti a divorare avidamente
cosce di galline allevate nell’ oriente estremo
e poi vendute dalla multinazionale del pollo fritto
del Kentucky , o da quell’altra con la grande M.
non ci sono ” compiti propri” della poesie:la poesia è solo un linguaggio,forse un pò più complesso dei linguaggi “normali”,ma i poeti hanno doveri verso se stessi e verso la società in cui vivono .tra questi doveri c’è certo quello di capire le radici della guerra per evitare che si ripeta.certo la guerra,come tutti gli altri disastri sociali,ha origine nella diseguaglianza tra gli uomini e tra i popoli.ma la diseguaglianza spesso ma non sempre dipende dala volontà degli uomini: si nasce diversi e questo non possiamo evitarlo.però si può esser consapevoli che ognuno è un membro della grande famiglia umana dove uno dei valori più alti è la solidarietà ( o ,se si preferisce,fraternità) E allora ognuno dovrebbe esser consapevole di dover dare secondo le proprie capacità e ricevere secondo i propri bisogni. Capisco che è facile da dire ma che in tanti millenni gli uomini non hanno mai agito secondo questa regola pur così tanto semplice,ma ora siamo giunti al punto in cui una guerra potrebbe distruggere l’umanità intera e comunque ogni conflitto ha conseguenze molto gravi per numeri innumeri di persone.
per quanto riguarda la poesia di Ederle io non so giudicarla perchè sono legato a vecchi schemi che comportano una grannatica poetica fatta di di ritmi e di figure che in questa poesia non ritrovo:dire che bisogna seguire l’ispirazione è facile ma significa considerare una lingua non come strumento di comunicazione,ma solo come sfogo individuale.
….certo questa poesia non è una fonte assoluta di conoscenza e di ricostruzione della tragica campagna di Russia, ma A. Ederle già nel titolo e poi tre volte nella narrazione poetica scrive ” Mi diceva Anastasia…”, che, a sua volta e in vari punti, riferisce la testimonianza del padre: ” il padre raccontava le sue imprese guerresche …” (imprese!!) Quindi una narrazione di fatti doppiamente mediata e segnata dalla lontananza con gli stessi…Inevitabile l’intervento di una forma di deformazione tutta soggettiva della realtà. Ma anche nei racconti favolosi ( le imprese guerresche! riferite dal padre) si ritrova un fazzoletto di storia vissuta…Quel cimitero di morti…Si consultano i libri di storia, le fonti e le testimonianze ufficiali, ma si ascoltano anche i racconti dei vecchi…E’ vero che qualcuno, tra essi, preferisce non farlo: troppo difficile e traumatico: la guerra non sarà mai un’impresa eroica… ci vorrebbe un B. Brecht
Caro Ennio, sì, è vero che della storia politica non mi interesso molto. Ma è altrettanto vero che io sono soltanto un poeta che esprime sulla carta visioni e assunti che riguardano (quasi sempre) elementi estetici nella mia narrazione, e non valutazioni
scientifiche (o quasi) della Storia delle varie vicende umane, o sotto-umane, dei popoli, al massimo posso inserire una “battuta” come “il solito vizio dell’impero”.
Le tue valutazioni sulla mia poesia dovrebbero tenerne conto, penso. Sempre in amicizia, Arnaldo.
Caro Arnaldo,
criticabile (per me) è proprio la tua candida affermazione: “io sono soltanto un poeta”. Come se ci fosse un unico modo di essere poeta. Come se – diciamolo – il *vero poeta* fosse quello che non si interessa alla politica, alla storia o alla storia politica. O, come tu scrivi, “esprime sulla carta visioni e assunti che riguardano (quasi sempre) elementi estetici”.
E’proprio su questo il mio dissenso ( e non certo solo con te). Gli “elementi estetici” (o le parole o le figure o la stessa sintassi), che il poeta usa sono intrisi di politica, di storia, di storia politica, di ideologia, etc. E, dunque, quelle sue visioni o assunti non sono neutri mai. Lui *fa politica anche quando non parla esplicitamente di politica*. Anche quando parla di un fiore. Solo che lui finge di non saperlo. E in questa finzione lo aiuta una pigra visione della poesia, che gli offre il velo della bellezza o del piacere estetico per occultare la *politicità* del linguaggio che usa.
La questione mi sta da sempre particolarmente a cuore e perciò insisto, anche se so di non trovare simpatie.
Qui di seguito brani di una lettera del 2005 a un poeta milanese che chiariscono forse un po’ meglio il senso dei miei “non mi piace”.
Ciao
Ennio
*
Caro Giulio [Stocchi],
sperando che i tuoi amici americani non ti abbiano preso in ostaggio dopo la vittoria di Bush, cerco di riprendere il discorso che stavamo facendo su guerra e poesia, in una condizione ancora più appesantita e oscura.
Di fronte al potere accumulato dall’apparato industriale e militare Usa, non me la sento di pretendere quasi più nulla dai poeti né di mettermi nei loro confronti a fare il predicatore, denunciare le piaghe del loro narcisimo e polemizzo sempre più stancamente con qualche amico heideggeriano, che s’interroga pensosamente su «La poesia nel tempo della privazione» (Ti allego un esempio lasciando anonimo l’autore).
[…]
Con te, a cui riconosco il merito di essere rimasto attento a questi problemi, vorrei – come già ho tentato con un pizzico di polemica in precedenti occasioni – procedere ad una *verifica dei poteri* anche della «poesia civile» (o come la vogliamo chiamare) in cui, a ragione o a torto, ti colloco.
[…]
In «Composita solvantur» Fortini ha messo in luce tutta l’amara clausura in cui la poesia è stata ridotta oggi in questa parte del mondo; e mi fa sorridere il patetico tentativo di certi suoi amici del Centro Studi Franco Fortini (a cui pure marginalmente collaboro) di esaltare post mortem il suo ruolo di poeta, proprio in questo momento e malgrado quella sua ultima raccolta sia un allarmato referto sulla poesia a conclusione di una sua parabola discendente: dalla possibilità dell’epica affiorata in «Foglio di via» all’autoironico fare i conti col ditino punto lavorando in giardino (che è poi quello in cui oggi è imprigionata la “nostra” poesia…).
Se dopo il 1990 ci si poteva chiedere che poesia scrivere di fronte alla guerra e oscillare tra il suggerimento amaro de «Le Canzonette del Golfo» e quello di «Dalle ceneri» di Ben Jelloun, oggi con la guerra permanente, la vittoria di Bush, i proclami da Far West leghisti, non torna forse attuale la domanda che si pose Adorno dopo Auschwitz: è più possibile scrivere poesie?
Esagero. Quella domanda era nobile e moralistica. A prima vista si presentava come una censura (o autocensura) che pareva colpire – chissà perché – solo i poeti (gli unici a parlare a vuoto? o impotenti contro il nazismo?… E gli scienziati? gli storici?). Ma Adorno, credo, pensasse a tutta la cultura occidentale. E il suo dubbio sulla poesia era dubbio sulla prospettiva umanistica. Era come dire: queste poesie che scriviamo non sono più all’altezza di avvenimenti come quelli accaduti ad Auschwitz.(Direi meglio: non rendono più conto della *bassezza* a cui è arrivato il progresso, la nostra civiltà).
Nella denuncia c’era implicito o no l’invito a scendere in questa bassezza, esplicitarla, riscattarla se possibile? Non so. Adorno, ancorato alla sua epoca e ai suoi ideali, a me è parso rimanesse su una posizione apocalittica, di rifiuto della cultura di massa, e di struggente nostalgia di una totalità umanistica perduta, incapsulata nella cultura religiosa.
Tu invece mi sembri ancorato ad un compito da poeta: dato che i tempi, bui per Brecht, Lukacs e Fortini, sono diventati buissimi, ti chiedi: «Non è il caso di articolare in altri modi il canto in modo da suscitare almeno una piccola scintilla in
quelle tenebre?».
E se fossimo arrivati al punto in cui il poeta deve interrompere il canto o di vedere come articolare in altri modi il canto e fare invece qualcosa d’altro assieme a uomini e donne? Magari anche per preservare una possibilità alla poesia (o al «mondo della tenerezza, del calore, dell’armonia, del colore, dei profumi e dei sogni che tutti, almeno per un attimo, hanno sperimentato da bambini»)?
Parli di «tutta quella politica che dovremo inventare». Ma porsi seriamente su questa strada significa , secondo me, dare anche uno scossone alle “certezze” di poeta che sembri mantenere e ripensare tutta quella tradizione poetica rivoluzionaria o civile che oggi non mi pare possibile riproporre anche nelle forme da te rielaborate.
Io non ho proposte “per i poeti”. Partecipo con un certo scetticismo ad una «rivista di poesia e ricerca», «Il Monte Analogo». Ho accettato l’occasione offertami di lavorare ad un manuale di storia sul Novecento, un po’ per colmare dei buchi di conoscenza, un po’ per ripensare la storia da cui veniamo.
Non è la scelta di uno che ha grande fiducia nella poesia, lo so. Ma non mi sentirei a mio agio nell’aspettare – come tu scrivi – che si accendano per conto loro «focolai di tensione politica» né mi sentirei giustificato a tenermi ben stretta «la mia tenerezza» (ce l’ho anch’io, lo sai…) e a scrivere poesie perché attorno a me incrocio solo «ebeti lustrati».
Con questo stato d’animo ho riletto con attenzione il tuo «In tempo di guerra», che mi hai spedito, provando a vedere se esagero o sbaglio. Ma non ho cambiato parere; e devo dirti sinceramente che non mi ritrovo in questa tua poesia portata all’idillio, alla trasfigurazione mitica, all’abbandono languido alla figura religiosa della mater dolorosa. Solo a tratti l’immedesimazione con la vittima (la donna stuprata) mi ha reso l’orrore degli avvenimenti. Mentre le strofe che denunciano la nostra indifferenza alla guerra e la degenerazione della democrazia americana mi sono parse rituali.
Preciso: dal punto di vista poetico e tenendo conto della tua obiezione. Tu in sostanza mi dici: Ennio, sbagli il bersaglio. Io scrivo poesie e non saggi politici. Non puoi leggere le poesie come fossero saggi politici, come sarebbe fuori luogo o oziosa un’analisi di «Stato e rivoluzione» per dimostrare che è «poeticamente debole».
D’accordo. Non misuro le tue poesie per una loro presunta efficacia politica. So che la poesia resta poesia e non è mai comizio, anche quando mimasse questa forma di comunicazione politica.
Ma nelle tue poesie c’è un contenuto politico esplicito e, pur concedendoti che una cosa è trattarlo in poesia e un’altra in un saggio politico, non mi pare possibile non misurarne *anche* la forza o la debolezza politica. Come mi pare giusto controllare *anche* la forza politica implicita in una poesia che parli solo di rose.
In tempi di guerra, non scompaiono gli alberi e i fiori, ma c’è la guerra. Il poeta può non nominarla, ma parlando di alberi e fiori, deve farmi sentire che sono alberi e fiori *in tempo di guerra*. Se no, fiori e alberi saranno decorazioni che coprono quella realtà e non forme che la svelano, magari più di una cronaca o di un saggio.
E comunque preferirei che l’orrore della storia fosse compreso razionalmente e emotivamente partendo direttamente dall’orrore (se si potesse…) o da libri che lo descrivono, da documentari che ne registrano alcuni segni, da testimonianze di vittime.
La mia preoccupazione è quella di vedere se la poesia, pur restando poesia, regga rispetto alla realtà, in questo caso alla guerra, se non “stona” con la realtà della guerra.
Una realtà per noi solo ipotizzabile, immaginabile, certo. La nostra generazione non ha esperienza diretta di guerra, credo; e può attingere solo al serbatoio spesso inerte della tradizione letteraria e politica: un immaginario di cui in parte diffido e che viene usato spesso per distrarre dall’orrore reale (Hai sentito la porcata di Baricco sull’«Iliade»?).
Vorrei, insomma, una poesia che non riproponesse nella sua inermità il desiderio secolare di tenerezza, di pace, di amore; e che non inveisse a vuoto, in modi retorici e abusati, contro assassini e padroni della terra.
Ma per farla, cosa deve cambiare in noi e attorno a noi? E cosa possiamo fare nel frattempo?
Ad Adam Vaccaro che anni fa m’invitava a collaborare alla «Carovana dei poeti contro la guerra», io proposi di sfuggire a quello che egli stesso riconosceva come un rituale autoconsolatorio, di non parlare della guerra d’oggi («infinita», «per la democrazia», «umanitaria», «asimmetrica»… definizioni così sparpagliate indicano il nostro sconcerto…) come fosse ancora la Seconda guerra mondiale o la Resistenza; e cioè di non fermarsi pigramente sugli aspetti diciamo “eterni”, “antichi” e poco o nulla su quelli “nuovi” della guerra d’oggi. Sui quali c’è da studiare e studiare. Che consapevolezza c’è che l’orrore di oggi non è più l’orrore di ieri o dell’altro ieri o quello “eterno” della “eterna natura umana”? […]
Caro Ennio, ho letto la lunghissima lettera a Giulio Stocchi. E la frase che mi ha coinvolto di più è questa: “Vorrei, insomma, una poesia che non riproponesse nella sua inermità il desiderio secolare di tenerezza, di pace, di amore e che non inveisse a vuoto, in modo retorico e abusato, contro assassini e padroni della terra.”
Io di questo ho scritto per svariati poemetti nella mia presenza nel tuo blog, e non mi sembra poco, e non mi pare di aver “inveito a vuoto”, né in modo “retorico o abusato” contro “assassini e padroni della terra”. Anche questa probabilmente è “politica”(?),e io ne ho sempre parlato con forza, mi pare, e convinzione. Certo i miei versi sono sempre stati rivolti a questa nefasta problematica, forte e primaria nel nostro momento storico, anche con un occhio altrettanto sempre rivolto al risultato estetico.
Non ti pare che ad uno che si dichiara “soltanto un poeta” sia sufficiente? A me sembra di sì. Con affetto, Arnaldo
No, caro Arnaldo, devo ribadire che a me non pare sufficiente. Lo dimostra lo sconvolgimento del mondo in cui siamo costretti a sopravvivere. E sia chiaro che non è critica che riguardi soltanto la *tua* poesia. Essa vale per tutte le figure (poeti, filosofi, tecnici, operai, ecc.) che nel loro settore fanno delle opere *secondo le regole* tramandate o inventate accettabili o persino egregie.
da 1° poema (di un) idiota
Forse
io vedo
nella vita
tutto un qualcosa
di profondamente bislacco
come una palude percorsa
da stupidi
martiri
e santi.Oh
i grandi capoccia
dicono questo
speculate
speculate
speculate
speculate sui vostri consensi!
speculate sui vostri rimorsi!
speculate sulle vostre disgrazie!
1968
—————————————
da 5° Poema (di un) idota
Rassegnazione?
È tempo di rivolte?
(quante volte ripetuto!)
Spesso ho visto
dove il limite è affossato
ribellioni oscure
svolgersi
dietro parole attive.
Fragili mani
hanno applaudito
le posizioni erette delle masse.
Queste totalità
queste pluralità
queste metafisiche necessità
becchini della nostra carne!
La libertà è un dato di fatto,
non lo dovete scordare!
Come un libro tarlato
e i vermi siamo noi.
1970
—————————-
da 6° Poema (di un) idiota
L’attore gira e rigira la parte
la testa canuta barcolla
d’arsura di vita sincera,
ammazza le mosche
gesticola lo sguardo lontano
sputa la massa ridotta a platea.
1970
———————————–
E oggi proclamo pietoso questo secolo già finito in una pozza
con tutti i suoi misteri e chiassi di cortile: è una losca ripetizione,
come un corteo di morti ad una festa, una goccia sulla tinozza
che assorda di voci ancestrali una tranquilla riflessione.
2004
——————–T’aspettavo come un rinascimento acerbo sulla soglia dei merletti
di un linguaggio indistinto, egoista dei mattini e dei ghiacciai,
e dai chiarori di un sepolcro una giustizia, come l’epitaffio
di un marmo dottrinale è scheletro di una gravida bilancia!
2012
————————————
Prove su altri autori
Io non sono un ospite dell’epoca
e non sono nemmeno un mercenario.
Mi distacco dal barocco con semplicità
e sono cristallino come una geometria laconica!
Il congedo stornava l’unità degli affetti.
I libri erano pronti alla morte nella casa registica.
Già l’immortalità per il poeta faceva l’occhialino:
voleva tutti i libri per sé, come se le mie orme segnassero
soltanto sulle strade dei grandi il mio passaggio.
La lentezza del vivere ai tempi di Alessandro – questo
cigno d’argento! – scaricava su di me la rabbia di Catilina,
mentre me ne andavo come una zavorra giù su stranieri
battelli per ritrovare nella vita un nuovo ignoto – senza nome,
senza destini ! – come un recesso di un lapsus casuale.
E la città discuteva con campanili, cupole e banderuole,
come vecchie guerce ai crocicchi che si truccavano di rosari
con le palline nere degli ovini in fila sulle tracce dei traini…
indossavo un cappotto di lasting e mangiavo caramelle Noki-Poki,
il capo reclinando beato, deponevo i miei occhi su cuscini richelieu!
Italia, avanti, come nel passato Rinascimento!
Non cercheremo, né chiederemo i chiodi per le bare.
Al Teatro smorzeremo gli spari cittadini e un rosso ponsò
da dietro le quinte ai loggioni spargeremo con occhio di bue
e saprete che il mio cammino tranquillo è senza pace, e non ha requie.
La morte è lieve per chi incide sul marmo il proprio necrologio.
Alle parole, consunte come i gradini appesati degli altari divini,
strapperò il suono che il nostro orecchio mutarono in polvere
per ascoltare da pulpiti di legno e d’avorio le omelie gesuitiche
dal colore del piscio equino, giallastro, su ostie immacolate!
Di dove mi veniva quel grave senso di menomazione… forse il carro
non era funebre perché non spargevano fronde verdi d’abete?
O forse non c’era la paglia sulle candide chianche… e il carro urlava?
La colazione era stata verde come il nome della città… barocca
la fatica del pane inacidito che lucidava il rosso rame dorato della pietra.
Mi rischiaravo il futuro coi denti del passato, la negazione era sulla soglia,
la corruzione al capezzale del martirio sonava il trionfo dei requiem, mentre
nella mia mente alloggiava, senza pagare un affitto nucleare, il lapsus di un poeta decollato: senz’ali affrontava il patibolo della propria Annunciazione…
dagli altari se ne scendevano giù tutte le Madonne schifate – dalle esecuzioni!
Campo Marino/Maruggio, 11 luglio 2014
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antonio sagredo
Caro Sagredo, non ho capito molto della sua poesia, ma non me ne vergogno dato
che le nostre espressioni poetiche sono proprio lontane. Ho invece capito lo scrivere di un diffuso pessimismo sulle cose che ingarbugliano il nostro tempo. I quadri diffusi dei
nostri malanni, le nostre piaghe. Mi pare che i nostri linguaggi siano molto distanti, e
quasi impossibili da associare: il mio di una semplicità quasi infantile, il suo di una complicazione inesorabile. Ma non importa. Forse quello che voleva comunicarmi
era, in generale, la sua partecipazione poetica ai problemi globali del nostro pianeta,
cosa che io non riesco a fare, invece intendo occuparmi dei problemi uno alla volta.
Confido di essermi spiegato un poco, se non sono riuscito a farlo, mi perdoni. Comunque la ringrazio dell’attenzione, e le auguro un buon proseguimento d’anno nuovo. Arnaldo Ederle
Una prosa poemetto di spontanea e lirica ispirazione pur nella tragicità dell’argomento. Un amarcord che riporta al senso autentico della vita, a un messaggio di amore, di fratellanza umana, a un ripudio della guerra. I termini Dio e Nazione sono giocati in senso positivo, come punti di riferimento di una comunità che si indentifica in valori comuni. Ederle sembra dirci che dobbiamo guardare al passato per costruire il nostro futuro, con questa sua poesia che pare fluire spontanea come l’acqua di una fonte. L’ottuagenario poeta veronese è diventato anche un saggio.
* Si parla di cultura, ma vale anche per la poesia…
SEGNALAZIONE/MEMENTO
La cultura reca e denuncia il marchio della contraddizione, rivela tendenze oppositive, porta con sé il peso inquieto dell’incongruenza.
Per questo il critico della cultura deve ricorrere necessariamente agli strumenti della dialettica. Esattamente come fa Adorno quando smaschera la natura ancipite e ambivalente della cultura, quando rivela e dimostra come questa trascenda la vita ordinaria e al tempo stesso la riproduca. Qui riposa l’inquietudine di chi non si limita a ‘fare’ o ‘diffondere’ cultura, dal momento che ha a cuore la critica delle forme e dei processi culturali. È compito della critica infatti sostare nelle fessure della cultura per denunciarne le antinomie di cui essa stessa si alimenta. L’elaborazione filosofica, artistica e letteraria apre all’alterità dell’utopia, favorisce visioni e processi alternativi rispetto alle opposizioni della vita ordinaria, allo stesso tempo però l’industria culturale, così come l’omologazione delle tendenze e delle mode, perpetua l’asservimento dei soggetti alla riproduzione cieca dell’alienazione e dell’ingiustizia.
Scrive Adorno nel saggio dedicato ad Aldous Huxley e l’utopia: «La lotta contro la civiltà di massa può consistere soltanto nella dimostrazione del legame fra questa e la perpetuazione dell’ingiustizia sociale. Non critichiamo la civiltà di massa perché essa dia troppo agli uomini o renda troppo sicura la vita, ma perché essa aiuta a far sì che gli uomini ricevano troppo poco e cose troppo cattive, che interi strati vivano in una miseria interiore ed esterna spaventosa, che gli uomini si adattino all’ingiustizia». In cerca di equilibrio, arroccate su questo crinale dialettico, critica della cultura ( Kulturkritik) e società ( Gesellschaft) si fronteggiano allestendo una tensione polare. La stessa tensione da cui scaturiscono e in cui ricadono anche le creazioni artistiche, dal momento che non sono per Adorno «né immagini riflesse dell’anima, né personificazioni di idee platoniche, bensì ‘campi di forze’ fra soggetto e oggetto ».
Quando questa tensione viene occultata o rimossa, quando l’opera d’arte si stacca illusoriamente dal vissuto concreto e contraddittorio di chi l’ha generata, allora la cultura diventa sterile e autoreferenziale. La critica della cultura è per Adorno prima di tutto critica della “cultura in sé”, smascheramento di tutte le forme artistiche ed espressive che si presentano come un ‘tutto’ separato e autosufficiente. Se la cultura ha come oggetto di interesse nient’altro che essa stessa, allora diventa un feticcio facilmente spendibile sull’altare dei mercati.
(da https://francosenia.blogspot.com/2018/12/il-volto-della-medusa.html?spref=fb&fbclid=IwAR1FNPUy0WTVV2cZ9jY4n2EJAKQy_oWttZG2Dmw_zI0MoVxPjTdwdQVU87Q)